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Enrico Ricciardi 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Vive a Venezia
Studi Tecnici - Scuola Superiore di Giornalismo -
Direttore Artistico Ass.ne Culturale “Il Teatro alla Moda”
Regista Teatrale.
Appassionato bibliofilo si occupa di legatoria e restauro libri

ISOLE DELLA LAGUNA
POESIA
TERZO PREMIO
- Isole della Laguna -
  
Composizione originale anche grazie all’uso del linguaggio (dialetto e italiano standard).
L’autore è riuscito a creare atmosfere rarefatte che colpiscono nel profondo.
S. ERASMO


Dove l’aria del mar
Se misia a l’aria dela campagna,
Dove ‘na tera semenada a cape
Spua dei granzi che sa odor da fien,
Me so rebotà do piere rampegae in çielo,
Per rintanarme insieme co’l mio ben.
Da l’alto vedo Venezia
E tuto el mar intorno
E vedo in là, ancora più in là
...in fondo... in fondo....
Vedo drento l’anema dei omeni
E dala paura me ransigno
Come un caragol.
Mi resto su ‘sta tera semenada in mar.
Spero solo che i amiçi
Me vegnarà a trovar

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
LO SPECCHIO DI LEONARD





Leonard non era un turista qualsiasi. Veniva a Venezia per lo meno una volta all’anno e i suoi soggiorni duravano alcuni mesi.
Prendeva alloggio in un grazioso mezà di un palazzo le cui finestre a mezza luna  si affacciavano direttamente sul Canal Grande.  
La disponibilità di quell’appartamento era sempre sicura, poiché la proprietaria non lo affittava ad altri che a lui, per la semplice ragione che lo aveva preso in simpatia.
La conoscenza avvenne per una serie di quelle strane ed elaborate combinazioni che il destino mette insieme unendo, talvolta, persone che sono del tutto ignare le une alle altre e che si possono trovare anche dall’altra parte del mondo… ma conviene raccontare  fin dal principio come avvenne questo incontro.
La signora era nata a Vienna, ma aveva sposato, in giovane età,  un veneziano,  che non era nobile come si potrebbe presumere, ma discendeva da una ricca famiglia ebrea  di imprenditori che avevano fatto fortuna con alcune imprese mercantili agli inizi del ‘900.
Allora i palazzi si potevano trovare a buon mercato e la nuova classe dirigente aveva necessariamente bisogno di risiedere in qualche luogo prestigioso, sostituendo progressivamente la vecchia nobiltà decaduta.
La signora, anche lei di agiata famiglia, in quella sontuosa dimora si sentiva come una piccola principessa e, più che il lungo  portego del piano nobile,  amava ritirarsi in una piccola stanza sopra le cucine ed a cui si accedeva per una porta quasi segreta, poiché mimetizzata all’esterno come un’anta di un grande armadio.
La stanza, abbandonata e non utilizzata per molti decenni, era quella dove, un tempo, si facevano le rappresentazioni dei burattini.
Ogni palazzo è vero, aveva il suo teatrino, dove gli stessi proprietari non mancavano di esibirsi per intrattenere gli ospiti.
La stanza era rimasta pressoché intatta e conservava ancora il suo palchetto ed una serie straordinaria di marionette.   
Fu per lei una scoperta che la riempì di gioia, oltre ad occuparla intensamente nel rimettere tutto in ordine, facendole sentire meno doloroso il disagio di aver lasciato i genitori, i suoi amici e tutte le cose che, fino al momento del suo matrimonio, rappresentavano tutto il suo mondo.
Il teatrino dei burattini, poi,  la univa in qualche modo alle tradizioni della sua terra di origine.
I suoi figli passarono gran parte della loro infanzia in quello straordinario ed appartato paese dei balocchi e quando, successivamente, vennero dei nipotini, quella stanza continuò ad esser riempita delle risate del giovane pubblico e delle legnate di Arlecchino sulla testa di Fracanapa.
