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Emilio Sciotti 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nato a Merano e residente a Verbania, parla cinque lingue ed ha vinto vari premi letterari.
Informatico, ha vissuto in paesi europei diversi e tornato in italia si è stabilito sul Lago Maggiore.

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
LO SGARBO DI ODESSA




                                                                                
Il mattino d’autunno ritoccava i colori di ogni foglia. Le lamiere dell’auto erano già calde di sole. Alcuni visitatori coi cappotti aperti passeggiavano sul piazzale. Davanti  all’edicola Marco tentava di decifrare i grossi titoli in cirillico dei giornali.
Sfrecciò nel cielo una pattuglia di aerei militari della vicina base NATO, che scomparvero verso est sopra i tenui orizzonti carsici. Una guida turistica richiamò l’attenzione col fischietto:  “Signori, benvenuti a nostre Grotte. Scusare mio poco italiano”.
I primi carrelli del trenino furono presto occupati. Serena si strinse nel cappotto, un poco infreddolita. Avevano dovuto affrettare la colazione, Marco si era scottato il palato con la fetta di pane mezzo carbonizzata.
Il trenino correva sballottando i viaggiatori, al suo passaggio si accendevano le luci a scoprire i cunicoli, le sale, il fiume sotterraneo.
“Quanti chilometri?” gridò Serena.
“Quelli esplorati finora sono una ventina.”  Marco le raccolse i capelli dentro il cappuccio, “Non saranno uno strapazzo per te, questi sbandamenti?”
“Ma dai, sono incinta, mica inferma!”
Il trenino si fermò nella ‘sala del duomo’. Tutto era stupendo, grandioso, incredibile. Leggeri tendaggi di calcare scendevano dalla volta in pieghe quasi trasparenti. Bizzarre figure restavamo incompiute nella fissità della pietra.
La guida col berretto da generale d’armata stava proprio accanto a Serena, la quale armeggiava col telefonino.
“Signori, inutile usare telefonini dentro grotte, niente rete. Ma voi notare sembianza di madonna con bambino, sì? Questo su destra essere invece Carlo  Marx”.
Serena strabuzzava gli occhi tentando di riconoscere in una patata e una rapa ‘madonna con bambino’.
Il giorno prima avevano visitato le scuderie degli allevamenti lipizzani e la scuola di equitazione classica. I puledri di un anno che non avessero rivelato particolari doti per la danza  venivano castrati e destinati alle cavalcate dei turisti. “Attenti, se vi guarda con il bianco dell’occhio!” aveva avvertito il domatore, mentre Serena accarezzava il muso di un baio, contenta di saperlo esperto danzatore. Ma un momento dopo il grande occhio aveva virato al bianco ostile e lei aveva avvertito come una scossa elettrica, un fisico presentimento, come un sibilo venuto dal fondo della terra e aveva ritirato la mano, si era girata di scatto. Era sola nella stalla. E allora era corsa fuori senza respirare e si era buttata nelle braccia di Marco: “Amore, il mondo è alla fine…”   “Ma cosa dici”, e calmava il tremito delle mani di lei, “Ti ha dato un morso?”
Ammassati dietro la guida i visitatori salirono verso una collinetta che si stagliava sul fondo della cupola, scesero alcune scale e traversarono il ponte costruito dai prigionieri russi durante la guerra. Serena si appoggiò ansimante alla ringhiera del ponte. “Sei  stanca?” Lei si sollevò sulla punta dei piedi e accostò le labbra al suo orecchio: “La vita! La sento, dentro di me.”  Un bimbo, fra pochi mesi, per loro due. La camera con la culla era già pronta! L’armadio pieno di golfini azzurri e rosa…
“Là! Laggiù… nell’acqua, vicino al sasso nero, lo vedi?” strillò Serena.
“Che cosa? Non vedo niente.”
“Il cucciolo di drago! L’ho visto, era lui!”
Il Proteus Anguinus, anfibio anguilliforme. Nel passato geologico si era ritirato negli abissi della terra, nelle acque delle grotte profonde, i suoi occhi si sono atrofizzati, la pelle è di un colore rosa carnicino. Può essere oviparo o viviparo, in dipendenza di fattori ancora sconosciuti.
