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Aurora Vannucci 2021
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
I LIOPICCOLI
NARRATIVA
- PREMIO SPECIALE GIURIA -
Esempio di come il grave problema della dipendenza dai videogiochi dei ragazzi possa essere affrontato dai giovani stessi attraverso questo racconto fresco, efficace ed esemplare.
Frequenta il Liceo Linguistico “G.D. Romagnosi” di Parma.
Due libri pubblicati e due in attesa di pubblicazione.
Ha vinto più di sessanta concorsi letterari.

Autrice già presente edizioni:
2021
2020
2019
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RACCONTO
QUANDO IL NEMICO SONO IO






Nicolò non poteva proprio lamentarsi: era ricco, aveva un lavoro che amava, molti amici, si era appena sposato e aveva una moglie che gli voleva un gran bene. Era davvero felice della sua vita… nel videogioco “The Sims.” Perché nella realtà Nicolò era soltanto un ragazzino che frequentava la scuola media e non aveva nulla di quanto descritto in precedenza. Era anzi un tipo scontroso che voleva prevalere sugli altri, a volte con la forza. Ai prof, all’allenatore e a chiunque avesse l’occasione, sua madre diceva che si comportava così da quando lei e il suo ex marito si erano separati. Nicolò non poteva chiedere nulla di meglio: aveva una scusa sempre pronta. Tutti i suoi coetanei cercavano di evitarlo, tranne Matteo, suo amico da sempre, che trovava anche del buono in lui.
Proprio su invito di quest’ultimo aveva iniziato a giocare a quel gioco virtuale il cui obiettivo era crearsi un personaggio e farlo vivere nel migliore dei modi, e se n’era appassionato. Quando usciva da scuola, la scena era sempre la stessa, ovvero Matteo che scendeva i gradini e Nicolò che tirava fuori il cellulare per iniziare a giocare. Anche il copione era sempre lo stesso: ”Vieni a fare due tiri questo pomeriggio?” chiedeva Matteo con un briciolo di speranza.
”Matte, lo sai che sono occupato.”
”Almeno agli allenamenti ci vieni?” insisteva Matteo.
”Vediamo” rispondeva Nicolò, che poi salutava l’amico salendo  sull’autobus per tornare a casa. Pranzava e si chiudeva in camera, luogo dove era davvero occupato, non a studiare come diceva sempre alla madre, a giocare al videogioco. Giocava seduto davanti a una scrivania colma di libri aperti, pronti per essere sfogliati ad ogni rumore di passi della madre.
Quel giorno l’avatar di Nicolò nel videogioco era andato a lavorare, aveva mangiato al ristorante, aveva guardato un film al cinema e aveva acquistato il tanto agognato televisore che occupava mezza parete. Proprio in quel momento sentì dei passi, nascose in tutta fretta il telefono in tasca e si chinò sui libri. Sua madre aprì la porta e, nel vederlo ancora intento a studiare, commentò: ”Dai, Nico, molla tutto, hai allenamento, hai il diritto di svagarti un po’, ultimamente sei così zelante...”
“No, mamma, di’ al coach che anche oggi non ci sono”.
Lei si preoccupò: ”Nico, è la sesta volta di fila che non vuoi andare, c’è qualcosa che non va con l’allenatore o con gli altri ragazzi?”
”No no, il gruppo è perfetto e il coach è in gamba, solo che… non so se voglio continuare anche l’anno prossimo, ecco”.
La mamma del ragazzo pareva ancor più sconvolta: ”Seriamente? È da quando hai 5 anni che giochi a basket.”
”Sì, mamma, seriamente. E pensavo anche di non iniziare altri sport per concentrarmi solo sullo studio, l’anno prossimo ho l’esame e…”
”No, un po’ di sport fa sempre bene, se non vuoi fare quello fai qualcos’altro.” si oppose la donna: ”Allora, ti prepari o resti a casa?”.
