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Paola Pozzolo 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
ORTI DEI DOGI
ROMANZI
SECONDO PREMIO
ORTI DEI DOGI
-Romanzi-
Fin dalle prime pagine ci immergiamo nelle vicende di un secolo denso di storia.
Su questo sfondo si staglia la vicenda di Giovanni, secondogenito di quattro figli di un feudatario del Monferrato.
A metà tra romanzo storico e romanzo d'avventura, seguiamo con interesse le vicissitudini del protagonista, tra desideri di avventura e l'impatto drammatico di alcuni eventi della grande storia: guerra e peste.
Davvero apprezzabili le scelte lessicali e stilistiche che ci trattengono nelle maglie dell'ultimo scorcio del XIV secolo per tutto il romanzo.
Genovese, da quattro anni vivo e lavoro a Cavallino Treporti, impiegata presso la pubblica Amministrazione.
Laureata in Lettere con indirizzo artistico, particolarmente interessata alla storia medievale e rinascimentale.
Autrice già presente edizioni:
2021
2020
2019
2018
Figlio cadetto di un piccolo feudatario del Monferrato, Giovanni anela a una vita diversa da quella che gli si prospetta nel paese natio.
Sceglie di abbandonare la casa avita e si dirige verso la Repubblica di Genova, segnando così il suo destino e il suo futuro.
La sua vita sarà scandita dagli avvenimenti che riguardano la “Superba” e momenti storici di autentica crudeltà, come le battaglie della Guerra dei Cent’anni.
Sfuggirà la peste, ma perderà con essa amici e affetti, per ritrovare sé stesso grazie alla quiete di un monastero.
La vita di un uomo qualunque, sullo sfondo di un secolo pregno di avvenimenti storici.


Il remo e il dardo


A Giovanni, il balestriere,
mio padre
18 FEBBRAIO 1396

È una fredda e piovosa giornata di febbraio, non ho idea di che ora possa essere, non dormo più molto ormai e da ore sono seduto sulla mia poltrona, con una coperta sulle gambe, accanto a me un braciere sprigiona un piacevole tepore, il respiro fattosi ormai faticoso, roco, quasi un rantolo.
In solitudine lascio vagare la mente, seguo il filo dei ricordi della mia lunga vita, con gli occhi chiusi rivivo momenti che mi scaldano il cuore, tanto quanto il braciere con le mie membra intorpidite.
Volgo lo sguardo verso la finestra, chiusa da uno spesso foglio di carta oleata che impedisce all’aria gelida dell’inverno di penetrare in casa, ma fa si che filtri anche un po’ di luce e mi permette di immaginare meglio il panorama che si staglia oltre queste mura.
Sento il vento che colpisce con forza le spesse mura di questo palazzo e la sua voce sibila tra le finestre, una voce quasi irosa, perché gli si impedisce di entrare: il vento, d’inverno, non è benevolo con questa città.
Conosco a memoria quanto si vede dalla finestra, anche con gli occhi chiusi ritrovo ogni particolare del molo, di Capo Faro, con il vecchio monastero e la spiaggia, sommersa dalle alte onde del mare tempestoso che flagellano la riva: so quante galee possono attraccare, le conosco, potrei chiamarle per nome e descriverle a una a una, anche se solo una è rimasta profondamente radicata nei miei ricordi e ancora oggi, se evoco i nomi dei miei compagni di allora, i loro volti si affacciano alla mia memoria.
Ho fatto mio questo luogo e le sue vicissitudini, l’ho portato con me ogni qualvolta l’ho lasciato per i miei vagabondaggi, sia per mare che per terra.
In questa città, che scelsi per me ancora ragazzo e senza nemmeno averla mai veduta, ma solamente immaginata dai racconti altrui, ho vissuto l’avventura di una vita piena e appagante.
Qui sono rimasto anche quando coloro che avevano contribuito a farmi diventare ciò che ero divenuto, non erano più, scivolati nell’oblio, chi per morte nera, chi per mano di altri, in modo subdolo.
Sono ormai vecchio, stanco e malato, ho chiesto molto, forse troppo, al mio corpo, che oggi reclama il saldo.
Presto sarò al cospetto di chi, prima di me, ha lasciato questo mondo, Giano, Simone, fra’ Guglielmo, i miei genitori: a loro dovrò rendere conto di molte mie azioni, dovranno esserci spiegazioni, ma anche rappacificamenti, finalmente le parole non dette faranno il loro corso.
Se anelavo a una vita ricca di avventure, credevo però sarebbe stato tutto più semplice, come quando vivevo a Oximianum, il piccolo feudo di famiglia: ero convinto che esistessero solo due facce della medesima medaglia, il bene e il male e che fosse facile sceglie da quale parte stare.
Compresi ben presto però che il dualismo è solo una facile filosofia buona per i semplici di cuore e di mente e che anche coloro che la sostenevano non vi si attenevano strettamente, figuriamoci quindi un uomo comune.
Feci promesse che non fui in grado di mantenere e ancora oggi me ne dolgo, perché sono consapevole di aver illuso persone che mi amavano teneramente.
Non ho mai avuto però alcun pentimento per le scelte fatte e ancora oggi so che rifarei ogni cosa, perché non ho mai avuto dubbi sulla bontà e giustezza delle mie azioni.
Solo la morte di Simone ha incrinato i miei rapporti con la città, mi sono ritirato a vita privata, occupandomi di mercatura, come molti genovesi erano usi fare.
Nonostante non sempre avessi approvato le sue scelte, né tantomeno le avessi condivise, non potevo perdonare alla città la damnatio memoriae che aveva subito.
Ogni anno, fino a quando le forze me lo hanno concesso, il 14 marzo sono andato sulla sua tomba: lì, nella penombra gelida della chiesa di San Francesco, nessuno era al corrente, nemmeno Ferdinanda sapeva dove andavo o cosa facessi in quel giorno dell’anno, restavo a lungo, in silenzio, contemplavo il suo monumento funebre, una statua giacente alla cui astrattezza del corpo paludato nella lunga veste, si contrapponeva la resa del volto, che l’artista avesse saputo rendere così bene nei suoi tratti, da sembrare reale.
Avevo scordato le preghiere dell’infanzia, ma gli raccontavo quanto stava accadendo in città: certo, ovunque fosse, lui sapeva già, non aveva bisogno dei miei racconti, ma era il mio modo per sentirmi legato ancora a lui.
Restavo lì per ore, sino a quando il freddo mi penetrava nelle ossa, in quei momenti sentivo di essere ancora più vicino a lui, di percepire il medesimo gelo che lo avvolgeva, in quell’oscuro sacello, poi uscivo, scaldandomi al tiepido sole di fine inverno, incamminandomi verso lo spiazzo delle fontane marose: dopo il silenzio funesto che regnava in chiesa, le orecchie si riempivano del rumore scrosciante delle sorgenti tumultuose che scendevano lungo la valle Bacheria verso il Soziglio e di qui al mare e delle fronde degli ulivi della valle, mosse dall’immancabile vento.
Quest’anno però sento che non manterrò fede al mio appuntamento, io e Simone ci incontreremo prima.

