Aurora Vannucci 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021

Frequenta il Liceo Linguistico “G.D. Romagnosi” di Parma.
Due libri pubblicati e due in attesa di pubblicazione.
Ha vinto sessanta concorsi letterari.
FACCIAMO CHE
Quegli sguardi. Quei maledetti sguardi. Quei maledetti sguardi che non erano mai rivolti a me. Quelli erano gli sguardi dei miei compagni di classe, fortunatamente assenti in quel momento. Ero rimasto solo in quella classe vuota, completamente solo, come mi sentivo anche quando era piena. Mi guardai le mani: sì, esistevo. Strano. Raccolsi tutti i miei libri e i miei quaderni e li gettai alla rinfusa nello zaino, pronto ad andarmene da quell’ aula infernale dove passavo la metà della mia vita. Mai uno straccio d’amico ad aspettarmi all’ uscita: “Eccone un altro che fa la vittima!” direte voi: “Ma comprati una bicicletta e vai in centro, qualcuno che conosci lo trovi. Fai qualcosa, fai tu il primo passo”. “Ma quale primo passo potevo fare? Ok, 12 anni li avevo, la bicicletta la potevo comprare, ma: “Oh, aiuto, il mio Niccolò che quasi non va in giro a piedi da solo, che è già tanto che non usa ancora il triciclo, che se ne va in centro in bicicletta?”. La mia imitazione in farsetto di mia madre attirò soltanto qualche assonnato bidello che si reggeva ad uno spazzolone per lustrare i pavimenti. Ero in corridoio, i miei passi rimbombavano al ritmo dei miei pensieri. No alla bicicletta, sì al nuoto, sport che all’inizio avevo scelto personalmente durante un mio (raro) momento d’ orgoglio, ma che si era poi tramutato in obbligo poiché considerato attività “salutare”. Così passavo i miei giorni in vasca mostrando la mia straordinaria dote: la coordinazione. Sì, proprio quella che mi faceva sembrare un dugongo. I miei compagni erano invece dei delfini e (beati loro) realmente interessati a quella disciplina. Invece i miei week-end li passavo a pranzare da mia nonna poi a studiare, la domenica mattina a messa e nel pomeriggio a visitare la casa di chissà quale autore. Già, perché i miei genitori primeggiavano nel campo della scrittura ed io avevo maledettamente preso da loro: mio padre era un giornalista, mia madre una professoressa d’italiano che nel tempo libero scriveva poesie. Io invece mi dedicavo ai racconti, l’ unica cosa che potesse realmente rendermi felice. Scrivevo ogni volta che ne avevo l’occasione, il che…beh, sì, faceva di me un tipo un po’ asociale. Ma lo ripeto, non faccio la vittima. Chi fosse stato al mio posto avrebbe potuto percepire gli sguardi gelidi di Filippo e Lorenzo, diventati i miei principali antagonisti. Erano loro che mi avevano escluso, messo da parte. E pensare che all’ asilo eravamo indivisibili: andavamo al parco giochi insieme o a casa l’uno dell’altro e le nostre famiglie si conoscevano bene. Grazie alla mia fantasia inventavamo sempre nuove avventure… ma erano altri periodi.
Uscii da scuola ed una volta giunto a casa mangiai e studiai senza avere più il tempo di riflettere, ma durante la notte il mio subconscio si mostrò succube dei miei pensieri diurni e difatti sognai proprio Filippo e Lorenzo. Io, presente nel sogno, ero in una stanza, pareva in tutto e per tutto “Il Circolo”. Quello era il luogo dove da bambini sognavamo sempre di introdurci perché, essendo al fianco del nostro parco prediletto, attirava la nostra attenzione. Non era nulla di speciale, un palazzetto circolare composto al suo interno da un breve ma spazioso corridoio e da un’ampia stanza dove gli anziani del posto si recavano per giocare a tombola, burraco o simili. Noi credevamo che, racchiuso in quel luogo, vi fosse nascosto un prigioniero e che quei signori del Circolo (di cui, fra l’altro, faceva parte anche il nonno di Lorenzo) lo tenessero in ostaggio. Solo una volta eravamo riusciti ad entrare nel Circolo quando ormai eravamo più grandi e, pur non essendone consapevoli, quello sarebbe stato l’ultimo pomeriggio passato insieme. Nonostante ci fossi entrato solo una volta quell’edificio mi era rimasto impresso nella memoria. Rivedevo gli appendini rovinati, il muro bianco scrostato, il tavolino coperto da un telo verde acqua dove il presidente segnava gli assenti e i presenti. Rammento anche che quel giorno era fine estate, la pioggia batteva contro i vetri ed i fulmini danzavano nel cielo, simili a cavalli imbizzarriti, alimentati dal suono del tuono, musica per le loro orecchie. Filippo mi aveva appena scritto che lui e Lorenzo erano riusciti ad entrare nel Circolo ed allora io, nonostante la tempesta, li avevo raggiunti. Già quando varcai l’uscio, però, mi accorsi che qualcosa era cambiato: i due, quasi imbarazzati, mi salutarono con distacco. Ma come? Non erano stati loro ad invitarmi? Un: “Com’è andata l’estate?” da parte di Lorenzo, che però non pareva nemmeno interessato alla risposta. Non giocammo, nonostante la mia volontà di terminare la storia del ragazzo