Invano restarono a fissare le acque, era scomparso. Gli altri visitatori erano già oltre, in cerchio attorno alla guida, che salito sulla base mozza di una stalagmite chiese silenzio.
“Da qui, signori, noi udire eco di magia: OHO! OHO!”
“(ohooooo… ohooooo…)”
Marco si avvicinò alla guida, indicò il giornale che questa teneva nella tasca della giacca, chiese cosa significasse il grande titolo.  “LO SCHIAFFO DI ODESSA”, rispose la guida, e fece uso del fischietto ad avvertire che i bambini non si addentrassero da soli nel ‘giardino incantato’.
Fu ancora  Serena a notare un impercettibile rotolare di sassolini, e un filo di sabbia che spioveva da una fessura. Si udì un brontolio venire da una galleria laterale, Marco si inquietò. “Dobbiamo raggiungere il gruppo.” Si tennero per mano, c’era un passaggio sdrucciolevole, con scarsa luce. Non si sentivano quasi più le voci degli altri e i fari dietro di loro si spegnevano uno dopo l’altro. Lei si appoggiò alla balaustra di un piccolo belvedere, lui corse in avanti a chiamare il gruppo, il quale difatti si era fermato ad aspettarli. La guida tenne loro la bonaria ramanzina prevista per ‘innamorati che si perdere in anfratti ipogei’. Quanto ai brontolii cavernosi nessuno tranne loro li aveva notati.
Risalirono nel trenino e dopo una breve corsa arrivarono al capolinea, alla ‘grotta del gran lago’. La guida indicò lo chalet degli spuntini, avvertì che ‘trenino partire nei venti minuti’ e ritiratosi in disparte accese  -furtivo- una sigaretta. Serena volle un tè alla menta, Marco un panino con pancetta del Carso. Dall’altissimo soffitto spiovevano cascatelle che creavano cerchi lenti nel lago. Una minuscola barca attirò lo sguardo di Marco.
“Mi domando quale sia stato il primo uomo a entrare qua dentro.”
“Forse era una donna. Noi donne abbiamo vissuto più di un milione di anni nella caverne, mentre voi andavate a caccia di dinosauri.”
Dal trenino venne il segnale di partenza. “Signori, prego attenzione a vostre teste, bambini non sporgere bracci.” Si filava con gran sferragliare nelle strette curve. Strilli di finto terrore si alzavano quando si sfioravano le rocce basse. Serena osservò un’increspatura, un’onda che sembrava correrle accanto sulla superfice del fiume sotterraneo. Di colpo le luci si spensero e con rovinoso stridore di freni il trenino si immobilizzò nel buio. Ci fu un attimo di stupefatto silenzio. Poi la voce della guida risuonò:
“Signori, prego calma, solo piccolo problema!”
Il fascio di una torcia si fissò su un armadietto alla parete. La guida cercava di contattare l’ufficio, che pareva non rispondere. Benché indispettito  rassicurava i passeggeri.
‘Piccolo problema’ durava da mezz’ora. Finalmente parve che il telefono desse segni di vita, ma poco chiari, e la guida prese a urlare, a implorare, a imprecare rabbiosamente, ma un fragore di pietrisco e sassi che franavano lontano verso l’uscita mise fine alla comunicazione. Con la torcia sotto il mento a illuminare una maschera di clown inorridito, il berretto da generale d’armata di traverso, la guida si rivolse all’ignaro e paziente pubblico:
“Signori… essere scoppiata  GUERRA ATOMICA !”
Scoppiarono le  risate.
                                                        ***
Erano trascorsi forse…
Erano trascorse varie settimane. Qualcuno insisteva a contare i giorni, ma era sempre notte, le larve umane vagabondavano a quattro zampe tastando i binari del trenino, annusandosi dentro gli anfratti, schivandosi con cortesi grugniti, salvo ad arrancare verso un punto di raccolta quando la guida li chiamava col fischietto. Allo chalet venivano distribuite le razioni: due biscotti, un francobollo di pancetta, mezza bustina di zucchero. Veniva sacrificato un fiammifero o la breve fiammella di un accendino. L’ultimo pacco di candele era riservato all’esplorazione, alla ricerca di un’uscita. Diverse frane avevano con enormi massi otturato la galleria del ritorno.