Nicolò pensò che aveva fatto un passo falso nel dirle che era intenzionato a smettere e quindi l’assecondò: ”Va bene, mi preparo.”  Appena arrivato nel palazzetto incrociò Matteo, che gli sorrise esclamando: ”Allora alla fine sei venuto! Ma che hai sempre da fare in questo periodo?”
”Nulla di che.” rispose il ragazzo che parlava poco e rimaneva sempre sul vago. Salutò distrattamente l’allenatore e i compagni, ma durante tutto l’allenamento la sua testa fu altrove, tanto che venne richiamato dal coach. Nicolò non rispose come avrebbe fatto di solito, forse non aveva nemmeno ascoltato visto che pensava a tutt’altro, ovvero a ciò che avrebbe fatto appena arrivato a casa. Al ritorno si chiuse nuovamente in camera sua, scaraventò scarpe e vestiti per terra e continuò a giocare a The Sims. Soltanto la cena e la partita di Champions riuscirono a distrarlo, facendogli dimenticare il videogioco per il resto della serata.
Il giorno seguente Nicolò si svegliò contento: la Juve aveva vinto la prima partita del girone. Era forse la partita più facile, ma lui era lo stesso su di giri e non vedeva l’ora di parlarne con Matteo, anche lui juventino. Lo incontrò davanti alla scuola: ”Ciao Matte, vista la partita?”  
“Ovvio, due pere abbiamo rifilato a quei brocchi!” esclamò l’altro eccitato. Poi successe qualcosa di strano. Matteo parlava e parlava, elogiava assist e scatti, rammentava i goals e quella punizione che ”era uscita di tanto così!” e di tutto questo Nicolò, immobile e più simile a un manichino che a un essere umano, non aveva sentito nulla. Poi rispose: ”Sì.”  
“Sì cosa?” chiese Matteo ”Ti ho chiesto chi meritava il premio di uomo partita e tu mi rispondi - Sì - ma che significa?”
”Ah, nulla, non so…  dai, andiamo in classe che si sta facendo tardi.” Nicolò cambiò argomento per rimediare alla figuraccia fatta. Entrarono in aula  promettendosi di ignorare il fatto, ma il ragazzo ci pensò eccome. Non riusciva a capire cosa fosse successo. Così come non riuscì a capire come mai si fosse ritrovato in corridoio durante la terza ora. Non aveva chiesto di andare in bagno, né alle macchinette. Non c’era nemmeno l’intervallo, visto che il corridoio era deserto. Allora perché era lì? Iniziò a preoccuparsi: di solito i vuoti di memoria li aveva in classe durante le interrogazioni o le verifiche, non in corridoio. Spaventato, decise di tornare in aula Si risedette e si mise a pensare al suo videogioco preferito e poi…
”Nicolo’! Cosa stai facendo? Tirati immediatamente su i pantaloni!”. Questo era stato l’urlo della sua prof di italiano che lo aveva fatto tornare in sé, insieme alle risate sguaiate dei suoi compagni. Si trovava in mutande in piedi sulla sua sedia senza sapere il perché. Diventò rosso come un peperone, e paonazzo si ritirò su i pantaloni, mormorando delle giustificazioni alle quali non credeva nemmeno lui, figurarsi l’insegnante.
”Ora basta: la tua media peggiora ogni mese, sei sempre svogliato e ora devo pure subirmi questi teatrini? Una bella nota non te la toglie nessuno!”
”No! Prof! Non lo so perché ero in mutande! Lo giuro!”
”Certo, perché è una cosa di cui non ci si accorge… la prossima volta ti toglierai anche quelle?” ironizzò la prof. Attese che la docente verbalizzasse sul registro elettronico la nota diventando, al rumore di ogni tasto premuto sul pc, sempre più stupito e spaventato da sé stesso: ”Posso almeno andare in bagno?” domandò al termine dell’operazione. “Certamente, credo che quello sia il luogo più adatto per rimanere in mutande.” annuì la prof facendo nuovamente ridere tutti. Tutti tranne Matteo, di cui Nicolò aveva incrociato lo sguardo, che pareva provare compassione per lui.  