rapito dagli alieni. E lì il dubbio mi assillò: forse quei due erano cresciuti troppo in fretta? Avrei più giocato con loro o con qualcun’ altro? Forse Filippo mi aveva invitato lì per quel motivo, per farmi notare che non c’era nessun ostaggio, nulla di nulla, che tutto era frutto della mia fantasia, che quel momento doveva segnare la fine della mia infanzia. Il ricordo di quel pomeriggio ormai passato riaffiorava mentre dormivo: ma si può pensare in maniera così logica e razionale mentre si dorme? Nel mio immaginario, che pareva tanto realistico, qualcosa però non quadrava. Il tempo era trascorso e Filippo e Lorenzo erano di nuovo di fronte a me, ma in mezzo a noi era collocato un ampio vetro. Io però udivo benissimo le loro parole, e loro le mie: “Com’è andata l’estate?”. Incredibile. Le stesse identiche battute di 3 anni fa, di quell’ ultimo pomeriggio… E loro parevano, a causa di alcuni giochi di luce, dai tratti più infantili, ma la loro voce non era acuta e stridula come allora. Toccai il vetro: ma non era solido? La mia mano lo trapassava, ma quando ciò avvenne percepii un gelo inesorabile partirmi dall’indice e divamparmi come un fuoco ardente in tutto il resto del corpo. Era un freddo glaciale che quasi bruciava. Nonostante il dolore volevo raggiungerli, non mi aveva bloccato il temporale 3 anni prima, perché doveva bloccarmi il dolore adesso? Dovevo parlare con loro, chiarirmi. Perché volevo mettere fine a quei silenzi persistenti, a quell’indifferenza nei miei confronti, che forse in alcuni momenti si tramutava perfino in disprezzo. Il mio cuore pulsava lentamente, o così mi parve. Ghiacciato ma ardente, pareva stesse per fermarsi o per esplodere. ”Devo sbrigarmi, qui ci lascio le penne” pensai e saltai agilmente dall’altra parte del vetro. Forse era peggio il gelo negli sguardi di quei due: ”Perché non te ne torni dalla tua parte?” subito mi aggredì Lorenzo:
“Scusatemi, volevo solo dialogare con voi” risposi io.
“Hai dialogato abbastanza, no? Vattene via.” fece Lorenzo.
“Lascia, vado io da dove è venuto lui”. Ci voltammo verso Filippo, la sua decisione mi scosse: voleva davvero trasferirsi dall’altra parte? In quel momento mi parve che non fosse nemmeno ostile verso di me.
“Se vai di là tu, vengo anche io.” specificò subito Lorenzo, ma il ragazzo era di un altro avviso:“ No, non seguirmi, almeno stavolta. Lasciami solo per 5 minuti a riflettere, cosa che non faccio da tempo.”. Quelle parole, dette da un ragazzo che iniziavo a considerare un mostro, mi colpirono. Balzò dall’altra parte senza mostrare alcun tipo di dolore.
Io ero con Lorenzo e ora Filippo era quello solo. Era strano, era… nuovo, totalmente nuovo. Mi svegliai: le 7.20. Dovevo correre se volevo arrivare a scuola in tempo. Abitavo leggermente fuori città in un paesino (chiamiamola frazione) dove vivevano anche i miei ex-amici. Feci colazione e mi vestii in fretta, salii in auto e raggiunsi insperatamente la scuola, addirittura qualche minuto prima dell’inizio delle lezioni. Varcai il cancello e sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla.
Mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Lorenzo.: “Aiuto!” pensai ” “Che vuole ancora questo?”
” Bro, dopo la scuola da me, vero?”.
Che? Era forse sotto effetto di psicofarmaci? Da quanto tempo Lorenzo non mi rivolgeva la parola non sarei riuscito a calcolarlo, mentre ora mi domandava di andare a casa sua.
Lo guardai negli occhi e mi parve sincero, naturale:” Ti vedo indeciso, perché?” mi domandò.
Ero confuso:” Ma tu non mi sopporti!”.
Mi fissò, pareva afflitto. Che avevo detto di male? Era la verità. Cercò di toccarmi la fronte ma io mi scansai: ”Tranqui, cercavo solo di provarti la febbre. Io non ti ho mai odiato, amico, chi ti ha messo in testa ‘ste robe? Fa una brutta fine il bastardo che vuole rovinare la nostra amicizia!”.
Nostra amicizia? Ma era uno scherzo? Decisi però di assecondarlo e di stare al gioco, dovevo capire qualcosa in più. Fu il sogno che avevo fatto a convincermi a non arrabbiarmi con lui e che poteva esserci qualcosa sotto che non riuscivo a comprendere. Entrammo in classe e fu strano: tutti mi rivolsero la parola, anche solo per salutarmi. Venni circondato da tre miei compagni con cui parlavo raramente, e scoprii che erano simpatici. Mi accorsi dell’assenza di un ragazzo, e non di uno qualunque. Difatti Filippo entrò alle 8 precise, dietro di lui la prof, e non venne accolto come al solito. E’ vero, aveva al fianco la docente, ma anche quando arrivava in ritardo iniziava una festosa confusione. Ora nulla, muti! Anzi, sembravano quasi squadrarlo dalla testa ai piedi perché pareva diverso…No, era diverso… indossava, diversamente dal solito, dei jeans e vestiva, diversamente dal solito, una felpa molto sobria, monocolore. Diversamente dal solito calzava scarpe comuni, non sneakers all’ultima moda. Diversamente dal solito…si sedette al mio posto.
