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Lucia Ferro 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nata a Murano (Venezia), nel 1955. Ha sempre abitato nella zona lagunare, ora è da 37 anni a Cavallino-Treporti, che ama di tutto cuore.
È cofondatrice del gruppo “Parola di Donna”, dove tuttora è impegnata.
Nel 2011 ha dato alle stampe insieme al pittore Luigi Piva “Il Gelso di Ninn”, racconto poetico ispirato da un albero particolare, un Gelso bianco che vive davanti al Forte Vecchio.
È affascinata dall’intimità che può avvenire fra immagine e parola.
Ancora di più è affascinata dall’intimità che si può creare fra umani e altre creature; crede che la vita sia maestra, e che sia bello attendere l’ispirazione e confidare in essa.

Autrice già presente edizioni:
2019
LEGGERE LAGUNE
POESIE
LE RADICI PERFETTE



*

    Come in tanti altri momenti sovrappensiero,  

tranquilla Lia si fermò,  
di spalle alla porta scosse via dall’ombrello la pioggia,
lo chiuse,
ed entrò in quel nuovo negozio. Immediato lo sguardo si rapprese su un punto.
Era un uomo – forse il padrone?
o uno che faceva il commesso per sbaglio? –  
Con perfetta chiarezza Lia si avvide
che non riusciva a guardarlo, né, men che meno,
ad evitare di farlo.
L’espressione di lui era ferma, forse implacabile.  
Il suo corpo appariva un fiume di miele.

Lia si prese del tempo,
si riscosse, si mosse, si girò verso
la mostra all’interno, soppesò degli oggetti,
di spalle, con l’uomo distante.
La stanza era satura di presenza di lui.

Lia poi disse quel che era opportuno,
comprò ciò che doveva,

e non c’era nessuna scusa o ragione
per lasciargli uno scritto,
una poesia.
Lo fece.
Una poesia di danza, di scintille anche di mare.
Amami,   disse la poesia,
e lui aveva un cuore grandissimo,
così come il piede, il femore, l’occhio
e la poesia nella tasca seppe
trovare il suo posto.

Erano parole mosse,
monetine cucite in file alternate
disposte con arte perché suonassero insieme,
parole d’acqua - di Bosforo.
Cresceva uno sfondo
di rosso infuocato. Tramonto.

*
    Ad un corso di danza
    del Medio Oriente

in delizia allieve e maestre  
nastri da fronte, cavigliere, cinture,
cimbanini squillanti
sciorinavano insieme.

Lia piano, un poco discosta,
nascondeva l’abituale disagio
nel gestire indumenti;
poi si distrasse,

le mani d’un tratto son dita di ragno veloci
ritrovano un gesto scolpito nel tempo,
sul bordo scorrendo
la cintura nata in Turchia:
ricadono i ciondoli,
ognuno al suo posto.
Il rumore è simile a pioggia.
La testa di lei si svuotò dalle nubi,
tutta la pioggia si radunò nei suoi occhi -
Dov’erano stati i suoi gesti perduti? -

~ Rigàgnolo inciso -  di emerso ricordo
si fa strada – in lentezza  – verso l’interno. ~

*

    Si conobbero un poco.

Fianco a fianco nella tasca bruciava
quella poesia donata per l’acqua ed il sale, sempre più intrisa
di un altro sudore. Attesa di tempi e di notti, poi Lia permise
ai suoi fianchi di scorrere
liberi, li lasciò
tintinnare
pendagli-parole
senza lingue divise.

*

    Tumulto di sogni in quei giorni,

portatori di esatti ricordi, di
passi e danze fra loro d’amore.
In una terra di profumi diversi,
Lui era il suo Sposo, Lei la sua Sposa,

da un tempo lungo come un dolore
    finalmente esaudito.  

*

    Tempo

di stelle. Si cuciono insieme passato e presente.

Nei giorni, nei sogni.

*

Lui danzava in ampio vestito, brandiva
una lama ricurva.
Un fuoco grande, vicino lo riempiva di ombre.

*

Lei si scioglieva salendo le scale,
mite, saliva al suo sguardo,
saliva per lui a capo chino,
ma con occhi lucenti a cercarlo, - in alto rivolti.
*

    È fresco

sulla sommità di Lia:
le ossa del cranio si sono allargate,
i contenuti, i ricordi si van sparpagliando

respirano
infine, ritrovano forma.

Un’intelligenza con passo di sereno padrone
li prende, compone.
Si fa ordine chiaro.
Nello spazio, nel vuoto riapparso
gira freschezza, lieve
odor di lavanda,
soffio
che attraversa più volte,
in più sensi
ogni trama degli abiti.

