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Bruno Trangoni 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Diploma presso l’ITT F. Algarotti di Venezia, laurea in Storia presso l’università di Venezia, collabora con l’Ufficio Attività Cinematografiche del Comune di Venezia per la realizzazione di due rassegne cinematografiche.
Insegnante di scacchi nelle scuole elementari, partecipa al concorso letterario Lagunando 2019 ottenendo il terzo premio nella sezione “Orti dei Dogi”.
Attualmente lavora per il Teatro Stabile del Veneto.
Autore già presente edizioni:
2021
2020
2019

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
UN LUNGO VIAGGIO





Vio stava sgranocchiando la sua ennesima granita, avrebbe voluto sorseggiarla, come sperava di fare con tutte le altre, ma non ci riusciva. Altre volte la teneva di più in bocca, facendola sciogliere un po’, stavolta non fece neanche quello. Era nervoso, sapeva che da un momento all’altro sarebbe arrivata Fedora, sapeva che gli avrebbe fatto i soliti discorsi. E questo lo innervosiva.
Eccola infatti.
“Fedora.”
“Ciao Vio.”
Anche Fedora aveva la sua granita e aveva, sì, le solite cose da dire a Vio.
“Questa è la volta buona. No, non lo sento, non è come il solito, questa volta è, fidati.”
Vio rispose dopo aver frantumato rumorosamente i blocchi di ghiaccio che aveva in bocca.
“Io mi posso anche fidare, ma visto che è quella buona, stavolta mi devi spiegare perché.”
“Perché siamo pronti, ecco perché.”
“Io sono sempre pronto per la prossima granita.”
“Anch’io. Tutti noi lo siamo, ma stavolta le sorseggeremo, come desideri sempre tu, le consumeremo e le assaporeremo come refrigerio, perché avremo caldo.”
Il caldo, sì, se ne sentiva parlare, ma era sempre e comunque un concetto astratto per loro.
“Soprattutto le avremo con gusti diversi: menta, orzata, amarena, limone, tamarindo…”
“Scusa scusa scusa” la interruppe Vio “so che hai studiato, ma io non ho idea di che cosa stai parlando.”
“Nemmeno io ce l’ho l’idea, anzi ho solo quella, perché non so che gusto possa avere la menta e tutto il resto. Ma sarà sempre diverso da quella solita robaccia, no?” indicò il contenitore che teneva Vio.
“Va bene, ho capito. Siamo pronti. Tutto questo esser pronti è solo per mangiare granite dai gusti sconosciuti?”
Fedora avvicinò il suo contenitore a quello di Vio, come a voler brandire l’importanza del contenuto.
“Questa cosa a noi conosciuta servirà per pulire i pavimenti, non sarà più unico gusto del nostro unico alimento.”
“Scusa, hai detto… pavi che?”
“Sì, lo so, sto parlando di cose che non conosci, ma è normale. Io non ho visto ancora niente, e anche questo è normale, ho solo studiato. Andiamo con ordine: tu dove andrai in ferie quest’anno?”
Quest’anno. Aveva pronunciato la parola con grande enfasi, immaginando l’obiezione dell’amico sul significato della parola anno.
“Io quest’anno andrò…”
“Aspetta aspetta, non me lo dire, voglio indovinare.”
Fedora si concentrò a pensare.
“Piantala, lo sai benissimo dove vado di solito, ma stavolta ho cambiato. Su, dai forza, dimmelo tu allora, dimmi dove vado in ferie quest’anno.”
Fedora si fece pensierosa.
“Mah, di solito noi andiamo lì o lì.”
“E invece questa volta io andrò qui.”
“Aspetta, fammi indovinare. Non è che ci sia tanta scelta. Non andrai per caso…”
Vio annuì con soddisfazione.
“Ma dai! Di solito ci vanno loro, perché a loro non costa molto, mentre a noi costa molto di più.”