Il figlio maggiore della signora aveva sposato una giovane americana che rielaborò sulle scene del teatrino delle buffe storie che aveva letto quando era più giovane e che aveva amato, sia per l’originalità dei racconti, sia per  la fantasia dei disegni che li accompagnavano.
Lontana dal suo paese non sapeva più come procurarsi delle nuove storie. La casa editrice aveva cessato le pubblicazioni, ma le fornì il nome e l’indirizzo dell’autore.  Lei gli scrisse e lui rispose che proprio in quel periodo aveva deciso di fare un viaggio a Venezia e che volentieri le avrebbe portato qualche vecchio libro poiché lui non scriveva più.
Così Leonard ebbe occasione di conoscere, tramite la giovane nuora,   la vecchia signora proprietaria del “mezà” che poteva affittare ogni volta che veniva a Venezia.
La vecchia signora, poi, ultimamente era rimasta sola nel grande palazzo poiché suo figlio e tutta la famiglia si era trasferito altrove per motivi di lavoro.     
Leonard era essenzialmente un pittore, ma a Venezia non dipingeva. Prendeva soltanto qualche appunto su un blocchetto che, alla fine, risultava composito di brevi frasi, qualche schizzo, qualche pensiero vagante che talvolta, quando dopo tanto tempo lo rileggeva,  non riusciva a collocarlo nel giusto contesto in cui si era  formato.
Girava la città senza un progetto o una meta prestabilita, abbandonandovisi o facendosi attrarre  da  un   moto irrazionale in cui i percorsi labirintici delle  calli costituivano sempre delle variabili continue  e sempre mutevoli.
Il non pensare a dirigere i suoi piedi, gli permetteva di pensare maggiormente a ciò che vedeva, o meglio, a incamerare passivamente tutta la varietà di sensazioni che l’immagine della città gli offriva di volta in volta.
Si concedeva di rado delle soste, generalmente sui gradini di qualche riva, ed anche queste,  nella passività della contemplazione, non mancavano di riservargli delle gradite sorprese, come quella volta che,  a poco a poco, forse a causa della luce, dei riflessi dell’acqua nel momento dell’imbrunire o  la momentanea assenza del traffico abituale,   la memoria  non lo richiamò alla piacevole realtà che, quella visione  che gli stava  davanti era la stessa …identica… che Monet quasi centocinquant’anni prima aveva fissato su un suo celebre dipinto del Canal Grande.
Per una fortuita coincidenza egli era venuto a sedersi sullo stesso posto in cui, certamente, aveva sostato il grande artista francese con il suo cavalletto e i suoi colori.  Almeno così si immaginò per qualche istante, mentre era inevitabile che una gioia profonda metteva a soqquadro tutta la sua emotività.  
Leonard non saprebbe ripetere quanto tempo rimase seduto estasiato in quel posto. Si rese conto però, man mano che la sua eccitazione si affievoliva, che, forse, anche quello che contemplava  in quell’istante, era ugualmente un gioco di memoria del pittore  che si sarebbe materializzato  successivamente nel suo studio, magari con l’ausilio di una fotografia.
Sbollita l’euforia della scoperta Leonard estrasse il suoi blocchetto e vi annotò la seguente frase: “Itinerari vedutisti”.
Nelle sue intenzioni sarebbe stato un programma per la sua prossima visita veneziana in cui avrebbe scelto, preventivamente e con cura  meticolosa,  una serie di vedute veneziane cercando, successivamente,   di trovare il luogo  esatto da cui l’artista avrebbe osservato le immagini da lui  dipinte.  Ciò lo avrebbe condotto ad una scoperta di Venezia completamente alternativa a quella delle sue quotidiane passeggiate.
La sua ricerca non lo avrebbe portato a cercare solamente rive, strade, angoli, calli e quant’altro, ma anche, e ciò sarebbe stata la parte più esaltante dell’iniziativa,  balconi, davanzali, terrazze e  altane.
