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Michele Zanetti 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
ORTI DEI DOGI
ROMANZI
PRIMO PREMIO
ORTI DEI DOGI
-Romanzi-
  
La storia della giovane Elsa, bambina, adolescente e giovane donna, attraversa le vicende drammatiche del primo '900, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, con i suoi reduci, il ricordo delle vittime, delle trincee per chi c'era stato, in pieno ventennio fascista, nel dramma della povertà delle terre contadine della Bassa Ferrarese.
Si avverte già dai primi paragrafi con quella neve che si abbatte fredda sulle piantade padane.
Ritroviamo la fatica di uomini e donne, i gesti familiari, le tradizioni, le ripercussioni della grande storia nella semplicità della vita di Elsa che sembra a tratti consapevole di questo suo ruolo di non protagonista.
Seguiamo il lavoro negli appezzamenti, le atmosfere stanche della campagna, le vicende belliche e la dittatura fascista attraverso i dialoghi, le descrizioni e i toni, volutamente asciutti, di questo bel romanzo.
Perito meccanico diplomatosi al Pacinotti di Mestre.
Ha dedicato le proprie risorse intellettuali alla divulgazione delle Scienze Naturali.
E’ autore di numerose pubblicazioni
Autore già presente edizioni:
2021
2020
Il romanzo narra la vicenda di vita di Elsa, figlia del “secolo breve”, secondo l’appropriata e affascinante definizione di E. Hobsbawm.
Narra, in particolare, la sua “prima vita” e dunque la sua infanzia e la sua adolescenza, fino agli anni della giovinezza e si concluderà con il matrimonio che darà inizio alla seconda fase della sua esistenza. Al tempo stesso, la storia traccia il ritratto di una comunità di contadini e di braccianti, legati alla terra avara della Bassa Ferrarese.
Anni difficili, vissuti dalla protagonista – al secolo, madre dell’autore - in una realtà socio-economica di estrema povertà e nell’ambiente politico soffocante e greve di un Fascismo vincente.
Il contesto umano e d’ambiente è, come s’è detto, quello relativo alle campagne della Bassa Ferrarese, con le grandi case contadine ospiti ciascuna una famiglia patriarcale e collocate a presidiare un podere, negli spazi segnati dal reticolo dei filari di viti maritate agli olmi. Gente ruvida, custode di una cultura contadina arcaica, che assegnava alle donne il dovere di fare figli, negando loro anche il diritto di sedere a tavola con gli uomini.
La scansione temporale è quella che, dagli anni della Prima Guerra Mondiale, giunge fino alla Liberazione. Una fase temporale in cui la vita della bambina, dell’adolescente e della giovane donna, si svolge tra drammatiche perdite affettive, condizioni severe di povertà e molteplici incontri, di cui uno darà vita alla relazione sentimentale della sua esistenza.
Anni oscuri, che diverranno tragedia collettiva con lo scoppio della seconda guerra mondiale e poi con l’otto settembre del Quarantatre e l’invasione tedesca.
Anni di sconosciuti eroismi di paese, che la storia ufficiale non ha mai raccontato. Anni di resistenza, costellati da episodi talvolta temerari, ma vissuti anche con leggerezza e costellati di accadimenti improbabili nella loro comicità.
Ne emerge il ritratto di una vita semplice e al tempo stesso eroica, ma in cui l’eroismo non è quello delle grandi gesta, bensì di un quotidiano che impone di affrontare situazioni che implicano una forza d’animo e una rettitudine morale che divengono appunto eroismo.
I personaggi che transitano sul palcoscenico della vita di Elsa sono numerosi e talvolta improbabili fino ad apparire autentiche caricature; e tuttavia realmente esistiti. C’è il padre, perduto precocemente, amato e mai dimenticato; c’è la madre, Michelina, ci sono i fratelli, ma accanto a questi agisce una galassia di figure popolari, non di rado caratterizzate da tratti comici o grotteschi. Poi ci sono i lavori del tempo: dalla risaia delle mondine alla prima fabbrica; anch’essi accompagnati da figure di compagni o di caporali, degni di quel Neorealismo cinematografico italiano che ad essi s’è ispirato.
E c’è infine il riconoscente affetto del narratore, dello scrittore che ha voluto rendere omaggio a questa figura di donna, con l’atto d’amore rappresentato da un romanzo.