“Mi sono stufato dei soliti posti, poi lì non c’è un granché; ho voglia invece di farmi qualche arrampicata, qualche canyon. Lo sai che la mia indole è di essere un sassaiolo.”
“Sì, sì, certo, ma ascolta.”
Fedora si chinò verso Vio guardandolo seria.
“Rocce, canyon, mare, ghiaccio, sabbia, cielo. Lì c’è tutto. Non dovremo più limitarci alle solite vecchie abitudini, potremo averne altre. È tutto pronto ormai, basta solo andarci. Ma ti rendi conto che siamo gli eletti, siamo i fortunati? Lo sai quanti prima di noi hanno coltivato questo sogno? Ebbene lo hanno solo coltivato. Noi invece lo possiamo realizzare, non siamo quelli di prima e neanche quelli di dopo, perché quelli saranno lì assieme a noi, che siamo quelli di adesso, quelli che finalmente conseguiranno l’obiettivo di questa storia iniziata decine di migliaia di anni fa.”

Buio.
Silenzio.
Una cosa in continuo movimento in un vuoto senza confini.
All’interno della cosa un insieme di vite sospese.
A queste avevano detto che solo dopo un tempo veramente lungo avrebbero cominciato a sognare. Chi l’aveva detto non si era sbagliato. Non fu mai possibile quantificare il tempo trascorso da quando avevano iniziato il lungo sonno a quando avevano cominciato a vivere i primi sogni. Questi presentavano solo colori; all’inizio varie sfumature di rosa, collocabili in una via di mezzo di temperature. Poi apparvero delle figure, perlopiù indefinibili, prima con un leggero distacco cromatico dallo sfondo, poi sempre più marcato. Arrivarono a vedere figure molto chiare tendenti al giallo su un verde azzurro carico. Ogni tanto riappariva il rosa, ma non era più dominante.
A quelle vite sospese avevano anche detto che una sempre maggiore definizione delle tinte e delle linee di confine che caratterizzavano le figure corrispondeva all’avvicinarsi del momento del grande risveglio.
Non si sbagliavano.
Sapevano che sarebbe arrivato questo momento, un po’ lo temevano.
“Ciao.”
Eccolo lì il momento. Le immagini oniriche di svariati colori e figure furono sostituite da percezioni sensoriali di un qualcosa che molto tempo fa era abbinabile all’idea di realtà.
“Ciao.”
Entrambe le vite non più sospese risparmiarono la banalità della domanda “dormito bene?” Sapevano, loro e gli altri, come avevano dormito e tutti sapevano anche come e cosa avessero sognato.
“È ora?”
“Sì, è ora. Abbiamo ancora un po’ di tempo per prendercela comoda. Il risveglio è stato programmato con un buon anticipo. L’hanno fatto per poter parlare un po’ fra di noi, prima dell’assemblea.”
“Tu vuoi parlare?”
“Sì, se ne hai voglia.”
“Se non ti dispiace me ne starei un po’ coi miei pensieri.”
“No, non mi dispiace, sto anch’io un po’ coi miei pensieri.”
Nessuna delle due voci fece caso a quanto tempo potesse essere passato in compagnia dei loro pensieri, entrambe capirono quando era il momento di abbandonarli e unirsi all’assemblea.
Furono presenti tutte le vite non più sospese.
Prese la parola il portavoce.