La sua immaginazione galoppava febbrilmente. Già si immaginava di bussare a porte, suonare campanelli, contattare gente, fissare appuntamenti…insomma…entrare più nel vivo della vita cittadina e dei suoi abitanti. Magari, chissà! una volta individuato il posto, ritrovare una traccia, una pennellata, una macchia di colore che il tempo non ha cancellato, un ricordo tramandato di generazione in generazione… Un’avventura di tipo archeologico che lo avrebbe ravvicinato, annullando la dimensione del tempo, al  secolo  o addirittura all’anno del dipinto.
Leonard era al colmo dell’eccitazione. Il suo nuovo viaggio a Venezia sarebbe stato  preparato, questa volta, in maniera meno causale e più scientifica,  attraverso una esaltante ricerca tra tutti i libri d’arte della sua  collezione veneziana che era assai ricca e fornita.
Leonard, come ogni buon foresto,  certamente non metteva in conto la profondità dell’ anima veneziana e  che a molte delle sue suonate di campanello una voce avrebbe risposto nella maggior parte dei casi:
Chi xe?
Leonard!
Chiii?
Leonard!… lunga pausa…
E cossa volo?
Sto facendo una ricerca dei luoghi da cui i grandi vedutisti del passato hanno eseguito le loro opere…
Lunghissima pausa… Voci interne… Bisbiglio…
Senti ti che mi no capisso… Altra voce più giovanile.
Chi è?
Leonard!
E cosa vuole?
Sto facendo una ricerca dei luoghi da cui i grandi vedutisti del passato hanno eseguito le loro opere… certamente Canaletto si deve essere appostato su uno dei suoi balconi…
No! No! Non è qui! Arrivederci!  Voci dal di dentro a spegnersi… Gera uno che çercava l’Hotel Cavaletto…
Le tante altre alternative, dalla badante filippina a quelli che lo avrebbero mandato… a cagare… avrebbero ben presto frustrato la sua ricerca e a nulla sarebbero valse quelle rare risposte: “…el vegna pur de sora…”  a salvare un’avventura in cui aveva riposto grandi speranze ed entusiasmo.
Al rientro a casa ne parlò a lungo con il suo pappagallo…sì, perché Leonard, ogni volta che veniva a Venezia si portava il suo pappagallo che si appostava in una gabbia posta accanto alla finestra centrale del mezà. .
Il fatto che l’appartamento non veniva affittato se non a Leonard, questo gli permetteva il grande vantaggio di lasciare la gabbia lì, senza portarsela appresso ogni volta.
Tuttavia, mentre l’idea dei “vedutisti” era il grande progetto, sempre più montante, per l’anno successivo, ogni mattina Leonard continuava ad affrontare il suo girovagare come una lotteria,  da cui sarebbe sortito sempre  un nuovo premio, sconosciuto, inatteso, sapendo che la città gli avrebbe riservato, e non per caso, delle piacevoli sorprese.
Occorre dire che se il soggiorno veneziano era il momento dell’abbandono ad un dolce “far niente” il resto dell’anno il suo raziocinante pragmatismo tipicamente americano, era propedeutico alla preparazione della sua discesa in laguna.
Ogni venuta, dopo tante esperienze, aveva una traccia, seppur labile, da seguire.
Questo era l’anno dei riflessi.  Non solo quelli che frantumano nell’acqua dei canali le immagini sovrastanti, ma quelli inaspettati che si rifrangono da un vetro di finestra, da una porta chiusa a metà, da una vetrina di negozio, da uno sportello di vaporetto, dall’occhiale di un interlocutore,  ed altre mille  combinazioni che moltiplicano e  raddoppiano una stessa visione in una miriade di  strane prospettive, angolazioni e rifrangenze, con alla base una visione essenzialmente caleidoscopica della città.
In questo caso Leonard girava non soltanto con il suo blocchetto di schizzi ed appunti, ma anche con una vecchia ed anacronistica macchina fotografica a soffietto.