LA PRIMA VITA DI ELSA

1. Il giorno in cui Elsa nacque

Nevicava fitto. Nevicava come accadeva, di solito a fine gennaio, dopo alcuni giorni di freddo intenso e di cielo coperto. Quando la sferza del vento teso sulla campagna si attenuava e la temperatura pareva risollevarsi un poco, la neve cominciava a danzare nell’aria, silenziosamente: così accadeva da sempre e così era accaduto anche quel giorno, quel trenta gennaio del Novecentoventitré, primo anno dell’Era Fascista, come l’avrebbe poi ribattezzato qualcuno. E dopo appena qualche ora, sul suolo ghiacciato, sui solchi lasciati dai carri nel fango di qualche giorno prima e cristallizzati dal gelo delle notti, la neve aveva preso ad accumularsi, lentamente, inesorabilmente, mutando ancora un volta il paesaggio dimesso di una campagna alberata antica. Una campagna segnata dalle geometrie dell’uomo, dalle “piantade padane”, con i filari di viti maritate agli olmi allineati lungo il solco delle scoline e dei fossi. Ed era subito inverno profondo, quiescenza d’ogni creatura e interruzione d’ogni lavoro all’aperto. Bestie selvatiche e contadini entravano in una sorta di fase letargica. Le prime rintanate negli anfratti dei tronchi d’albero, nelle tane profonde tra le radici degli stessi alberi, sotto le tegole e presso i camini fumanti, nelle tane scavate nei pagliai o sui cumuli di fieno dei fienili. I secondi rintanati nelle grandi cucine, in cui i ceppi ardevano nel camino dall’alba a notte e dove i profumi delle minestre, degli intingoli, delle salse e degli arrosti, quando c’erano, si mescolavano a creare una sorta di atmosfera olfattiva che esprimeva il calore domestico e l’identità stessa della grande famiglia ospite della casa contadina. Una sorta di impronta olfattiva propriamente identitaria, che come tale, cambiava intensità e sfumature in ciascuna casa di fittuali o di mezzadri.
Qui, nei lunghi inverni, che cominciavano come da calendario a metà dicembre, i nonni incontravano i nipoti, da cui erano stati separati dai lavori intensi dell’autunno e dagli impegni di scuola dei piccoli. Ricominciava il tempo delle favole, delle statuine costruite con al tivàr, l’argilla che la campagna forniva in misura abbondante e che ora veniva plasmata e sagomata a formare pecorelle, pastori e figure femminili, che poi finivano presso il fuoco del camino per seccare e per cuocere, prima di essere sommariamente dipinte. E ricominciava in tanto atteso tempo dei filò, la sera, nella stalla, con una sorta di silenziosa migrazione che, nei dopocena, vedeva muoversi nel buio figure intabarrate.
Dalle famiglie delle case bracciantili che circondavano la campagna affidata al patriarca Pietro Cervellati e ai suoi figli, giungevano alla stalla del podere denominato La Motta adulti e ragazzini, uomini e donne; alla spicciolata, come fantasmi che sfidavano il buio gelido pur di trascorrere qualche ora nel caldo, reso umido e pesante dai vapori della stalla.
Ma non erano soltanto la cucina e la stalla il teatro della rappresentazione famigliare in quelle settimane, profonde e gelide dell’inverno di fine gennaio; perché anche sotto il fienile, dove lo spazio era disponibile e riparato dagli artigli della tramontana, gli uomini lavoravano a costruire cose necessarie. Attrezzi che s’erano rotti per usura e che attendevano la disponibilità di tempo per essere sostituiti o riparati, ma anche ceste, d’ogni misura e per ogni funzione, usando per queste ultime i vimini raccolti nella campagna.
Il solo lavoro che anche in quei giorni di freddo crudo non si fermava mai, neppure di domenica, neppure nel giorno di Natale, era comunque il governo della stalla. Perché gli animali, la cavalla e il puledro, i buoi, le vacche e la scrofa, beni primari e capitale della famiglia e dello stesso padrone, andavano accuditi e dunque alimentati, abbeverati e ripuliti, ogni santo giorno dell’anno, fosse anche il giorno di Natale. Un lavoro fatto a turno, dal vecchio e dai figli sposati, che con lui condividevano la conduzione del fondo in affitto.