Rimasi sbigottito, mentre Lorenzo mi faceva cenno di raggiungerlo in ultima fila. Ero mezzo addormentato quella mattina e non avevo prestato attenzione al mio abbigliamento, ma adesso… ora avevo quasi paura di volgere il mio sguardo in basso e di notare… pantaloni da ginnastica neri e felpona del medesimo colore guarnita di disegni viola un po’ tetri. Mi bastò guardarmi la manica per capire che l’idea che mi ero fatto era concreta: io e Filippo ci eravamo scambiati i vestiti, il posto, la vita. Me ne sfuggiva però la ragione: era colpa del sogno? Ma l’avevo fatto solo io… O no? E adesso? E quindi io dovevo andare ai suoi allenamenti di calcio? E comportarmi come avrebbe fatto lui? Ne sarei stato capace? Queste preoccupazioni mi stritolavano come un serpente, mi toglievano il fiato. Era per me una vita nuova, non sapevo quali insidie potesse celare. Avevo domande a iosa ma nessuno, tanto meno Filippo, poteva aiutarmi. Ero smarrito. Ero forse inferiore a lui? Per tutta la lezione lo fissai, ma lui non contraccambiò. Pareva immerso nel suo mondo, ma anche confuso. Ogni tanto gettava un occhio alla classe, alla ricerca di qualche sguardo solidale. Io ero quasi pronto ad offrirgli il mio, ma non si voltava mai nella mia direzione. Uffa, non mi notava! Che si arrangiasse! Avevo mille turbamenti, ma ero anche curioso di sperimentare la sua vita, molto più eccitante della mia. Ne ero sicuro, non mi sarei annoiato. Avrei avuto amici fedeli ed avrei appreso un nuovo sport (ma, considerando la mia velocità e la mia coordinazione, potevo risultare solo un handicap per la squadra... o forse anche quelli erano mutati?). Le ore successive le passai a riflettere, molti punti della vicenda mi erano ancora oscuri: per esempio, come mai il mio volto e la mia voce erano rimasti invariati? Il mio fisico era invece cambiato, era più atletico e slanciato, forse merito degli allenamenti di calcio. Ed anche i pensieri erano davvero i miei? Ad un certo punto il mio turbine di riflessioni fu interrotto: “Garini, alla lavagna.”. Ero io. Ero io Filippo Garini. Mi accorsi che Filippo (o meglio, io. Già, ma come posso chiamare una persona diversa da me che però interpreta il mio ruolo?) si stava per alzare, ma fu interrotto dall’insegnante che rimarcò il mio cognome. Ero abbastanza sicuro di me, nonostante la matematica non fosse il mio forte, il giorno precedente avevo fatto gli esercizi e ripassato. La prof parlò e… mi parve arabo. Non avevo capito una sola parola di quello che dovevo fare. Come trasformare quelle parole in numeri? Rimasi lì, a bocca aperta. Il mio clone alzò la mano ripetendo esattamente tutto quello che avevo studiato io il giorno precedente. Mi stupii di lui: ero io, ero io! Aveva rubato la mia identità! Aveva risucchiato le mie conoscenze, i miei talenti! Era nel mio corpo, il cervello era il suo, mentre le abilità erano le mie. Sarebbe stato lo stesso anche per me? La prof non mi assegnò alcun voto, mi disse solo di seguire le lezioni con più attenzione. La campanella suonò, era ora di andare a casa. Venni circondato dai miei compagni di classe, mentre notai che il mio clone si stava preparando in solitudine per andarsene. Era lui che sarebbe uscito per ultimo stavolta, non io.
Lorenzo mi agguantò per il cappuccio della felpa: “Stamani eri silenzioso. Vieni, mio padre ci aspetta”. Da quello che avevo capito, gli accordi erano che io sarei andato a mangiare da lui, poi avremmo fatto i compiti: “Ma giusto un’oretta, non di più.” mi aveva rassicurato lui. Io poi sarei andato ad allenamento dalle 17 alle 19.30 e l’avrei successivamente raggiunto al Circolo. Così fu. Salii in auto, mentre Lorenzo continuava a parlare di argomenti a me ignoti, come il trap. Anche a pranzo l’antifona non cambiò: cercava il mio supporto sul fatto che domenica al Milan non fosse stato assegnato un rigore: “Ma era grosso così” esclamò allargando il più possibile le braccia. Ma cosa ne sapevo io? Non seguivo più di tanto il calcio ma ricordavo che Filippo era juventino. Dunque cosa dovevo fare? Dargli ragione o dargli torto? Mi limitai a fare: “Mh-mh.” ingozzandomi con una nuova fetta di torta: “Almeno così non mi chiederà altri pareri.” pensai. Ma mi sbagliavo: “Era rigore per te? :” Mmmmh.”. Lorenzo si aspettava una reazione diversa: “E pensare che l’arbitro non è nemmeno andato a guardare la VAR. Tu ci saresti andato?” Ma perché continuava? Era forse un’inquisizione?: “Mmmmh.” mugugnai con una nuova fetta in bocca.