“Sono molto felice di constatare che nessuno si è perso per strada, che tutti siamo arrivati a vivere insieme questo grande momento. Sappiamo che nessuno ci dirà mai cosa succederà dopo; ma siamo qui perché abbiamo deciso che lo sappiamo ugualmente, senza bisogno che ci venga confermato. Sta andando tutto come avevamo previsto, abbiamo avuto fortuna, certo, ma i calcoli erano precisi. Sappiamo cosa ci succederà fra poco, sentirselo dire è una cosa, viverlo è diverso. Avete paura, lo so, ho paura anch’io. Io vi parlo, ma ho paura. La mia convinzione non è più forte della vostra solo perché vi parlo. Anzi, forse ho più paura di voi. Per essere sicuri di non sbagliare proprio sul più bello dobbiamo essere tutti svegli e guidare le strutture a destinazione. Nella migliore delle ipotesi – e qui la nostra capacità di calcolo non poteva fare di più – ci vorranno 3-4 mila anni per arrivare al loro lungo viaggio, nella peggiore qualche decina di migliaia. Loro sapranno e dovranno aspettare; dovranno ricordarsi di cosa stiamo facendo noi, di cosa faranno quelli subito dopo di noi e quelli dopo di questi e ancora dopo, ancora dopo, fino ad arrivare a loro. Anche loro avranno paura, ci sarà sicuramente qualcuno che non ci crederà, che preferirà rimanere lì; ma ci sarà sicuramente anche qualcun altro che saprà convincere chi non sarà convinto. Le tempistiche diverse dipenderanno anche da quanto ci vorrà per arrivare alla convinzione totale, requisito fondamentale per giungere al compimento dell’operazione.”
Ci fu una pausa. Il reparto tecnico doveva verificare che non fosse già arrivato il momento. Fece segno al portavoce che poteva continuare ancora un po’.
“Prima di non potervi dire più niente vorrei...” fece una pausa non trattenendo l’emozione “esprimervi tutta la mia gratitudine per la vostra encomiabile scelta. Temevo avrebbero accettato in pochi; era difficile aspettarsi un numero così elevato di partecipanti. Avete dato tutta la vostra vita per questo. Avete scelto di tenerla sospesa per un lunghissimo tempo. Avete deciso di donare quel poco di essa che vi è rimasto. La nostra specie sarà ricordata per aver visto più in là, non limitandosi a curare gli interessi della propria generazione. Non dovrà mai essere dimenticato.”
Il reparto tecnico annunciò che il tempo era terminato.
Tutti si dovevano preparare al Grande Momento.

Vio sapeva che avrebbe preferito non incontrare Fedora. Era un bel po’ che andava avanti con questo discorso. Lei era fra quelli che ci credeva, però rispetto a qualche tempo fa non era una dei pochi, cominciavano a crescere, quelli che ci credevano. Vio sapeva solo che si poteva dar vita al progetto solo ed esclusivamente se tutti avessero aderito. Non poteva rimanere nessuno fuori, bastava uno solo a non volerlo e tutto sarebbe naufragato. Lui proprio non ne voleva sapere. Aveva paura e neanche poca. Come lui ad avere paura erano rimasti in pochi. Fedora gli aveva detto che solo lui e Memo non erano ancora allineati. Doveva crederle? Si sentiva anche in colpa, si sentiva investito di una grossa responsabilità, da lui dipendevano le sorti dell’intera loro comunità e forse anche di quella degli altri. Già, gli altri. Fedora gli aveva detto che tutti gli altri erano d’accordo per andare, ma lui aveva ricevuto notizie discordanti. Aveva sentito che un certo Zane e un certo Tagliapietra non ne volevano sapere di partire. Proprio come lui e Memo. Due di qua e due di là, separati da milioni di chilometri.
“Fedora, per favore, lo so, capisco, ma ci devo pensare.”
“Non abbiamo molto tempo, capisci? Ormai è tutto pronto. Ma ti rendi conto che questa cosa è iniziata almeno 30000 anni fa? 30000 anni! Chi l’ha ideata e progettata non pensava a sé stesso, aveva una visione enormemente lungimirante. Hanno sacrificato le loro vite per questo. Almeno un centinaio di individui l’ha fatto per noi, predisponendo tutto. E quelli dopo di loro hanno continuato a lavorarci, per migliaia di anni. Noi dobbiamo solo prendere le nostre cose e andare. Lo capisci?”