Quel trenta gennaio, la neve aveva cominciato a cadere già nella notte e ora, alle cinque del mattino, quando la sveglia chiamava gli uomini al loro dovere e questi si alzavano, dovendo rompere il sottile velo di ghiaccio che s’era formato nel catino per potersi lavare il viso, tutto era già imbiancato dai primi centimetri del suo virginale manto.
Fuori, nel buio, il candore della neve s’era trasformato in azzurro intenso e s’intuiva, pur non potendo spingere lo sguardo lontano, che un mondo nuovo attendeva chi si avventurasse all’aperto; fosse stato anche e soltanto per raggiungere il grande fienile e la stalla, che distava dall’abitazione soltanto pochi metri.
Un mondo ovattato in cui i suoni viaggiavano attutiti e in cui persino il canto dei galli dal pollaio sembrava venire di lontano, da un’altra realtà, sconosciuta e fantastica.
Chi era di turno alla stalla, allora, si calcava il cappellaccio in testa, calzava gli stivali bassi, si alzava il bavero della giacca logora e si avventurava all’esterno, lasciando la prima sequenza di impronte sui primi, immacolati veli della neve. Lo accoglieva la sferza della tramontana, che aveva  trasformato la neve in tormenta e che ancora spirava con spietato vigore, trascinando i suoi minuti cristalli a imbiancare ogni cosa; ogni palo, ogni cumulo di fascine, ogni staccionata, ogni parete e ogni attrezzo che si trovasse esposto alle sue raffiche.
Così era accaduto anche quella mattina; quel martedì trenta gennaio del Ventitré. Un anno che non era cominciato sotto gli auspici migliori, quello; con la gente che, la domenica mattina, sul sagrato della chiesa, discuteva di una situazione politica e sociale ancora instabile e preoccupante. Una situazione scossa da fibrillazioni che se non erano più quelle rivoluzionarie del biennio rosso, ancora non si placavano e che preludevano, invece, all’affermazione assoluta del Fascismo.
Il ventotto ottobre dell’anno precedente s’era svolta la grottesca Marcia su Roma delle Camicie Nere guidate da Mussolini e molti agrari locali avevano mandato i loro figli, armati di pistole e manganelli, al seguito delle squadracce che alla fine, per volere di un sovrano complice, avevano ottenuto il controllo della Nazione. Nessuno dei Cervellati, tuttavia, aveva partecipato; nessuno dei figli maschi di Pietro era stato sedotto dai proclami violenti di quella gente e lo stesso Alessandro, che pure era reduce dal fronte albanese della Grande Guerra, aveva sdegnosamente rifiutato di dare il proprio, personale contributo di partecipazione a quella che riteneva poco più che una mascherata violenta e sguaiata.

All’alba la Michelina, che era ormai al nono mese superato di qualche giorno, smaniava.
Aveva trascorso una notte tranquilla, tutto sommato, ma ora le prime doglie cominciavano a tediarla.
Anche per questo, ad Alessandro, era stato risparmiato il turno del governo della stalla, quella mattina: perché la nascita era attesa ad ore e quasi certamente sarebbe avvenuta entro la giornata. Certo, egli pensò alzandosi, la sorte avrebbe potuto riservargli un giorno migliore. Attaccare la cavalla al calesse per raggiungere l’abitazione della levatrice in un giorno di neve sferzante non sarebbe stata una passeggiata. E tuttavia, se il Padreterno aveva deciso così, ci si doveva adeguare; in fin dei conti, era sempre e comunque lui, a comandare.

(continua)

Nella presente antologia è stata riportata solo la presentazione del romanzo.
Per l’Opera completa contattare l’Autore.

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