In bagno si sciacquò il viso: cosa stava succedendo? Perché non era più consapevole di ciò che stava facendo? Tutti i suoi compagni lo avevano deriso, cosa che non era mai accaduta. Era terrorizzato, proprio lui che aveva sempre detto di non temere nulla. Pensava di essere diventato pazzo. Si ricordò che nella sua scuola avevano di recente tenuto uno di quei laboratori di psicologia, in cui la psicologa aveva spiegato di aver creato uno sportello d’ascolto. Aveva invitato tutti a parlare con lei in caso di problemi, e Nicolò ne aveva uno davvero enorme. Solo che durante il laboratorio non era stato attento: sapeva dove si trovava lo sportello ma non conosceva gli orari. Decise di raggiungerlo  e per sua fortuna la donna era lì. La vide da lontano, intenta a scrivere qualcosa su un foglio e le si avvicinò guardandosi continuamente intorno nella speranza che non passasse nessuno: che figura avrebbe fatto a essere visto mentre parlava con la strizzacervelli? Tossì piano e la psicologa si voltò: ”Ciao, sei… Camilla? Dovevi… dovevi essere qua già dieci minuti fa.” disse la signora confusa, non capendo se Camilla fosse un nome o un cognome.
”In realtà mi chiamo Nicolò…”
”Aaaah, ma allora non sei una femmina?”
”Ma no! Le sembro una femmina? Mi faccia parlare!” s’infuriò Nicolò al quale era stato toccato l’orgoglio ”Non ho un appuntamento, ma voglio prenderne uno.”
”Bena allora. Fammi solo controllare l’agenda… AAAAAAAAAAAAH!” urlò la psicologa.
Nicolò era esterrefatto: la donna era chinata a terra per cercare di raccogliere i pezzetti del suo foglio e del suo taccuino, la stessa donna che nemmeno un secondo prima cercava proprio il suo taccuino con gli appuntamenti. Lui non aveva fatto niente... o aveva fatto qualcosa? Capì che la colpa era sua e corse via, ma la psicologa richiamò con le urla l’attenzione dei bidelli e fu riacciuffato. La confusione aveva richiamato tutti in corridoio, anche la prof d’italiano di Nicolò che, informata dell’accaduto, lo condusse dal preside. Il rettore non ebbe pietà: nota sul registro e tre giorni di sospensione, ma con obbligo di frequenza. Uscì dalla presidenza frustrato, continuando a ripetere: ”Non è colpa mia” anche se nessuno gli credeva.
Sentì un dolore allo stomaco quando vide arrivare sua madre al cancello, informata dell’accaduto. Stranamente non disse nulla, trascinò il figlio via e lo fece salire in macchina. Nemmeno Nicolò parlò, anche se avrebbe pagato per sentire la strigliata di sua madre in auto, perché sapeva che se fosse esplosa a casa  sarebbe stata più severa. Infatti una volta in casa disse duramente, con una fermezza incredibile: ”Che vergogna, Nicolò. Smutandarsi davanti a tutti. Strappare agenda e appunti a una persona che poteva solo aiutarti. Non dire nulla. Tu in questi due giorni non esci di casa, studi come un mulo e appena torni a scuola ti scusi con la psicologa.”  
Il giovane cercò di ribellarsi: ”Non è giusto! Non sono io che decido, non mi sono tirato giù i pantaloni apposta!”. Ma sua madre entrò in camera del ragazzo, aprì lo zaino e ne tirò fuori i libri, sbattendoli furiosamente sulla scrivania: ”Ora tu inizi a studiare e lo fai tutto il giorno: mi è stato riferito che la tua media è a picco.”
”Ok.” rispose Nicolò mentre la donna lasciava la stanza serrando l’uscio. Nicolò si sistemò sulla sedia facendo un dito medio alla porta chiusa: non si meritava quella punizione. Decise di giocare a The Sims. Non ne poteva fare a meno, era ciò che lo distraeva da quel mondo zeppo di problemi e lo trasportava in uno in cui tutto era perfetto. Ora il suo avatar era andato allo stadio, aveva pranzato con la sua dolce metà con la quale era poi andato a vedere una mostra di pittura. Più tardi la madre lo chiamò per il pranzo e gli chiese cosa avesse studiato e se poteva già ripeterglielo: ”Ho fatto storia” mentì “Ma in realtà non mi sento ancora pronto, dovrei rileggermi il paragrafo un’altra volta.”