Lui continuava a fissarmi: “Sei strano…E pure un maiale, guarda quanta torta mangi!” sbraitò togliendo dal tavolo il vassoio dove del dolce rimanevano ormai solo le briciole. ” Fcufa, non è colpa mia. Poffiamo andare in camera tua?” bofonchiai con la fetta in bocca. Mi ero scordato dell’abilità culinaria della madre di Lorenzo e ricordarmene ogni tanto non poteva fare poi così male. “Sì, dai, vieni!” esclamò conducendomi verso la sua stanza. Me la ricordavo diversa, molto più ordinata. Ora il mobilio era ridotto all’essenziale, vi erano solo un letto, un armadio ed una scrivania sormontata da alcuni scaffali. Il muro era stato recentemente verniciato color sanguigna, ma in molte zone, soprattutto vicino alla scrivania erano stati appesi piccoli poster di cantanti, carte di chewing-gum, figurine e loghi di marche celebri. Mi ricordavo che Lorenzo era un appassionato di arti grafiche ed aveva installato sul computer un programma per realizzarne sempre di nuove, ma non mi aspettavo di trovare una camera tappezzata da sue creazioni. Lorenzo mi fece sedere su uno sgabellino di ferro e non fu per nulla facile farsi strada fra i suoi vestiti ed il suo skateboard gettato per terra.
Condividi la scrivania con me, come al solito. Tu fai italiano, io matematica. Dammi il tuo libro”. “Perché?” chiesi io. ”Perché ci organizziamo come sempre: io faccio i problemi sul mio e sul tuo e tu i compiti di antologia sul mio e sul tuo.” Ecco come facevano quei due ad avere sempre così tanto tempo libero! In un’ora finii i miei compiti e Lorenzo lo stesso. Mi fece ascoltare un po’ di musica trap (ma cosa ci trovava in quella roba?), mi parlò ancora di calcio (per la mia gioia) e m’illustrò tutte le grafiche che aveva creato con il computer. Poi arrivò il tanto temuto allenamento. Filippo e Lorenzo giocavano insieme, uno a centrocampo e l’altro in porta nel Villanova, la squadra del nostro paese. Dovevo calarmi nei panni del giocatore con la maggior media di assist del campionato provinciale, ne sarei stato capace?” “Domenica affronteremo il Salmì. Sarà una partita decisiva: siamo primi a pari punti.” m’ informò Lorenzo con le sue chiacchiere, mentre ci recavamo negli spogliatoi. Mi augurai che da qui a domenica ognuno fosse tornato nella rispettiva vita, volevo evitare una figuraccia, anche se la figuraccia alla fine non l’ avrei fatta io. Con molta naturalezza salutai i miei compagni (non ne conoscevo mezzo) e mi cambiai, come se fossi nato e cresciuto in quella squadra. Avevo il timore che, durante l’allenamento, i miei piedi a banana prendessero il sopravvento sulla decennale tecnica di Filippo, ma non fu così. D’altronde lui aveva acquisito le mie capacità, era naturale il contrario… quello che stranamente mi mancava era la conoscenza delle regole. Non capivo il fuorigioco e passavo il pallone a chi era sempre al di là della linea. Il mister, un uomo sovrappeso con un orribile berretto in testa e con (pochi!) sottilissimi capelli grigi incollati alla nuca, sbraitava facendo oscillare i raccapriccianti strati di grasso sotto il mento che gli davano l’aria di un bulldog:” Gorni! Cosa combini, scimunito! Non sai più giocare a calcio? Ora piglia la palla e fammi vedere qualcosa di decente, pare che hai dimenticato le regole!”. Volevo dirgli che lui non conosceva il congiuntivo, ma tacqui, conquistai quella maledetta sfera e feci un perfetto filtrante a smarcare l’attaccante, che non era in fuorigioco. Credevo di avere zittito quell’ignorante, ma non fu così. Effettivamente, anche i miei compagni mi guardavano storto.
Fu Lorenzo il primo a chiedermi:” Perché l’hai data a Martin?”.
“Perché era smarcato, no?:” Vieni un secondo, Gorni.” mi chiamò il mister.
Lo raggiunsi e lui mi prese per la spalla: “Cosa fai, capra! Quello è l’attaccante avversario e tu gli hai dato il pallone così, con…con…con…leggerezza. Anche in partita farai così?”. Non so cosa mi prese. Forse perché sbagliava i modi verbali, o forse perché mi aveva dato della capra. Ricordo solo che tutte le sonnacchiose cornacchie che popolavano il campo erano volate via e che i miei compagni si erano tappati le orecchie. Poi la decisione fatale del mister: ora come glielo dicevo al vero Filippo che la sua carriera calcistica era definitivamente rovinata? Ed era colpa mia, che avevo osato ribaltare i ruoli gerarchici del campo. Mi vergognavo quella sera, mangiavo in silenzio senza alzare lo sguardo mentre il brodo m’invadeva con il suo tepore. Avevo combinato qualcosa che Filippo sicuramente non meritava: mi aveva sempre parlato del calcio (quando mi rivolgeva ancora la parola, ovviamente) della sua più grande passione, la sua unica ragione di vita. E adesso era fuori squadra per colpa mia. Un dubbio mi pervase: ma lui? Come se la stava cavando nei miei panni? E sapeva il motivo di questo scambio insensato? L’ indomani mi sarei recato nella palestra in cui nuotavo dove lui ora si allenava al posto mio, volevo parlargli a quattrocchi e in classe non ce l’avrei mai fatta (speravo ovviamente che anche lui non si fosse comportato male in piscina). Quella sera mi recai al circolo come promesso a Lorenzo. Ad aspettarmi, oltre a lui, c’era quel ragazzo al quale avevo passato il pallone credendolo un mio compagno, Martin, ed un altro del Villanova, Sebastiano. Erano appollaiati su un muretto con le loro bici appoggiate per terra:” Eccomi, che facciamo?” ” Nulla, come al solito?” rispose Lorenzo scrollando le spalle. Uno fece partire la musica dal cellulare (vi lascio indovinare il genere!). Seratina proprio niente male, ci fissavamo sbadigliando mentre ascoltavamo Tha Supreme.