Cosa, come, perché: nessuno se lo chiedeva più, e intanto il colonnello Dooley, che era  rimasto intrappolato ingloriosamente nelle grotte con la consorte, rimpiangeva di non trovarsi sul teatro delle operazioni, si infervorava ad esaltare la deterrenza nucleare che sola garantiva l’equilibrio del potere e la pace, tanto che gli fu ordinato a più voci di chiudere il becco e di dormire.
Incredibile, rifletteva Marco, che il fior fiore della scienza servisse all’annientamento dell’umanità e alla distruzione del pianeta. E tornava a preoccuparsi di non poter telefonare alla clinica, Serena rischiava un parto prematuro. Nell’ansioso dormiveglia Marco si ricordava di aver dimenticato di esporre il disco orario al parabrezza. Era scosso da un tremito e si riavvolgeva al corpo febbricitante di Serena. Rimbombavano ogni tanto smottamenti di pietrame, accompagnati da sobbalzi del suolo.
Un giorno (o una notte) la pattuglia della candela tornò dal ramo del Tartaro. Il livello del fiume era sceso liberando un sifone che portava a un labirinto di cunicoli che salivano, si intrecciavano, scendevano e finivano nel fiume. Uno dei compagni era scomparso, incastrato in un budello e si erano udite per un certo tempo le sue grida sempre più fioche, di preda condannata, divorata, digerita nelle viscere della terra, dove soltanto la fragile creatura delle tenebre sopravvive, il Proteus Anguinus.
Lo stillicidio e i piovaschi scandivano il tempo inutile, finché  un fatto venne a scuotere l’apatia di quei sepolti vivi. La guida e il colonnello Dooley avevano catturato una bestia dotata di estrema agilità ma incapace di risalire da una viscida vasca. Avevano a lungo lottato con lei a mani nude nell’oscurità, insensibili a morsi e graffi.
Si decise di festeggiare l’avvenimento. Fu acceso un falò in riva al lago. L’animale fu rinchiuso in una gabbia improvvisata con le casse delle bibite. Delle dimensioni di un cane, il muso allungato con strisce bianche e nere, le corte zampe, il pelo setoloso: un tasso!  La sua presenza tutta agitazione e ringhi induceva euforia nei prigionieri delle grotte, e fu chiamato Teseo.
Alla luce accecante del falò Marco considerava l’aspetto dei suoi compagni: le vesti sbrindellate, simili a pelli di animali, i volti deformi, gli occhi  spiritati, le narici equine, le braccia penzoloni a tastare il suolo.
Le razioni furono ridotte, perché si sperava nella salvezza, e bisognava nutrire il tasso. Alle donne fu affidato il progetto ‘Arianna’ che consisteva nell’intrecciare con vari materiali una corda robusta e leggera di almeno due chilometri.
Venne il momento di gloria per Teseo: bardato di collare e cinghie, assicurato a un primo tratto di filo metallico a prova di denti di tasso, l’animale fu liberato dalla gabbia. Subito si diresse verso il settore del Tartaro, a stento trattenuto da due uomini. Oltrepassati i limiti fino ad allora esplorati, Teseo scelse senza esitare un budello quasi verticale, reclamando diversi metri di filo. Lo si sentiva in alto ansimare, grugnire, annaspare furioso. Diede alcuni strappi, segno che voleva progredire più spedito. L’uomo più magro dei due riuscì a salire nel camino, e ad issarsi sul pavimento di quella che gli apparve nel vago chiarore come una sala. Il bravo tasso ritto sulle zampe posteriori fiutava un astro affacciato ad una breccia, luna o sole che fosse, enfio di fumi e fantasmi.