”Non importa, hai tutto il tempo. Anzi, se vuoi posso darti una mano a fare uno schema.”
Nicolò avrebbe voluto rispondere di sì. Invece non si rese conto della sua risposta, ma  della reazione di sua madre: ”Che cosa? Ma come… Come ti permetti, scimunito!” urlò. Ora si che era esplosa! ”Basta, vattene fuori da qui! Esci di casa e torna quando avrai sbollito la rabbia!” continuò facendolo alzare e spintonandolo fuori dalla stanza e dall’appartamento. Nicolò si ritrovò sul pianerottolo, la porta chiusa in faccia. Non sapeva come ribattere, non sapeva nemmeno cosa aveva detto! Voleva piangere, ma decise di farsi forza e andare a fare due passi nella speranza di tornare in sé.
Andò al parco e gli parve funzionare: osservava i passanti, la natura rifiorire in quel giorno marzolino davvero sereno. Fissò il cielo: c’erano solo due nuvole, una gli pareva un cavallo e l’altra una nave e poi c’era anche un… un… Nicolò si mise una mano sulla fronte per ripararsi dal sole e osservare meglio quello strano oggetto che gli era parso un drone. Però era troppo basso e immobile, proprio sopra la sua testa. E poi... era verde. E questo fece urlare il ragazzo che quasi cadde a terra per lo spavento. Perché tutti coloro che conoscono “The Sims” sanno che i personaggi hanno sopra la testa un diamante verde proprio come quello!
”Cos’hai da urlare, ragazzo?” chiese preoccupato un anziano in bicicletta.
”Signore! Guardi sopra la mia testa: ho un diamante verde come quello di The Sims!”. L’ altro socchiuse gli occhi per concentrarsi sul punto indicatogli da quel ragazzo strampalato.
”Io non vedo nulla! E non so che sia un “desim”. Mi stai prendendo in giro, giovanotto?” domandò quello, ripartendo stizzito. Eppure Nicolò lo vedeva, sbattè le palpebre almeno un miliardo di volte ma il diamante era sempre lì: era reale. Solo allora Nicolò collegò tutto: quel diamante verde, quelle azioni che commetteva ma che non riusciva né a controllare né a ricordare… rabbrividì, si era insinuato nella sua mente il pensiero di essere diventato un personaggio del videogioco. Ma com’era possibile? Il diamante era solo sulla sua testa, non poteva essere dentro un videogioco perché non vedeva alcun diamante verde sopra le altre persone. Già, ma era anche vero che le altre persone non vedevano il suo. Inoltre, se lui era diventato un Sim,  allora qualcuno lo stava pilotando, quelle azioni che poi non ricordava le faceva solo perché gli venivano imposte. Scappò verso casa, nessuno avrebbe creduto che potesse essere prigioniero di un videogioco, o meglio, prigioniero di qualcuno, visto che lui non  era all’interno del videogioco.
La domanda che Nicolò si poneva era, più di chi fosse a guidarlo, come uscirne. In “The Sims” non c’erano tasti per opporsi all’azione che il giocatore stabiliva di far compiere al suo avatar. D’altronde Nicolò non credeva nemmeno che un avatar potesse ribellarsi. Sotto casa citofonò a sua madre, non gli interessava se fosse ancora arrabbiata, voleva tornare in camera sua per prendersi del tempo per riflettere.