Ad un certo punto Sebastiano squarciò il silenzio con una domanda inaspettata, rivolta a me:” E’ da un po’ che non ti vedo con la Marti, avete rotto o la stai trascurando?”:” Eh? La Marti?” intuii che Filippo fosse fidanzato con questa fantomatica “La Marti”, ma non potevo ovviamente sapere se si fossero lasciati o meno. ” La sto trascurando perché ho molti impegni.” risposi. ”Ma tu stalle alla larga, è sempre la mia ragazza.” affermai cercando di darmi un tono da duro. Filippo avrebbe fatto così? L’altro parve surriscaldarsi un poco:” Hey, non insinuavo niente. E’ la tua ragazza e…”
”Avete visto che rigore che c’era in Milan-Sampdoria?” mi venne in soccorso Lorenzo. Aveva capito che l’atmosfera era troppo tesa. Fortunatamente riuscì nel suo intento di deviare la conversazione. La nuova banda del circolo però non mi piaceva: parlavano solo di calcio, ascoltavano il trap… erano troppo comuni e noiosi. Sognavo di calarmi nei panni di Filippo, di godere della sua popolarità, ma ora che avevo realizzato il mio sogno mi trovavo in un mondo che non mi apparteneva. Avevo degli amici, sì, ma forse solo per convenienza, chi poteva dirlo? Filippo era un vincente, ma se un giorno si fosse presentato un ragazzo ancor più vincente di lui, forse Lorenzo e gli altri sarebbero passati dalla sua parte. Provavo solo il forte desiderio di tornare a casa e mettermi a scrivere, invece dovevo rimanere a conversare con loro. Quella notte non sognai nulla ed il giorno dopo fu tutto esattamente come prima: da Lorenzo, poi allenamento, poi casa, poi circolo. Quella mattina non mi avvicinai a Niccolò (cioè a me stesso, o meglio a quello che Filippo era diventato al mio posto).
Era isolato, e… ma un attimo, una volta ero io quel Niccolò che soffriva in silenzio. Anche Filippo nel mio corpo stava vivendo quell’esperienza? Appena a casa mi guardai allo specchio: questo corpo era alto, atletico. Non ero io, io mi sentivo, con le mie imperfezioni, perfetto. Io portavo gli occhiali ed avevo le orecchie un po’a sventola, ma, se prima non mi sopportavo per questo, ora non attendevo altro che riavere indietro il mio corpo. Ero uno come tanti. Non brutto, non bello. Io, me stesso. Non volevo più essere come Filippo, che si curava e teneva particolarmente al suo aspetto fisico. Amavo più Niccolò Martinelli che il corpo di Filippo Gorini: ”Niccolò Martinelli, sì, sono io.” ripetevo cercando di convincermi. Avevo preso coscienza di essere Niccolò Martinelli, non uno fra i tanti. Ed avrei dato tutto pur di tornare nel mio corpo imperfetto/perfetto e riacquistare le mie capacità. Dovevo subito incontrare il ragazzo che era entrato nel mio corpo. Volai verso la piscina, ero deciso a non nascondermi più e a dirgli che anche se io avevo sbagliato a farmi espellere dalla squadra, lui molto prima aveva commesso un errore ancora più grosso, ovvero isolarmi, perché nessuno merita di essere messo da parte solo perché può sembrare diverso. Con questi pensieri correvo, al crepuscolo, verso la palestra. Sbuffavo ed ansimavo: con questo fisico ero rapido e scattante, già, ma io volevo il mio. Sapevo che avevamo entrambi sbagliato e dovevamo scusarci e ricostruire un’amicizia fra noi, magari più sincera e meno infantile. Sarebbe sbocciato questo legame così puro come i fiori, in quel marzo già così caldo. Il cielo, di un arancione acceso quasi inquietante, pareva l’esplosione di una bomba atomica. Facevo slalom fra le auto ricevendo insulti, ma con la testa bassa e un obiettivo da raggiungere. I miei occhi erano due piccole fessure verdi che miravano solo il palazzetto, andavo avanti come un rullo compressore, sferzavo il vento con le mie braccia come i coltelli con la carta. I lampioni si accesero, le vetture rallentarono: ero nel parcheggio. Non dovevo mollare nonostante la stanchezza: affannato, ripresi a correre, stavolta più lentamente. Se i miei calcoli erano giusti e se le abitudini di quel Niccolò erano rimaste le mie, allora lui si sarebbe trovato nel bar del centro sportivo a sorseggiare una bevanda calda, poi circa 20 minuti dopo sarebbe entrato in vasca. Difatti lo notai al tavolo, avvolto nel suo enorme giubbotto e nella sua solitudine. Nemmeno il calore del té poteva farlo evadere dal suo gelo interiore. Mi accorsi che aveva un taccuino aperto sul tavolo.