A raccontarla ad un veneziano, che ormai ha visto e sentito di tutto, gli avrebbe fatto esclamare: “Se no i xe mati, no li volemo!” Senza sapere, magari, l’origine della citazione.
Un giorno Leonard si fermò incuriosito dinnanzi ad un negozio che stava alla fine di un ampio campo verso il lato del canale e proprio ai piedi del ponticello che lo attraversava.
Era un negozio di un artigiano intagliatore di cornici che  aveva due belle vetrine ai lati della porta d’entrata,   dove egli esponeva i suoi lavori assieme a qualche oggetto più corrente ed economico maggiormente alla portata della clientela turistica di passaggio grazie alla vicinanza di un museo e, soprattutto, di  un’antica e tipica osteria veneziana, frequentata un tempo dai gondolieri  di un vicino stazio. L’osteria nel frattempo è diventata  un ristorante assai rinomato,  per via che vi hanno girato  alcune scene di un film di successo, con le abituali conseguenze di far decadere la qualità del servizio, aumentare i prezzi ed allontanare la clientela locale.
L’interno del negozio, a differenza dell’accuratezza elegante delle vetrine, conservava fortunatamente la caratteristica tipica del laboratorio di un artigiano di lunga data, vale a dire: “Com’era e dov’era”  tramandato di padre in figlio,  con tutta la raccolta di vecchi attrezzi quali sgubbie, scalpelli, pialle, ecc., il vecchio tavolo da falegname con la morsa dalla grande vite, l’odore caratteristico del legno  misto a quello della colla cosiddetta di coniglio, che straripava ormai indurita dall’immancabile barattolo di latta.
Alle pareti cornici ammucchiate ad altrettante sagome, velate da qualche ragnatela resa più visibile da un greve deposito di segatura.
Sul tavolo, in corso d’opera, una doratura, più in là, l’abbozzo di un moretto reggicandelabro sul suo piedestallo.
Tutto questo Leonard lo sbirciò dal di fuori, poiché egli era attratto principalmente da un grande specchio parabolico, racchiuso in  una cornice dorata,  che era appeso all’ingresso della porta del negozio.
Guardando in questo specchio Leonard aveva una visione in maniera ampliata e nello stesso tempo deformata di tutto quanto vi era alle sue spalle, animato e variato continuamente dal passaggio della gente che assumeva varie e strane sembianze a seconda della distanza che essa aveva, in quel momento, rispetto allo specchio.
Le opere pittoriche di Leonard avevano una tendenza “espressionista”, tanto per riassumerle in una catalogazione generica e, quindi, quelle immagini che egli osservava erano particolarmente congeniali alla sua sensibilità artistica e suscettibili di fecondi momenti di ispirazione.
L’occasionale scoperta lo riportò alla dimensione giocosa di quando scriveva e disegnava le storie per bambini, aiutato questa volta dallo specchio che lo sollevava notevolmente dal solo sforzo elaborativo della propria fantasia.
Davanti a quella visione ulteriormente alterata della realtà veneziana, Leonard vi passò qualche ora, non solo quel giorno, ma anche nei giorni successivi, estasiato e felice, stralunato e sereno, eccitato e sorridente come non mai.
Il suo pappagallo non dette molta importanza al racconto che Leonard gli fece della sua scoperta, ma mise in apprensione non poco il proprietario del negozio che, senza capirne il perché, vedeva ogni giorno sempre la stessa faccia e persona sostare immobile davanti alla sua porta.
Leonard era sul suolo pubblico, non faceva niente di male e nulla avrebbe potuto giustificare la chiamata dei vigili o una segnalazione ai carabinieri.
Vi immaginate la risposta del centralinista del corpo di polizia che riceve la richiesta da parte di un commerciante di venire subito perché c’è uno che ogni giorno guarda estasiato il suo negozio?