”Sei tu, Nicolò?” gracchiò la voce della donna dal citofono, ma non ottenne risposta: il ragazzo si era appena ricordato che avrebbe dovuto passare il resto del pomeriggio a studiare e non lo voleva fare. Tornò al parco e si sedette su una panchina, estraendo l’ oggetto che durante quella strana giornata aveva tenuto sempre con sé, nelle sue tasche: il cellulare, con all’interno il videogioco maledetto. Eseguì l’accesso e gli si presentò davanti la schermata home. Cliccò il tasto delle impostazioni, ma non trovò nulla che potesse avere in qualche modo connesso il gioco alla sua vita reale. Invece di disperarsi, cercò di restare il più freddo possibile perché aveva una nuova strategia: doveva rilassarsi e controllare ogni minima parte del suo corpo concentrandosi solo su sé stesso, per cercare di accorgersi del momento esatto in cui gli sarebbe stato ordinato di compiere un’azione. Fiducioso, tentò questa tattica. Passò un quarto d’ora, passò mezz’ora, ma non accadeva nulla. Ogni tanto Nicolò sbirciava speranzoso sopra la sua testa ma inutilmente, perché quel malefico diamante verde c’era ancora.
Passò un’ora e il giovane iniziava a spazientirsi, quando qualcosa accadde: un’auto sulla strada davanti a lui sostò inserendo le doppie frecce: era sua madre: ”Mi ha visto” sussurrò il ragazzo alzandosi di scatto per darsi alla fuga, ma l’urlo:” Nicolòòòò!!” lo fece deglutire e lo immobilizzò. Sua madre si avvicinava con passi lunghi e decisi, pronta per una sgridata epica, ma Nicolò, con estrema serietà e quasi piangendo, la anticipò: ”Mamma, mamma, aiuto, sono intrappolato in un videogioco!”. La donna si bloccò e il suo volto impallidì. Non erano ragionamenti da Nicolò, quelli. Nemmeno da persona normale: ”Hai seriamente bisogno di uno psicologo. Non di quella della scuola, dopo quello che le hai fatto.”
Tornarono a casa. La madre si attaccò al telefono per ottenere un appuntamento da uno strizzacervelli mentre Nicolò si era chiuso in camera con la volontà di studiare per non pensare più a quel diamante verde che gli penzolava sulla testa. Si era però tolto un peso: aveva raccontato tutto a sua madre. Lei aveva ascoltato paziente, assecondandolo ogni volta che pareva dire cose senza senso e promettendo che avrebbe trovato il migliore psicologo sulla piazza. Si sedette, aprì un libro ma, anche se il suo cervello gli diceva di mettersi a leggere, le sue mani frugarono in tasca alla ricerca del cellulare. Era un input esterno, eppure se ne stava accorgendo! Era però una sensazione orribile: vedeva le sue dita scorrere da sole alla ricerca dell’icona prediletta, quella di The Sims.
”Se me ne sto accorgendo, vuol dire che posso bloccarle.” pensò il ragazzo, che fermò le dita a mezz’aria, anche se una forza continuava a portarle verso il telefono. Gli pareva di sfidare a braccio di ferro l’uomo invisibile. Dopo vari tentativi, che gli fecero arrossire il volto ed ingigantire le vene dallo sforzo, diede uno strattone e il telefono cadde a terra. Finalmente libero! Su di lui, però, continuava a vigilare un diamante verde.
Riuscì a studiare senza altre interruzioni e alla fine si chiese come mai fosse riuscito a prevalere su quella energia invisibile. Forse perché aveva raccontato a qualcuno del suo problema? O forse perché la sua volontà di studiare era superiore a quella di giocare? Non riusciva a spiegarselo. Cenò con maggiore tranquillità e poi tornò in camera sua. La forza invisibile gli fece ancora una volta prendere il cellulare ed accedere al videogioco, ma anche questa volta Nicolò riuscì a dominarla. Si chiese però perché quella strana energia che prima lo aveva umiliato davanti a tutti ora lo costringesse a giocare. Decretò, per evitare altri attacchi della forza, di disinstallare il gioco. Gli parve geniale, perché non ci aveva pensato prima? Schiacciò sull’icona pronto a premere il tasto “disinstalla”, ma qualcosa lo trattenne. No, non era trattenuto da quella forza, ma da se stesso. Considerava il suo avatar come un personaggio reale, si era affezionato a lui e gli voleva bene perché faceva tutto ciò che Nicolò sognava di fare da grande. Era il suo io del futuro, non poteva cancellarsi così. Quella sera chattò con Matteo dicendogli che aveva capito che era quasi diventato schiavo di un videogioco, senza però raccontargli del diamante verde che aveva ancora sulla testa. Gli aveva fatto bene parlare con il suo amico, si sentiva più rilassato.