Mi posizionai davanti a lui ansimando: ”Ti devo parlare.” Non parve particolarmente stupito nel vedermi.” “Anche io” mi rispose “Ti devo delle scuse.” M’invitò a sedermi al suo fianco ed io obbedii. Fissavo il té davanti a lui, accennando un sorriso malinconico. Iniziò inaspettatamente a parlare: ”Sto vivendo la situazione che tu hai vissuto finora e devo ammettere che non è semplice rimanere perennemente in solitudine. Se tu hai passato le tue giornate in questo modo è colpa mia, che quando ero Filippo non ho voluto accettarti e ho fatto in modo di mettere anche Lorenzo contro di te. Lo sai, l’ io che sono ora non è molto bravo a parlare, preferisce scrivere. Comunque hai sicuramente capito cosa intendo, perché l’hai sperimentato sulla tua pelle.” Poi fece una pausa e si alzò controvoglia, accorgendosi che doveva subito essere in vasca: ”Anch’io devo parlarti” lo bloccai… o almeno tentai, perché lui sgusciò via come una lepre, arrossendo un poco. E pensare che mi sembrava non volesse andare ad allenarsi! Non conoscevo nemmeno me stesso! Mi accorsi che aveva lasciato il notes sul tavolino. Lo raccolsi: aveva una copertina giallo ocra ruvida ed era ad anelli. Non resistetti alla tentazione e lo aprii. Lessi mentalmente qualcosa che mai e poi mai mi sarei aspettato. Rimasi lì venti minuti buoni a fissare quelle parole, con le mani tremolanti, e mi accorsi dell’umanità di Filippo. Ero quasi orgoglioso di essere dentro il suo corpo. D’altronde, se il talento per la scrittura era il mio, le parole, i pensieri, le riflessioni, erano quelle di Filippo. Mi accostai al vetro ed osservai quel ragazzo goffo in costume che agitava braccia e gambe nella vasca in maniera scoordinata. Mi sorrise e capii che aveva volontariamente lasciato lì il suo taccuino. Strappai una pagina e sopra con uno stilo (nel mio vecchio corpo avevo l’abitudine di custodire una penna nella tasca dei miei pantaloni, e nei panni di Filippo non avevo abbandonato questo vizio) scrissi la seguente frase:” Sognami, stanotte!” e la infilai nel giaccone di Niccolò, in modo che si vedesse, portandomi via il resto del notes. Quella sera lessi e rilessi quelle parole incise sul taccuino, ed ormai nel mio cuore:
“Caro Niccolò,
ammetto di averti sempre invidiato. La tua capacità nello studio mi lasciava senza parole, quello che era scritto sul libro diventava per te, anche solo dopo una prima lettura, un monito già inculcato nella tua memoria. Però, oltre a suscitarmi questo pessimo sentimento, in me si accendeva anche qualcos’altro: la paura. Sì, perché avevi una mente contorta, difficile da capire. Subivi vari cambiamenti d’umore, eri lunatico e a volte geniale, dalle infinite risorse. Capivo che non ragionavi come me e questo m’inquietava. Anche ora, pur essendo nel tuo corpo, rimani per me un enigma. L’angoscia e l’invidia hanno portato ad un tuo radicale isolamento. In questi ultimi giorni me ne sono però pentito ed ho iniziato a sentire la tua mancanza. Rammentavo quei tempi in cui eri sempre tu ad inventare nuovi giochi e a farci divertire. Io mi sono totalmente dimenticato il termine “giuoco”. Era la tua fantasia, la chiave di tutto. Stando nel tuo corpo ho scoperto che tu hai un talento meraviglioso e, contro ogni previsione, mi sono divertito a scrivere e ad immaginare mondi lontani. E se uno di questi giorni m’invitassi a casa tua? E’ da tempo immemore che non ci vengo ed insieme potremmo ideare una nuova storia. Prima però dovremmo tornare ognuno nel proprio corpo, anche se ho capito che la vera bellezza è quella interiore. Mi sono chiesto come mai era avvenuto questo scambio: io nei giorni precedenti allo scambio avevo pensato con nostalgia alla vecchia banda del circolo e tu hai forse fatto lo stesso, e questo ci ha portati a sognarci a vicenda. Com’è possibile che il sogno fosse stato il medesimo per entrambi non mi è lecito saperlo. Inoltre durante il sogno mi ero reso conto che ero consapevole delle mie azioni: ero volontariamente andato dall’altra parte, un po’ per curiosità, un po’ per voglia di solitudine. Ogni tanto riflettere fa bene ed io non lo facevo da troppo tempo. Dal mio corpo poi si aspettavano tutti qualcosa: Lorenzo, la Marti, il mister, i prof, i genitori… Ero diventato il centro delle aspettative di questo stressante microcosmo. Dovevo rimanere da solo durante questo periodo. Non penso però di averti ingannato: d’altronde nemmeno io mi aspettavo di prendere possesso del tuo corpo e della tua vita. Comunque ti sono debitore perché non solo ho scoperto gli antichi valori della lettura e della scrittura, ma anche quanto tu sia davvero speciale. Avevo ragione, sei diverso, e proprio di questo devi essere fiero! Non dipendi né da me né da altri, e per questo sei più libero. Nel tuo corpo ho capito la tua sofferenza ma anche la tua fortuna nonché la tua ingiustificata visione pessimistica del mondo: hai qualcosa di speciale, un talento, una capacità, perché ti rammarichi? Voglio terminare questa lettera dicendoti che stanotte cercherò di sognarti (imitami!) per rimettere le cose a posto, e fra queste anche la nostra amicizia. Filippo”.