Lavanda, limone.
Gelsomino, sale marino.

*

    Una sera in un luogo comune
due occhi tagliarono l’aria con luce gialla:
L’altra lei fu sfrontata a piazzarsi davanti, e dirgli che lo ricordava,
spergiurò che era stato il suo sposo,

Certo, la notte stessa l’aveva sognato,
stessa cintura, e quello sguardo
nero lucente. Lui era suo, lei era di Lui.

Vetro colpito da duro proiettile la mente di Lia,
ragnatela spessa, bianca, disegno
da non riuscire a scrutare.

*

    Lia non perse il ricordo,

A tratti ancora ballava
come quando in tempi diversi
più prossime-alte eran le stelle.
Lia ballava per loro
in un profumo che non era di terra;
vibrava le mani levigate d’amore.
allora, quando radici perfette le legavano il cuore.

A tratti sapeva ascoltare la vita  
dentro ai suoi piedi colmi di danza,
per poi tremare piangere nell’incomprensibile sfarsi.

*

In un altro tempo
Lui era stato ussaro – era nero il cavallo -
quella volta fu Clelia
a rivendicarlo
con occhi verde freddo
capelli corvini,
le aveva - lui - ferito l’aria
montando la cavalcatura,
lei per guarire aveva dovuto
farsi cercare
in profondità
il punto della gioia.

Lui abbondava in medicina,
e l’aveva ingravidata più volte.
Ricordava - Clelia - le lunghe sere del dopo,
- e la ferita reclamava la cura -
alla finestra, e le pianure, ostinate, restavano
intatte di neve.

*
*
    Di fronte, il cielo era di fuoco,

e sopra per Lia era una cupola chiusa,
un buio coperchio.

L’intenso rosa finiva quasi di colpo,
l’esile luna vi stava appena al di sopra.

- Sono sola già,
ancor prima di salutarti -
pensò Lia, a pochi passi da lui -
- eppure com’è ancora vivo! il ricordo,
quell’antica bellezza d’esserti
mano,
o
piede,
o    capezzolo,      o
_cuore_

Ancora vivo,
mentre
cammini distinti di separazione
in singoli versi
ognuno ci avvolgono.

Divergiamo
in quell’ombra,
in silenzio.

*

    - A che vale, a che serve

che ti abbia trovato?   
Onde miste le spostavano gli organi in corpo,
li divergeva.

Turbata, Lia aspettava che avanzasse la notte, sognava.

*

Partorire il figlio a lui era impensabile,
terrore
che non fosse maschio,
e la somiglianza? sarebbe bastata? e
- mentre lei partoriva, mentre allattava,
mentre attendeva l’ora del parto,
chi avrebbe goduto nei fianchi il suo dolce bastone
di madreperla?

Seppellisce l’aborto da sola, dopo che se ne va la mammana,
scendono lacrime,
lunghi e mossi capelli sfiorano
come fronde di salice
la terra viva.

*

Oh, se non poteva essergli a pari,
allora l’avrebbe comprato:

con sapienza, con sottomissione.

Dunque ora lei cammina con occhi lucenti
in ricchezza
in riconoscenza.
Tiene l’amore
fra i denti,
e non lo stringe
- trionfante -.

Ha spinto a fondo il suo gioco
di Sottomissione,
voleva essergli tutto, la più amata fra tutte,
e cammina ora a passi perfettamente costanti. Vicinissimo è
il Fuoco. Già la lambisce il calore.

Cammina. A passi costanti.
Al di là di quel fuoco in cui entra
la fissano gli occhi di lui
(lei dentro sé contempla i ricordi d’amore).

Al di là di quel fuoco la bocca di lui si scompone in un urlo.
Si scompone il corpo nella disperazione - nei gesti.
No, no, non l’aveva voluto, non lui, no, non era stato!
Non fa in tempo a fermarla.

*

    Lia si svegliò con lunghe urla,

era davvero successo?
si mise seduta, era sua propria colpa, certo, sua colpa,
non avrebbe dovuto
avvinghiarlo così dentro a quel gioco.

*

    Non era lui.
No, non l’era mai stato. Sì, lo era!
ma non in radice,
non dall’inizio, non
all’inizio
di sé.
*

Dormiveglia. -  Chi ero,
nel Bosforo ero,
luccichii indistinti mi appaiono ancora,
- sono monetine appese a fianchi di altre? -
perché mormorano senza squillare?

luccichii come lacrime,
pezzi di sole su un’acqua
troppo grande per poterla-doverla domare,
le cime di monti, sì, loro continuano ad ergersi,
una barca d’uomo, altre di gente animali di terra pellegrina
flottano, aspettano
io sopra volo,
io non dòmo, io volo
in una spinta forte e leggere,
io sono la barca? io sono con loro.