Prima di dormire, sua madre andò in camera sua per rassicurarlo, dicendogli che il giorno seguente avrebbe avuto una visita da uno psicologo molto rinomato. Lo abbracciò come non faceva da molto tempo ed il ragazzo si addormentò sereno. Ma il suo sonno fu breve: forse aveva sentito un rumore, oppure no? Ma altrimenti per quale ragione si era svegliato nel cuore della notte? Si tolse di dosso le coperte, anche se non voleva. Si spaventò, aveva nuovamente perso il controllo di se stesso. Si alzò, le sue gambe camminavano da sole, il suo corpo sapeva a memoria i movimenti da compiere. Fece qualche passo senza far rumore e si ritrovò in corridoio. Nicolò non tentò di bloccare la forza: era troppo incuriosito, non capiva il perché di quella passeggiata notturna e lo voleva sapere. Si fece tutto il corridoio a passi lenti e strascicati. Passando davanti alla camera di sua madre la sentì russare. Iniziava ad avere un brutto presentimento, aveva il cuore in gola. Varcò la soglia della cucina ben sapendo che non ci stava andando per bere un bicchiere d’acqua. La situazione non gli piaceva, immerso nell’oscurità vedeva poco o niente se non gli oggetti metallici come le pentole che emanavano il riflesso di una luce lontana, che Nicolò non riuscì a capire da dove provenisse. Fra questi oggetti luminosi, anche un coltello. Il suo braccio si allungò verso di esso.  Il ragazzo tentò di spalancare la bocca per gridare: ”No!”, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Aveva la mano a mezz’aria, cercò di riportare il braccio verso di sé, contrastando quella forza ostile, ma perse. Impugnò il coltello e con l’altra mano ne toccò la lama lucente, facendo scorrere le dita sulla sua superficie. Era pronto per essere utilizzato e Nicolò aveva capito come. Posizionò il coltello davanti al suo petto, erano le sue mani a fare tutto e non il suo cervello. Il suo viso era neutro, la sua espressione indifferente a ciò che stava facendo, ma dentro di lui regnava il terrore più profondo. La lama era puntata verso se stesso, più si avvicinava al suo petto, più lui tentava di contrastarla con le pulsazioni che aumentavano ogni volta che lentamente ma inesorabilmente la punta si avvicinava a lui.  
“No, non deve finire così.” si disse e riuscì a bloccare quel lento processo, immobilizzando il suo braccio a mezz’aria. Poi fece scivolare il coltello per terra. Lo fissò immobile. Poi si toccò una mano, di sua volontà, per vedere se non era più posseduto. No, non lo era. Era salvo! Ma solo per quel momento, perché i suoi guai, anche se lui li credeva finiti, erano appena cominciati.
La luce si fece più potente, pareva dietro di lui e Nicolò si voltò. L’essere si illuminò con la torcia che aveva in mano e Nicolò lo riconobbe, era... il suo avatar! Non era proprio del tutto uguale a Nicolò: aveva un naso migliore poiché il giovane si era sempre lamentato della sua forma a patata e aveva i capelli di un giallo maionese, lo stesso colore di cui voleva tingerseli il ragazzo ma sua madre glielo aveva vietato. Aveva però anche uno sguardo spietato che Nicolò non ricordava: ”Ciao, me.” esordì quello, che aveva anche la sua stessa voce ”Se non ti vuoi suicidare, pazienza; vuol dire che ti finirò con le mie stesse  mani.”
”No, ti prego! Cosa ti ho fatto?”
”Cosa mi hai fatto tu?” rise quello  “Hai reso la mia vita orribile!”
”Cosa vai dicendo?! Io ho sempre sognato tutto ciò che hai tu.” si giustificò Nicolò, che non riusciva a trovare un senso alle accuse dell’altro.