Mi accorsi che ormai avevo poco tempo per sistemare gli sbagli combinati nel corpo del mio amico. Mandai un messaggio di scuse rivolto al mio allenatore sulla chat del gruppo della squadra e chattai un po’ con “La Marti” che si rivelò, al contrario di quanto mi aspettassi, una ragazza brillante ed affettuosa, la compagna giusta per il mio amico. Uscii di casa per godermi gli ultimi attimi con il fisico di Filippo. Evitai la zona del circolo ed andai verso Castignate, il paese vicino. Lì vi era un enorme fico dove ci si poteva arrampicare senza il rischio di cadere. Qualche volta io e Lorenzo, non trovando Filippo al circolo, andavamo fin la per cercarlo. Difatti era sempre lassù, dominatore della vallata. Quello era il suo albero, il suo mondo. Feci meno di un chilometro a piedi per raggiungere la pianta. Arrivato ai suoi piedi approfittai del fisico agile di Filippo per balzarvici sopra. In pochi secondi, muovendomi come una scimmia, raggiunsi la cima. Osservai la quiete dei campi nell’oscurità. Mi rilassai serrando gli occhi. Ascoltai il mio respiro ed assaporai quella tranquillità anomala, impossibile da vivere stando in città. Il mio amico aveva ragione, di giorno la vista da quel fusto era appagante, si poteva scorgere il brusio della città ed osservare il lavoro nei campi, ma anche la sera non era male. Per un tempo incalcolabile restai lì, facendomi cullare dalla brezza marzolina, poi scesi e tornai a casa.
Quella notte sognai la scuola, la palestra, lunghi corridoi bianchi senza fine. Li percorrevo, ma non giungevo mai il circolo. Finalmente, quando stavo iniziando a preoccuparmi, riuscii ad evadere da quei monotoni corridoi ansiogeni e a raggiungere la struttura. Eravamo posizionati come ci eravamo lasciati: io con Lorenzo da una parte e Filippo da solo dall’altra. Lui ci venne incontro, ma appena toccò lo specchio gemette di dolore. Io, ricordandomi quella pessima situazione, abbozzai una smorfia. Lorenzo non capiva, era confuso. In quel momento mi vergognai della mia inutilità: era stato lui a riaccettarmi, io non avevo fatto nulla per fargli capire la mia sofferenza. Glielo feci notare: ”Non è esatto” ribattè lui:” Tu hai cercato di venirci incontro superando questa barriera di gelo. Inoltre nel mio corpo continuavi a fissarmi senza osare fare il primo passo, è vero, però provavi pietà per me e senza i tuoi compagni ti saresti avvicinato… Come poi hai fatto alla fine. Dunque non è vero, sei servito a qualcosa, siamo serviti entrambi.”. Allungai il braccio e lui mi imitò. Le nostre mani si toccarono nell’esatto punto nel quale era presente il vetro, che s’infranse provocando un rumore fastidioso di cristalli rotti e sprigionando un potente calore, ma senza lasciare frammenti aguzzi per terra. Filippo ora era dalla mia parte. Il muro era stato abbattuto. Eravamo di nuovo insieme. Lorenzo accettò questo fatto senza porsi tanti quesiti, lui non era solito chiedersi il perché delle cose. ”Perché non iniziamo un bel gioco di ruolo?” proposi io. Una volta mi sarei aspettato sguardi sdegnati e risposte offensive, ma non ora:” Perché no?” esclamò Filippo, ed io attaccai:” Facciamo che io mi immedesimo in un goblin cattivo, mentre voi…”.
Facciamo che. Mi ero dimenticato il suon di quelle due parole. Tutti i giochi dei piccini, le loro grandi idee iniziano così. Chi lo dice sceglie il gioco, ma tutti a loro volta possono inserire nuovi personaggi o colpi di scena. E’ come un racconto infinito. Forse è per questo che scrivo, per dare forma ai ricordi dei miei giochi passati. Facciamo che. Facciamo che io sono un cavaliere, o un pompiere, o un alieno, o un calciatore, o un astronauta. Facciamo che abbattiamo uno specchio di vetro che ci divide. Facciamo che. Il suono di quelle parole quella mattina mi svegliò di buonumore. Mi turbò solo il fatto che forse con un semplice messaggio scritto di fretta alle 10 di sera Filippo non avrebbe ottenuto il perdono del mister. Era presto, strano, ma se ero già sveglio un motivo doveva esserci. Solitamente arrivavo a scuola all’ultimo secondo, mentre stavolta non era stata la sveglia a riuscire nell’epica impresa di buttarmi giù dal letto ben mezz’ora prima. Mi diressi verso la porta di casa:” Niccolò!”. Ah, il mio nome! Ero già certo di essere tornato in me, ma mi sentii ancora più sollevato: ”Dove vuoi andare a quest’ora? Le lezioni iniziano alle 8, e poi usciamo di casa tutti insieme anche se in questi giorni eri così… autonomo…”. Oh, allora anche Filippo aveva tentato di andarsene da solo, ma aveva sicuramente notato che a casa mia era più difficile che da lui. Fin da quando aveva 10 anni lui viaggiava da solo con una copia delle chiavi!