Certo era che quella costante presenza lo metteva in una certa agitazione e il nervosismo, che subito si impadroniva di lui, gli impediva di svolgere il suo lavoro con attenzione e serenità.
Anche quando entrava qualche cliente il corniciaio non riusciva a seguirlo con la dovuta attenzione poiché il suo sguardo si spostava a guardare fuori Leonard, sempre immobile, paventando e presagendo, prima o poi da parte di quest’ultimo, uno scatto improvviso, un gesto inconsulto, un urlo straziante o quant’altro che lo avrebbe spaventato da morire, insomma: un tiro da matto!
L’artigiano corniciaio non mancò di confidarsi con qualche amico e di chiedere anche un po’ in giro se qualcuno conosceva quello strano personaggio che veniva ogni giorno a sostare davanti alle sue vetrine, ne’ del resto passò inosservata la strana e quotidiana presenza di Leonard a quelli che frequentavano abitualmente il campo.
La cosa si divulgò ben presto e dopo qualche tempo, appena Leonard compariva davanti allo specchio, si formava immediatamente alle sue spalle un capannello di gente che, inconsapevolmente, animava ancor più le immagini che egli  vedeva riflesse,  le quali, a loro volta, lo sollecitavano via via sempre di  più a prolungare la sua sosta.
La cosa divenne anche un po’ contagiosa, in quanto i curiosi delle prime file, quelli più vicini a Leonard, talvolta venivano anch’essi presi dal gioco variopinto delle immagini che vedevano nello specchio e ne restavano affascinati, raccontando le loro impressioni ai più vicini che le trasmettevano ai più lontani a cui arrivavano, nel progressivo passaparola, ancor più deformate da come già apparivano nello specchio al momento di partenza.
Quando la notizia apparve come curiosità nella cronaca del giornale cittadino la cosa assunse proporzioni inquietanti.
La folla tendeva progressivamente ad occupare l’intera area del campo.
L’artigiano corniciaio che ora si trovava a fronteggiare gli sguardi non soltanto di una singola persona come all’inizio, ma, adesso, di una moltitudine informe e anonima, cominciava veramente ad avere problemi di tipo esistenziale.
Il suo appetito ne risentiva, alla notte non dormiva più perseguitato dall’incubo di cosa sarebbe successo all’indomani, il suo lavoro languiva per mancanza assoluta di concentrazione, la clientela era quasi totalmente scomparsa, sia perché non riusciva ad entrare nel negozio, sia perché rimaneva fuori incuriosita da questo strano fenomeno collettivo.
Aveva cercato, purtroppo senza successo, di distogliere Leonard da quella immobilità, avvicinandosi di tanto in tanto all’uscio del suo negozio, supplicandolo con lo sguardo di rivolgergli una parola, cercando di ispirargli la sua affettuosa comprensione a quel suo rapimento estatico.
La cosa cominciò a degenerare quando qualcuno, scientificamente ad arte o del tutto in maniera sconsiderata, mise in giro la voce che Leonard in quello specchio vedeva la Madonna o, più laicamente, la fine dei restauri della Chiesa di S. Marco.
Fu quando la situazione divenne  un reale e preoccupante  problema  di ordine pubblico, tanto  che la  Municipalità fu costretta a mettere delle transenne per consentire una qualche viabilità del campo e fu quando  l’ingorgo delle barche degli impianti televisivi divenne tale da impedire per alcuni giorni consecutivi lo svolgimento dei necessari servizi cittadini come l’asporto dei rifiuti, il passaggio delle autoambulanze, delle lance dei pompieri e delle gondole con la serenata, che Leonard, infastidito da tanto brusio si volse indietro e molestato da tanta confusione decise di entrare nel negozio.
L’artigiano corniciaio in preda al terrore prese in mano uno scalpello affilato ed indietreggiò di qualche passo finché non fu bloccato alle spalle da un intaglio ligneo ben appuntito che gli entrò, senza che lui sentisse il minimo dolore, nel fondo schiena.