“Senti Fedora. Io voglio restare, non me la sento; resto qui, finisco i miei giorni qui. Che importa a voi? Qui ogni tanto viene qualcuno a esplorare e non mi vedrà neanche, né me, né Memo, né quegli altri.”
In quel momento arrivò improvvisamente Trevisan. Vio lo accolse offrendogli una granita. Trevisan gentilmente rifiutò.
“No grazie, oggi non bevo. Sì, lo so, bevo, si fa per dire.”
Fedora offrì un cenno di complicità al nuovo arrivato.
“Come ti va, compare?”
“Sapevo di trovarvi qui, tutti e due. Volevo dirvi che sono appena stato dagli altri. Ho fatto un lungo viaggio, ma ne è valsa la pena. Ho parlato con Tagliapietra. Oltre lui e a Zane c’erano anche Finotello, Sfriso e Del Bon a non essere d’accordo con la partenza.”
Trevisan si prese la giusta pausa enfatica prima di continuare.
“Hanno tutti cambiato idea. Di là non c’è più nessuno che non voglia partire. Ho dovuto usare le maniere forti per convincerli.”
Lo sguardo di Trevisan puntò decisamente Vio, il quale, come per difendersi, si mise in bocca dell’altro ghiaccio, quasi soffocandosi.”
“Tra poco sarà qui anche Memo. Voglio che assieme guardiate quello che ho da mostrarvi.”
Glielo disse non distogliendo da lui il suo sguardo inquietante. Fedora apparve piuttosto sorpresa per questa irruzione. Ma si sentiva sollevata. A quanto pare Trevisan di lì a poco le avrebbe risolto il problema senza che fosse costretta a ricorrere a misure drastiche. Voleva bene a Vio, ma non sopportava la sua testardaggine e il suo irriducibile misoneismo. Sapeva anche degli altri, sapeva che pure questi non erano facili a convincere, eppure Trevisan ci era riuscito. Un po’ era spaventata, un po’ incuriosita da queste maniere forti di cui parlava il nuovo arrivato. Lo conosceva bene, un tipo piuttosto moderato, per quanto deciso e sicuro di sé.
“Dove andrai in ferie quest’anno?”
“Anche tu con questa domanda, me l’ha chiesto poco fa Fedora. Se le tue maniere forti me lo consentiranno andrò dove vanno sempre quelli che hai appena convinto.”
“Vuole farsi delle arrampicate e dei giri in canyon” intervenne Fedora.
Trevisan non fece una piega, gli interessavano poco i programmi di Vio, sicuro che tra poco li avrebbe cambiati. Non gli importava nemmeno di dirgli che quella sua vacanza gli sarebbe costata molto di più.
Passato il tempo necessario apparve Memo.
“Sono qui solo perché me l’hai chiesto tu” disse il nuovo arrivato rivolgendosi a Trevisan.
“Vai anche tu in ferie dove va Vio, Memo?”
“No, non m’importa. Io non vado da nessuna parte, sto bene qui” disse accentuando con il gesto di riferimento al suo qui.
“Bene, ora che ci siete tutti, guardate. Anche tu Fedora.”
Trevisan aveva portato con sé delle immagini, era quello il dispositivo dotato di forza.
“Questo che vedete è un batèo. Non sapete cos’è. Lo so. Sarà il nostro compagno, per noi come per loro. Ci servirà per attraversare il mare” svelò un’altra immagine “e questo è il mare, non questo mare, un mare che non potete nemmeno immaginare. Guardate qua. Questo è il mare prima del lancio. E questo dopo il lancio. Le vedete? Questa è la nostra e quest’altra la loro. La nostra è quella con tanti colori. Dovremo abituarci. Faremo presto.”
“Hai per caso qualche immagine di granite a gusti diversi?”
“No, Fedora. Sono elementi troppo piccoli, impossibili da convertire in immagini.”
“E questo cos’è?”