                                                        ***
Serena era adagiata nel rimorchio, accanto a un cumulo di polli morti e pannocchie di mais bruciacchiate. I sobbalzi fra i crateri della strada la facevano gemere. Aveva tanta sete, le mancavano le fresche acque sotterranee. C’era un caldo torrido, era notte. Poi improvvise folate di sabbia e sale, pieni gli occhi e le narici. Faceva freddo ed era giorno, si moriva di sete.Quanto ai brontolii cavernosi, solo
“Dove andiamo?” chiedeva Serena alla vecchia contadina sdraiata di fronte. Questa mostrava le mani scorticate da una lebbra e con un filo di voce rispondeva: “Vanessia…”
Nella piana trovarono acqua, tanta acqua fangosa, sapevano che era contaminata, e tutti bevvero. Furono superati da centauri in motocross, sulle teste calve avevano tatuata una testa di morto. Sotto le macerie in uno scantinato Marco raccolse alcune scatole di tonno e due vasi di olive.
La strada ad una curva finiva nel mare. Salirono su una grande zattera che si diceva partisse per l’Africa, dove forse le bombe non erano scoppiate. Due giorni alla deriva nella laguna, e a sera il cielo divenne un dipinto antico, tinte vinose e ocra: la città di Vanessia non era mai parsa più incantevole, un merletto di palazzi smozzicati, cupole esplose come rose nere, ori grondanti, bianche volute di vapori immobili.
“Guarda, Serena!”  Gli occhi di lei erano gonfi, sulle labbra grosse pustole, ma sorrise.    
Sbarcarono infine. Sull’argine ardevano le cataste dei cadaveri, i quasi vivi attorno si scaldavano. I ponti erano crollati, ma l’acqua era bassa, si potevano attraversare i canali camminando sui tetti dei vaporetti affondati.
In una calle mentre cercavano rifugio per la notte furono assaliti da un energumeno dalla testa fasciata di plastica e fil di ferro. Marco gli tese un vaso di olive e al pianto di Serena l’uomo depose la spranga. Polifemo -quale si presentò- li condusse nel suo palazzo, rudere con affreschi del Tintoretto.
L’indomani Serena fu presa dalle doglie. Marco e Polifemo l’adagiarono in una poltrona Luigi qualcosa e la portarono sull’argine, sperando di trovare un aiuto per il parto. Polifemo dovette spezzare i polsi di un moribondo che s’era aggrappato alle caviglie di Serena. Serena partorì una creaturina quasi completa nella sua fragilità. Topi gonfi come palloni si batterono per la placenta.
Un pomeriggio il palazzo tremò. Spezzoni di muro piombarono nel salone degli affreschi, Marco trascinò Serena e la creatura sulla piazzetta. Tornò per svegliare Polifemo che dopo fortunate razzie era sprofondato in una sbornia solenne. Ma il palazzo implose in un polverone e grandine di mattoni.
A sera prese a nevicare, e fu un lenzuolo pietoso sopra il paesaggio.
Si rifugiarono in una chiesa. Nella navata un falò di panche, scarne voci intonavano una nenia davanti al presepe. Le pecorelle brucavano le margherite, i Magi inginocchiati con le guardie del corpo, il bue che mordeva l’orecchio all’asino. Maria e Giuseppe stavano chini, le braccia aperte sopra la culla vuota.
Si accovacciarono in una nicchia, come per prepararsi a un lungo sonno insieme. Marco le volle aggiustare una ciocca bionda sfuggita dal cappuccio, ma che gli rimase tra le dita. Sollevò la mano scarnificata, con la ciocca di cui non sapeva che fare, ed ebbe un moto di stizza.
“Ma tu… tu ci credi? Tu credi… che tutto questo sia vero?”
“Cosa, questo?”
“La guerra atomica, i cadaveri sugli argini, i topi-pallone, e… e…”
Avrebbe voluto aggiungere: “e il Proteus Anguinus”, l’indifeso gesù bambino senza occhi, dal respiro spento. Ma Serena ricoprì la sua bestiola carnicina, che le premeva con la zampetta palmata il seno vuoto.
“Cosa vuoi che ti dica… forse tutto questo non è vero…”





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