*

    Gioia a percorrere la rotta nota,

freccia acuta d’amore nel cielo,
Gioia grande al presagio, all’attesa, alla Vista del Bosforo,
sìnfisi dolce! unione,
posta a confondersi con ciò che contiene,
segno che sussurra di casa,
presso lei sono nata, presso lei io bevevo
latte di gozzo di mio padre e mia madre,
rosa, rosso! il colore dei voli fratelli al di sopra di me!

Altissimo vento, altissimo sguardo, solida aria sotto le ali che spingono, pace.

Il mio Stormo è la casa. Gioia di essere Stormo.
Rumori, d’ali mie-non mie
suono sfondo meraviglia che noi, noi!
squarciamo gridando.
Arriviamo!, Arrivano i giorni che si danno all’amore,
lì il Tutto-Insieme di Noi grida e danza,
preludio splendore che apre all’unione
con la compagna, il compagno.
Lì esulta l’Insieme di Noi, Noi con grida stridenti, Noi,
con strida selvagge!

Stiamo arrivando!  Spazio stretto fra noi,
confusione apparente, spazio di ognuno, ad ognuno, ricreato di nuovo, amorevole e giusto ad ogni atterraggio.

*

    Lia si svegliò e alzò di colpo,

la testa al suo interno era limpida e tersa,
Il vento era intorno.

*

    Da quel giorno Lia non sognò.

Non le bastava quel ricordo di volo.
In lei c’è febbre, c’è desiderio:
conoscere sapere chi era ancor prima,
ancor prima.

Chi era, e com’era
il suo amore, ancor prima.

…Allontanarsi di radici,
non riuscire a riconoscerne il filo,
niente più era vero
lo spazio era fondo - sconfinava nel nero -.
Cambiava, Rimaneva  
la febbre di vivere amore
che lieve potesse volare
con pace di solida aria sotto le ali.

*

    Al mattino,
piangente di non aver sognato,
Lia si vestiva, usciva, e camminava.
Staccò dagli impegni, che pur sempre aveva onorato.
A lungo ripeteva il cammino. Pause davanti a qualcosa. Sguardo.
Cammino. A testa bassa. Cammino.

*

    Il giardino respirava l’aria di giugno, distesa.

Lia aspettava il turno dal suo ortolano,
girava nei pressi dell’orto, verso il giardino.
Fu tutto a un tratto che si vide davanti
quel piccolo albero. Lo focalizzò.
Di fatto i tronchi erano tre, stretti, uniti; uno era potato
pesantemente.
Tre tronchi, due cortecce diverse, una
con disegno leggero continuo ad anelli,
gli altri a crepe più incise, verticali, rossastre.
L’incontro da dove si sfioccavano i rami
sembrava un cuore - intreccio di tutto - si vedeva l’aorta, e la grande vena,
e altri canali.
Proprio da lì,
si aprivano anche verdi rametti leggeri: portavano foglie diverse, frammiste.
    In un tipo, nervature nette ripetevano il tondo del bordo.
    nell’altro, più chiaro, le nervature eran fatte a raggiera, la forma era stretta.

Strinse gli occhi a fessura Lia, le venne improvvisa la voglia
di trovare quel punto-frontiera
dove finiva un’essenza e l’altra iniziava.  
Guidò l’attenzione tratto per tratto,
percorse i rami più volte,  
inafferrabile
sempre sfuggiva o riappariva qualcosa. Riprese.
Si arrese.

Guardava.

Domande salivano
e si disperdevano, riguardo a radici, linfa, e ancora,
quali i canali, e anastòmosi, e cos’era intero e cos’era diviso.

Non sa spiegarsi
quale antico desiderio d’amore, e perché il suo bussare.

~ Si guarda le mani come fossero quelle dell’albero.
Le viene in baleno un’immagine-gioco, rincorse fra adulti e bambini,
forme a crearsi in continuo
e poi sciogliersi via, fino a che il gioco non scende a una pausa.

Ora è bianco il tumulto di Lia, e trabocca.
Lei chiede a ciò che ha davanti
di pronunciare un suono, di offrire una traccia
alla sua febbre d’urgenza,
alla febbre di unione.
Un ponte,
un passo le basta.
Ardente.

Percepisce, le si scrive dentro la frase:
“Non troppo dividerti
in due”.
Lia resta smarrita. Non conosce.
Non sa perché piange.

…Cos’era intero, e Cos’era diviso.

Non sa cosa si scioglie. Sorride. ~




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