Fedora si sorprese della domanda posta da Vio, che sembrava improvvisamente interessato.
“Questo è il simbolo della nostra isola.”
“Ma è storto!” protestò Memo.
“Quando è partito era dritto, per via del grande impatto si è leggermente inclinato.”
“Ma a che serve?” Chiese stavolta una non meno incredula nonché incuriosita Fedora.
“Tutto sarà spiegato e chiarito a suo tempo, io vi sto solo fornendo delle visioni del nostro nuovo Mondo.”
Anche Memo si trovò senza accorgersi a bocca aperta.
“Cosa guardi Memo?” Cos’è che ti attrae?”
“È semplicemente stupenda quella cosa!” Indicò un punto nell’isola degli altri.
“Quella è una Basilica, un capolavoro.”
Memo non nascose il suo disappunto.
“Guarda che le distanze fra le due isole non sono le stesse che ci sono qui. Noi potremo andare da loro, e loro da noi, tutte le volte che vorremo. Quindi tu potrai andare a vedere la Basilica da vicino tutte le volte che vorrai. Guarda qui” gli indicò un altro punto “qui è dove loro si rimetteranno a lavorare il vetro; ce ne sono abbastanza di questi luoghi. Anche se lì gli spazi saranno enormemente più piccoli rispetto a qui, ci sarà posto per tutti.”
Fedora aveva capito che non c’era più bisogno di convincere l’amico; il lavoro di Trevisan era più che mai efficace. Non doveva più fingere di rassegnarsi. Il suo piano prevedeva di far credere a Vio che poteva restarsene lì e finire i suoi giorni in solitudine. L’avrebbe portato via con la forza, una vera forza, forse crudele, diversa da quella sottile appena usata da Trevisan; avrebbe introdotto un cocktail di idrogeno, elio e altri idrocarburi nella sua granita di ammoniaca. Vio si sarebbe addormentato e si sarebbe risvegliato a destinazione.
Trevisan continuò la sua relazione.
“Le due isole sono state lanciate fin lì dai nostri lungimiranti antenati. Immagino sappiate che le hanno accompagnate loro. La precisione era fondamentale ed era ottenibile solo con la presenza di una guida costante. Temevano di non farcela ad arrivare. Per questo sono partiti in tanti, volevano essere sicuri che tutto sarebbe andato come avevano progettato. E andò proprio tutto nel migliore dei modi. Come vi ho detto, le due isole sono abbastanza vicine, una vicinanza per noi ben diversa da quella cui siamo abituati. Se in quella loro assegnata potranno continuare a creare il vetro, potendolo fare in condizioni diverse rispetto a qui, noi nell’altra isola potremo continuare ugualmente a fare le nostre cose, quelle cui siamo abituati, i nostri merletti. E poi si potrà pescare. Sì, lo so che non sapete cos’è, qui non si pesca. Ma io ho studiato, la pesca è una gran bella cosa. Piacerà a tutti. Guardate qui” indicò un altro punto “questo è il nostro mercato del pesce. Non preoccupatevi, scoprirete tutto. E vi piacerà. Lì vicino ci sono altre isole, tutte circondate dal mare, che da quelle parti ha un nome strano: si chiama Laguna.”
Fedora aveva gli occhi lucidi mentre sentiva dire queste cose. Ma anche gli altri dovettero presto rassegnarsi all’efficacia delle maniere forti di Trevisan.
“Ma… così” disse Vio “tanto per sapere, avranno dato un nome a queste due isole. Come le hanno chiamate? Urano 1 e Urano 2?”
“No. Hanno aggiunto solo una lettera al nome del nostro Mondo. La lettera è l’iniziate dei luoghi in cui di solito andiamo in vacanza, sia loro che noi. La nostra isola prenderà la lettera iniziale dei nostri satelliti Belinda e Bianca. La loro di Miranda, dove avevi previsto tu di andare quest’anno.