MAGGIO 1333
1
Era l’ora terza di un tiepido mattino di maggio, un martedì, il tepore era il preludio a una calda estate e mitigava finalmente il freddo accumulato dalle pietre del mastio, dopo un inverno lungo, freddo e piovoso.
Tutti noi anelavamo a un po’ di calore, negli ultimi anni il tempo andava facendosi sempre meno clemente, il freddo durava a lungo e capitava che anche le estati fossero particolarmente umide, rovinando i raccolti; così non appena il sole si faceva sentire, tutti noi ci beavamo del suo calore e della sua luce, come lucertole sul greto di un torrente.
Stavo appoggiato allo spesso muro di pietra, prossimo a una stretta finestra da cui filtrava un primo, timido raggio di sole: osservavo alternativamente il pulviscolo che danzava all’interno della stanza nel fascio di luce, posandosi lievemente sul pavimento di pietra che si scorgeva a tratti, sotto il pesante tappeto e il panorama che si intravvedeva dalla stretta feritoia.
Un panorama immutato e forse immutabile, in una lenta teoria di giorni tutti uguali a se stessi: le verdi ondulazioni del Monferrato, prospere di vigne e di campi di grano che circondavano il borgo di Oximianum, steso ai piedi della collina su cui era stato costruito il mastio della mia famiglia che sovrastava il borgo, l’aria che a volte muoveva le spighe, dando loro un refolo di vita propria e non portava mai con sé odori nuovi, né era foriera di notizie, la vita qui scorreva sempre uguale a se stessa.
In origine anche il paese sorgeva in collina, ma la popolazione aveva preferito trasferirsi lungo la via Fulvia, l’antica direttrice romana che conduceva verso Torino, strada di commerci e di viaggiatori che proseguivano Oltralpe.


(continua)

Nella presente antologia è stata riportata solo la presentazione del romanzo.
Per l’Opera completa contattare l’Autore.
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