”Appunto: Tu mi hai fatto diventare un atleta, cosa che non m’interessava; tu mi hai fatto prima fidanzare e poi sposare una donna che forse non lo sai, ma critica ogni cosa che faccio. Tu, sempre tu, hai deciso per me. Mi hai creato una vita perfetta, ma noiosissima. E poi, perfetta per te.” si alterò quello ”E visto che tu hai sempre preso decisioni a mio nome assumendo il controllo su di me, ho stabilito di fare a te ciò che tu facevi a me.”
”E come hai fatto a prendere il mio controllo?” chiese Nicolò, mentre l’avatar continuava a sghignazzare. ”Più giochi, più sono nella tua immaginazione, più per te divento reale. Attenzione: per te, non per gli altri. Ecco perché nessuno vede il diamante verde che hai sopra la testa.” spiegò indicandoglielo ”Devi sapere che, mentre tu sei assente, io nel videogioco sono autonomo: sono quelli i momenti in cui non mi preoccupo più di mia moglie e mi dedico alla mia più grande passione: cucinare. Proprio mentre ero solo ho scoperto che c’era un modo per controllarti. E più tu giocavi, più io acquisivo potere per influenzarti nella tua vita.”
”Ecco perché mi volevi costringere a giocare!” esclamò Nicolò dandosi una pacca sulla fronte.
“Esatto: durante il gioco sarei stato buono ai tuoi ordini, ma una volta terminato avrei lavorato alla mia vendetta” confermò il sim, che poi continuò: ”Inoltre, più tu giocavi, meno ti accorgevi che ero io a dominarti e facevi ciò che io ti ordinavo senza rendertene conto. È stato il diamante verde a rovinare tutto: appena lo hai visto, hai cercato di avere un maggiore controllo su di te, visto che avevi capito che non eri più tu l’artefice delle tue azioni.”
”Ma scusa, perché mi hai fatto fare tutte queste figuracce?” chiese il ragazzo,
“Perché io non ne facevo mai una! Mai un imprevisto, mai una litigata. Mi è sempre riuscito tutto al primo colpo, non ho mai detto una parola fuori posto, una noia totale!” si lamentò l’avatar.
”Quindi tu hai organizzato tutto questo solo per… vendicarti con me per la vita che ti ho creato?” chiese quest’ultimo.
”Esattamente” confermò il sim: ”Ora devo terminare la mia vendetta.” disse sfilando l’arma dalla mano di Nicolò e puntandogliela contro.
”No! Ascoltami, me! Io in questo periodo in cui sono stato controllato, ho capito come si sta. Ero come un robot programmato per svolgere un compito al quale, se chiedi perché lo fa, non sa rispondere. Ho capito come ti sei sentito, è un’esperienza terribile, ma a tutto si può rimediare: torna nel videogioco e vedrai che io non ti comanderò più, le decisioni le prenderemo insieme. D’altronde, io sono te e tu sei me, è giusto collaborare, no?”
”E come faremo a collaborare?” chiese l’avatar incuriosito, abbassando il coltello.  
“Facile: tu hai detto che  adori cucinare? Ti faccio licenziare e iniziare una nuova avventura fra i fornelli. Tu hai detto che odi tua moglie? Ti faccio divorziare. Tu hai detto che tutto va sempre troppo liscio? Ti creo degli imprevisti ogni tanto. Ci stai?”.
Il sim si prese tempo. Nicolò si sentiva sudare. Allungò la mano speranzoso. L’avatar gliela strinse: ”Ci sto. Tu però dovrai promettermi una cosa: smetti di comandare gli altri anche nella vita reale.”
”Ma come fai a sapere quello che…?”
”Non ha importanza, fai come ti ho detto e rispetta il patto.” terminò il sim scomparendo nel nulla.