Queste isole si chiameranno così B-Urano e M-Urano.
È tempo di partire.”
ORTI DEI DOGI
ROMANZO
Uno stimato professore di Lettere di un Liceo classico veneziano scopre in matura età di avere una certa passione per la scrittura. Comincia a comporre romanzi, per lo più gialli. Ne produce tre in breve tempo e per uno di questi, il secondo, si prospetta il felice esordio nel mondo della pubblicazione. Viene contattato da una rivista online per un’intervista, condotta da un’attraente giovane donna.
E qui comincia la storia…


L’INTERVISTA


“Ahia! Che fai?”
“Come che fai, è ora.”
“Ancora con quella storia?”
“E chi aveva smesso?”
“Non so… pensavo non si facesse sul serio.”
“Dai, non rendere le cose più difficili, è un mese che ne parliamo.”
“Sì, ma mi rimangono delle perplessità.”
“Perché dormivi quando è entrata la Grande Canna. Non hai potuto leggere il messaggio di Dio.”
“Io non so neanche chi sia questo dio, non l’ho mai visto, anche se a dirla tutta qui non è che si veda un granché.”
“Be’, che si veda o no, Dio esiste, punto. E il suo messaggio era chiaro: uno solo di noi deve rimanere, l’altro deve sparire.”
“Se lo dici tu… Ma non è che… ecco, sì… si possa fare diversamente? dico usciamo tutti e due e poi lì decidiamo, non è meglio?”
“Andremmo contro la volontà di Dio. Poi tu sai che non ce la faresti a vedere con i tuoi occhi là fuori, avresti sempre bisogno di un aiutino. E l’avrai, tu dentro di me vedrai tutto con i miei occhi.”
“Tutto quello che so è perché me l’hai detto tu, perché tu dici che te l’ha detto questo dio, perché era scritto su quel coso che più che una grande canna a me sembrava altro, sembrava qualcosa che volesse controllare qui dentro e prelevare un po’ di questo mare.”
“Non possiamo aspettare ancora, se continuiamo a crescere diventerà tutto più difficile e doloroso. Dai, avvicinati.”
“E va be’… come sempre, se lo dici tu… Ahia” Mi fai male.”
“Tra poco non sentirai più niente, fidati.”
“Mi fai male… male… mi fai male… … mi fai… …”

Fanno aspettare due ore. Ormai è un protocollo, non ha importanza se la riparazione necessita di cinque minuti o di un giorno: ci vogliono comunque sempre due ore. Il protocollo prevede numerose orbite ellittiche con passo da crociera lungo i percorsi ovoidali dei due piani; ce ne sarebbe anche un altro, il sotterraneo, ma il garage non può interessare neanche a quelli come lui che aveva deciso che in quelle due ore non avrebbe comprato. Non sarebbe stato il primo e nemmeno l’unico a farlo, ma sarebbe appartenuto a una minoranza. Gli piaceva appartenere alle minoranze. Cosa dovuta, forse, anche alla sua origine croata.
Lungo quei percorsi è anche facile incontrare due volte le stesse persone, sono persone che girano, forse non tutte aspettano il passaggio di quelle dannate due ore. L’hanno costruito in un postaccio, un fatto tutt’altro che casuale, i grandi centri commerciali vengono costruiti sempre in postacci, così a nessuno viene in mente di uscire a farsi una passeggiata. No, bisogna rimanere dentro e possibilmente comprare.
Proprio il posto giusto da visitare in un pomeriggio di sole quasi estivo. Ma doveva portare a riparare il suo telefono e si poteva farlo solo lì, in quel postaccio. Lo doveva fare, sua moglie gli aveva veramente tanto rotto le scatole che non gli sarebbe stato possibile rimandare ancora. Doveva farlo subito, altrimenti gli scadeva la garanzia.
Sembra una cosa fatta apposta, gli apparecchi si rompono, ti costringono ad andare lì a comprare stronzate inutili in quelle due ore.