La folla all’esterno ammutolì di colpo. I primi che conquistarono la porta tesero sguardi ed orecchi per avere la primizia di quanto sarebbe successo o fosse stato detto tra Leonard e il proprietario del negozio.
In un silenzio surreale Leonard chiese quanto costasse lo specchio perché voleva acquistarlo.
L’artigiano corniciaio si sentì mancare e piegò per qualche istante le ginocchia. Cercò di profferire qualche parola, ma i suoi polmoni non avevano fiato sufficiente per far vibrare la benché minima corda vocale. Tra il grande stupore di Leonard egli ansimò più volte e poi proruppe in un pianto dirotto.
Tra il sommesso ed irrefrenabile moto sussultorio dei singhiozzi risuonò: “El vol solo comprar el specio!”
L’unisono del mormorio che si levò compatto dalla folla retrostante materializzò in un attimo il concetto tutto teorico della delusione collettiva.
Il campo si svuotò in un attimo e la vita cittadina riprese dal punto in cui Leonard si fermò per la prima volta davanti a quello specchio.
Frattanto l’artigiano corniciaio si era ripreso, confortato da qualche amico intimo che era entrato per infondergli coraggio e dirgli che il peggio era passato.
Riprese le sue funzioni abituali di cortese venditore e dopo che Leonard  annuì senza batter ciglio sul prezzo proposto gli disse, con una voce che non era ancora la sua abituale: “Le faccio subito un bel pacchetto!”.
“No”! Disse Leonard “Lo tenga lei!”
“Ripassa a prenderlo un altro momento?” chiese l’artigiano corniciaio.
“No!No! Lo tenga lei!”
Il povero artigiano corniciaio si sentì di nuovo mancare. Troppo bella gli era parsa una soluzione così semplice. E non per la eventuale mancata vendita dello specchio, ma perché paventava che un’altra anomala e chissà quanto drammatica situazione si sarebbe creata d’ora in avanti.
Leonard ebbe la immediata presenza di spirito di trarre d’imbarazzo il suo interlocutore  dicendogli, pacatamente e in maniera molto chiara, che lui lo specchio lo voleva acquistare e pagare purché  lui lo continuasse a tenere appeso fuori sulla porta del suo negozio.  Quello stesso specchio a casa sua, a Venezia o in America, non gli avrebbe dato le stesse emozioni che aveva provato fino ad ora guardandogli dentro e che voleva continuare a provare ogni qualvolta sarebbe ritornato a Venezia.
Ciò avrebbe costituito un legame ancora più intenso verso Venezia e che lo avrebbe  fatto sentire ancora parte della  città nei momenti in cui lui sarebbe stato lontano.
Voleva immaginare che, mentre lui si sarebbe trovato lontano  in qualsiasi altro posto, lo specchio… il suo specchio… avrebbe continuato a riflettere delle immagini straordinarie.
Il fondo levantino del corniciaio prevalse sulla volontà e la capacità di capire completamente la profondità dei desideri di Leonard ed affrontò più serenamente la sintesi conclusiva che gli permise di vendere lo specchio ed incassare in contanti il corrispettivo dopo un periodo di magri affari.
Il trambusto emotivo dei giorni passati giustificò la sua dimenticanza di battere lo scontrino di cassa.
Lonard partì da Venezia felice di quella esperienza.
Ogni volta che vi fece ritorno andò ad ammirare il suo specchio.
L’artigiano-corniciaio lo salutava con cortesia e, ora, senza soverchie preoccupazioni.
Leonard si sentiva fiero ed orgoglioso di avere, come qualsiasi altro visitatore da un millennio a questa parte, la sua particolare ed esclusiva visione di Venezia.
Non immaginava lontanamente che durante le sue assenze, l’artigiano corniciaio, gli aveva venduto lo specchio più e più volte, sostituendolo immediatamente con un altro, uguale,  in tutto e per tutto, al precedente.

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