“Devo incontrare una persona” risposi io, ora consapevole del perché mi ero svegliato così in anticipo. “A quest’ora? E chi sarebbe?” fece mia madre. ”Filippo Gorini… Te lo ricordi?” questo scioccò mia madre:” Da quando vi parlate di nuovo?” fece lei. “Forse da adesso, se mi lasci andar via prima” risposi io. ”Ok…” era visibilmente preoccupata, ma avevo pronunciato la frase precedente con una tale determinazione che non aveva osato ribattere. Uscii e mi diressi al Circolo: ero sicuro che seguendo il mio istinto lo avrei trovato ad aspettarmi. Non vedendo nessuno, mi recai ai piedi del fico di Castignate. Lo raggiunsi correndo. Guardai verso l’alto: fra i maestosi ed aggrovigliati rami stava Filippo, seduto a cavalcioni: ”Ciao, scendi giù!” proposi ”Sali tu!” fu la risposta. Sapevo che da lassù la vista era fantastica, ma non avevo più il suo fisico allenato, e raggiunsi la cima con fatica:” Bello eh? Si vede tutta la vallata da qua.”. Il ragazzo stava comodamente stravaccato, mordicchiando una foglia dell’albero. Dovevo dirgli quello che era successo senza cercare scusanti: ”Senti, volevo dirti… Innanzitutto grazie per la tua rinnovata amicizia, ma anche un’altra cosa… sei finito fuori squadra.”.
Lui si rabbuiò: ”Come sarebbe a dire?” ”Ho avuto uno scontro poco piacevole con il tuo allenatore, gli avevo fatto notare che era sbagliato il modo in cui usava il congiuntivo” risposi io. Filippo si sbracò così tanto dalle risate che per poco non cadde dall’albero:” “Sei irriducibile, solo tu potevi dirgli una cosa del genere. Anch’io forse ho combinato qualcosa, tua madre mi guardava come se fossi stato un alieno. Mi diceva: ”Cos’è tutta questa voglia d’indipendenza?” e io non capivo. ” Tu hai sempre avuto molta più libertà di me e ti sei arrangiato in qualunque situazione. I miei genitori sono più protettivi dei tuoi” risposi io. ”Di’ pure che ti soffocano!” commentò lui con una smorfia. ”Non è vero.” ribattei ” Comunque te la sei presa per ciò che ho fatto?” ” Naaaah, figurati, capita a tutti di sbagliare quando si è se stessi, figuriamoci nel corpo di un altro! Mi farò perdonare dal mister presentandomi in orario ed allenandomi come mai prima d’ora. Comunque oggi non devo andare al campo, perché non ci ritroviamo al Circolo come qualche anno fa? Invitiamo anche Lorenzo?” Io esultai visibilmente: avevo ritrovato un amico!” “Grazie!” esclamai commosso:” Grazie a te che mi hai fatto capire il valore della diversità: sei speciale Niccolò.” e sorrise illuminato dai raggi del sole che filtravano fra i rami.
Sì, speciale. Mi convinsi di esserlo. Non ero uguale agli altri. Dopo questa straordinaria avventura ne ero consapevole, ma anche più maturo. E Filippo, quanto era diventato saggio! Entrando uno nel corpo dell’altro ci eravamo scoperti a vicenda e avevo capito che Filippo era fragile quanto me. “Anche tu sei speciale, ognuno è unico” affermai. ”Si sta facendo tardi, va bene se ci accompagna a scuola mio padre?” ” Come se non l’avessi già visto abbastanza in questi giorni…” si lamentò lui sorridendo, ma riuscii a convincerlo. Appena entrai in classe ricevetti i soliti sguardi in cagnesco, seguiti da un moto di stupore: il loro leader Filippo era al mio fianco, ben contento di esserci! Inaspettatamente mi spinse verso i nostri compagni di classe: ”Inventa un gioco per la classe, qualcosa di divertente che coinvolga tutti e ci faccia sentire una cosa sola” disse rivolgendosi a me e a loro. Pensavo di ricevere insulti, mi avrebbero detto che ero un lattante, che l’asilo era finito da un pezzo. Ma Filippo li fissava truce, imperturbabile. Poi mi sorrise. Avvampai, ero imbarazzatissimo, ma quel suo sguardo così sincero, quel suo sorriso così leale mi diedero coraggio. Forza Niccolò, che aspetti? Devi dire due parole, le conosci, è come una formula magica, tutto il resto vien da sé. Quante volte hai stordito i professori con interrogazioni eccellenti ripetendo interi capitoli ed ora non sai nemmeno dire due parole? Le sai, tutto il resto vien da sé. Basta sbloccarsi. Sei diverso, hai un dono: l’immaginazione. Sfruttala, sfruttala, sfruttala. Filippo crede in te. Non deluderlo. E tu credi in te stesso? Dimostralo. Tutto il resto vien da sé. Il craah di una cornacchia dalla finestra aperta mi risvegliò dal torpore in cui ero caduto:” Facciamo che…”. Facciamo che. L’avevo detto, e la mia immaginazione si era già risvegliata, coinvolgendo anche quella degli altri. Guardai i volti dei miei compagni di classe: avevano tutti una nuova luce negli occhi, anzi, una vecchia luce. Quella di chi, pur crescendo, porta dentro la felicità di un animo bambino. E da quel momento tutto il resto venne da sé.