Tutto era finito. Nicolò guardò sopra la sua testa per averne conferma: sì, il diamante era svanito. Libero! Era troppo eccitato per dormire, si sedette per terra e ripensò a tutti gli avvenimenti della giornata e soprattutto alla penultima frase del sim: era vero, doveva smettere di cercare di prevalere con la forza sugli altri, visto che aveva capito come ci si sentiva, ora vedeva il mondo con occhi diversi. Poi tornò nel suo letto, si mise a giocare e s’inorgoglì nel vedere il suo avatar mollare tutto e ripartire da zero. Suonò la sveglia e lui non aveva ancora chiuso occhio. Si scollegò da “The Sims” sentendo i passi di sua madre che lo veniva a chiamare. La donna si stupì nel vederlo già in piedi ed ancora di più nel vederlo sorridere: ”È finita, mamma. Disdici la visita dallo psicologo.”
”In che senso? Ieri parevi ammattito ed ora…”
”… Non mi sono mai sentito meglio. Ho capito gli errori che ho commesso e mi sento in pace con il mondo. Prima di portarmi a scuola, portami in pasticceria.”
”In pasticceria?” domandò la donna:” E per quale ragione?”
”Fidati.” la tranquillizzò il ragazzo, che andò a fare colazione canticchiando.  Quando fu ora di uscire di casa, Nicolò estrasse i suoi soldi dal porcellino: li aveva messi da parte con orgoglio, erano le mance che riceveva quando tempo prima aiutava suo padre in officina. Provò disgusto nel pensare che i soldi che aveva aggiunto più recentemente al suo salvadanaio li aveva rubati a scuola. Comunque erano abbastanza per quello che aveva in mente di fare, anche se avrebbe dovuto usarli quasi tutti: ”Dove vai con tutti quei soldi? E da quando li hai?” si stupì sua madre.
”In pasticceria. Te l’ho detto, no?”. Sua madre guidò fino al negozio indicatogli dal figlio, dove facevano i dolci più buoni della città. Acquistò tutte le paste sul bancone e una torta e portò tutto in auto con l’aiuto del proprietario del negozio. Arrivò a scuola in ritardo. Entrò in classe senza bussare e la prof d’italiano lo squadrò pensando: “Guarda questo che ha anche il coraggio di arrivare in ritardo!” ma la sua espressione cambiò quando Nicolò posò sulla cattedra tutte le paste: ”Prof, mi voglio scusare per il mio comportamento di ieri. Vuole favorire? Venite anche voi, ce n’è per tutti.” esclamò il ragazzo facendo cenno di avvicinarsi. I compagni accerchiarono la cattedra, anche se i più scettici commentarono: ”Non ci sarà mica del veleno dentro?” Ma non conoscevano il nuovo Nicolò! Distribuì paste anche durante l’intervallo, cercando soprattutto coloro a cui aveva fatto scherzi o rubato merende e soldi, che ottennero una doppia razione. Anche Matteo ottenne più paste visto che era sempre stato al suo fianco. La torta la fece portare alla psicologa alla quale doveva le scuse più grandi, che apprezzò il gesto. Nicolò quella mattina fu attento alle lezioni e uscì dalla scuola felice . A casa si sdraiò sul letto, accedendo a The Sims. Era contento per il suo avatar che già sfornava piatti deliziosi nel suo ristorante, ma mancava qualcosa: mancava una moglie che lo amasse veramente, mentre nel caso di Nicolò mancava suo padre. Ecco di cosa aveva realmente bisogno, ecco qual’era il suo sogno: una famiglia unita. Per questo voleva che il suo avatar l’avesse. Capì che ora il suo avatar era felice anche senza il suo aiuto, e poi pensò una cosa: una famiglia in un videogioco non gli serviva, poteva crearsela nella realtà, stringendo nuove amicizie e rinsaldando le vecchie, invece di vedere nemici ovunque. D’altronde quella mattina si era sentito così bene compiendo quei gesti così reali, che non avrebbe più avuto bisogno della finzione di The Sims. Ora il suo avatar aveva quello che desiderava, come gli aveva promesso,  e poteva anche andare avanti da solo. Così, quando Matteo gli scrisse su Whatsapp se volesse andare a fare due tiri, questa volta Nicolò non se lo fece ripetere due volte.
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