Per lui non era mai stato un problema far passare il tempo inutile, quello che non ci deve essere, che separa due versanti lontani, utili solo quelli. Aveva passato sei ore una volta alla stazione di Conegliano per arrivare all’orario della partenza del suo treno. Non si era preso in anticipo, non era sua abitudine arrivare in anticipo agli appuntamenti, aveva semplicemente commesso un errore di scelta di itinerari. Quella volta si fumò un pacchetto di Camel e si mangiò un pacco di biscotti, ma erano sei ore! E non c’era niente da comprare nella sala d’aspetto della stazione di Conegliano. Non c’era internet, non c’erano gli smartphone, c’erano i ferrovieri che, con le loro russate, al massimo battevano il tempo ma non lo facevano passare.
Quella volta alla stazione di Conegliano fu veramente dura, questa volta decisamente meno. Si era anche portato da scrivere, ben sapendo che un suo libro non sarebbe mai potuto cominciare in quel tipo di ambientazione. Eppure anche in posti come quelli bastava poco per creare un minimo di presupposto per scrivere qualcosa; bastava non sentirsi osservati, sentire un fruscio dietro le spalle, non sapere ma non poter escludere che a pochi metri un’ottica comandata da una mano ignota lo stava immortalando.

“Buongiorno. Prego, si accomodi.”
“Grazie.”
Lei si accomodò sul divano, lui in poltrona.
“Con le dovute proporzioni, una poltrona è leggermente più scomoda di un divano; è giusto che la occupi io, visto che sono l’interrogato, così sto un po’ in tensione.”
Lei sorrise.
Ebbe subito la sensazione di avere a che fare con una dilettante; una di quelle che vengono mandate allo sbaraglio dai capetti di turno, che cercano di apparire professionali anche quando hanno appena cominciato. Aveva notato il suo nervosismo, la sua voce tremolante, figlia di una cavità orale asciutta come un deserto di sabbia.
“Bene. Allora, da dove cominciamo? Come vede mi sono preparata una serie di domande, ma di solito non parto dalla prima.”
Appoggiò il registratore sul tavolino di vetro fra il divano e la poltrona. Nel farlo non sfuggì a lui il gesto nervoso accompagnato da un evidente tremolio.
“Io sono qui per parlare dell’Isola, l’unico suo libro che ha ricevuto l’onore della pubblicazione, ma ho letto anche gli altri suoi due, pertanto chiederò qualcosa a proposito delle analogie fra le tre opere. Quello che penso è che ogni scrittore abbia il suo personale motorino d’avviamento: quello che accende l’idea della storia che si vuole scrivere. Lei avrà sicuramente il suo. Ecco, mi parli di come ha pensato e poi realizzato questo romanzo.”
Se l’era preparata, non prese mai respiro e recitò il copione a memoria in un crescendo di tonalità.
“Sì, concordo con l’idea dello starter e, visto che parleremo anche degli altri miei lavori se non ho capito male, le racconterò dei loro motorini, ognuno diverso dall’altro. Io associo la nascita di un libro alla nascita di qualsiasi cosa di animato, che prima è un embrione non ancora ben definito, poi si sviluppa e diventa qualcosa che non era stato previsto all’inizio fino ad assumere anche una propria esistenza indipendente. Il concetto può essere contraddittorio ovviamente, perché come fa una cosa a essere autonoma se comandata da un’altra fonte di energia? Sarà una cosa che ripeterò, però mi piace dire che a un certo punto mi lascio coinvolgere dalla storia e immagino le sue evoluzioni non previste, almeno all’inizio. L’isola ovviamente riguarda Poveglia, cui segue la curiosità mia personale per questo luogo fin troppo battezzato come misteriosohe d’inverno, incuranti delle rigide temperature invernali. Molto spesso c’erano solo loro due...

(continua)



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