Vai ai contenuti
Paolo Casella 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nato a Piacenza e residente a Sapri, laureato in fisica fa l’insegnante.
Tra i suoi interessi spiccano la metafisica la narratologia e l’escursionismo.

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
FEBBRE D’ESTATE



Déstati.
Sei un brandello di nuvola
trafitto dall’aurora:
spicchi un volo di favola,
svanisci dopo un’ora.

Fa’ presto.
Tenue come una lunula
nel buio che già affiora,
con fil di voce tremula
chiedi un minuto ancora.

Adesso dormi.

24 giugno 1989

Mi sento inquieto, ultimamente. La penombra del fondale mi dona conforto, mi manca piacevolmente il respiro. Tiepidi fasci di luce m’investono e proiettano una rete dorata che oscilla tra gli scogli e le conchiglie. Una stella marina si cela in un cespuglio di posidonia. Mi manca piacevolmente il respiro.
Un guizzo di vita mi raccoglie e mi tira verso l’alto. La luce non fluttua più, m’investe il color fiordaliso del cielo. La salsedine m’invade la gola, le onde mi cullano. I gabbiani stridono e volano in stormi, una vela ricalca la linea dell’orizzonte. Ancora una volta la vita mi è rimasta aggrappata come un paguro alla conchiglia.
Sai, Bianca, è una sensazione paradossale quella che sto esplorando. Non mi sento del tutto vivo; mi ricordo chi sono solo in quegli istanti in cui la vita mi sta abbandonando, quando mi manca piacevolmente il respiro e non so se saprò giungere in superficie prima di annegare. Dicono che quando hai quindici anni i dì e le notti durano settimane e il tempo è una risorsa inesauribile, eppure io mi sento come un fanciullo che gioca per la prima volta sulla spiaggia. Il tempo mi sfugge come una manciata di sabbia dagli spiragli tra le dita; mi ritrovo quando tramonta il sole che il giorno è volato e non so dove si sia perduto. Ecco: quando mi rifugio nel mio nido in fondo al mare, il tempo rallenta e aspetta che lo raggiunga. Mi sembra quasi di riafferrarlo, io che in questi pomeriggi di giugno sono indeciso come la bassa marea che disegna una riga di sale sugli scogli.
Chissà se ti ricordi. È tra questi scogli che quel giorno naufragammo con la barca a remi. Non so quanto impiegammo a toccare la riva: ancora non sapevamo misurare il tempo, ma avevamo già scoperto che nulla poteva legarci come il sapore struggente dell’avventura. Giungemmo su una spiaggia minuscola, una lingua di sabbia su nostra misura a delimitare il mare dal bosco. La costa s’impennava tra le ginestre, le cicale cantavano, il profumo del rosmarino sovrastava a sprazzi quello della salsedine. Riprendemmo fiato seduti in riva al mare, incantati dai delfini che saltavano davanti al tramonto come zampilli su un rilievo di bronzo.
Sai, quando cerco un posto per annegare torno sempre alla nostra caletta senza nome. Potrei raggiungere spiagge da sogno come la Molara o la Resima, o perfino Baia Infreschi; eppure scelgo sempre la stessa, minuscola caletta dove ho una delle memorie più felici. Pensandoci bene, non ho memorie felici di cui tu non faccia parte. Ti ricordi, Bianca? Le nostre avventure erano interminabili, i pomeriggi si dilatavano e il sole non tramontava mai, il mondo era nostro e sembrava di vivere in un sogno; prima che giungesse la malattia.

8 luglio 1989

Le tende color miele dell’ospedale chiudono la vista sul mare e filtrano la luce del tardo pomeriggio. La voce insicura di Lucio Battisti si spande dallo stereo. Lo squillo dell’elettrocardiogramma ne scandisce il ritmo, ma fatica a tenere il tempo.
Hai la pelle pallida come la luna, la mano un po’ più fredda di ieri. Mentre leggo le poesie di Leopardi che tanto ami, quasi mi sembra che arricci gli angoli della bocca.
«Dottore, ce la farà?» La voce mi esce tremula, acuta.
Il primario sospira e mi posa la mano sulla spalla.
«No, ragazzo. A meno che non si verifichi un miracolo, Bianca non si sveglierà».
«Non può fare proprio nulla?»
Scrolla le spalle. Impotenza e rammarico negli occhi paterni.
«Mi hai già posto questa domanda. Trovare il donatore per un trapianto di cuore è quasi impossibile. Bianca è in graduatoria per la donazione, ma si trova troppo in basso». Si aggiusta gli occhiali, sospira ancora. «La vita sa essere terribilmente amara. Tu torna quando vuoi a leggerle il suo libro. Ormai possiamo solo rendere più dolce il suo riposo».
Trascino i piedi sotto il porticato all’ingresso e sperdo lo sguardo al confine tra cielo e mare. Sai, ogni pomeriggio che passo accanto al tuo letto imparo qualcosa. Oggi ho capito questo: delle tante facce della natura umana, la fragilità è quella più caduca, quindi la più preziosa.
Per la via di casa mi scorre di fianco una ringhiera familiare, che circonda uno dei luoghi dove si snodano le nostre prime memorie. Ti ricordi la vecchia scuola elementare, con l’aiuola di gerani e il melo in fondo al cortile? Era lì che giocavamo insieme per la prima volta, quando non desideravamo altro che i nostri genitori tardassero all’uscita per poter correre fino al melo e arrampicarci un minuto sui rami. Quando poi tornavamo a casa con le ginocchia sbucciate e gli occhi contenti, ci sentivamo arricchiti di qualcosa che non potevamo comprendere, e forse tutt’ora non ne siamo in grado. L’amicizia, direbbe la maestra Margherita; l’amore, oserebbe il professor Proietti. Saranno davvero due cose distinte? E chissà come – tra una corsa al melo e un’avventura per mare – ci siamo ritrovati una mattina nell’edificio di fronte ad affrontare due anni di ginnasio. Ricordi come ti stringevo la mano sotto il banco per farla smettere di tremare, quando la professoressa di lettere si guardava attorno come una vecchia volpe e ti traeva in inganno con le sue domande astute? Mi piace pensare che eravamo sempre gli stessi, io e te, anche se non correvamo più nel cortile e non ci arrampicavamo più sul melo, ma attendevamo la ricreazione e passeggiavamo nei corridoi deserti, e ci rubavamo un bacio o due nascosti dai distributori di bibite.
Non so dove troverò il coraggio di affrontare da solo il liceo. E se per abitudine ti cerco accanto a me, trovo solo un abisso di cui non vedo il fondo.

22 luglio 1989

Tutto è iniziato con una febbre d’estate dopo un tuffo dalla scogliera in fondo al porto. Il tempo di un gelato sul lungomare e la tua fronte già scottava, poi nella notte ti sei addormentata per sempre. Come potevo sapere che quel pomeriggio ti vedevo ridere per l’ultima volta?
Sai, non so perché non ti ho mai detto che ti amo. Forse perché non avevamo bisogno di stipulare un contratto; l’essenziale ce lo leggevamo in fondo agli occhi ogni volta che incrociavamo lo sguardo. Le parole servono a consolare le coscienze tormentate dal dubbio, quelle che fuggono il silenzio come un presagio di sventura.
Come vorrei, Bianca, che tutti conoscessero la pienezza dei nostri silenzi. Trascorrevamo pomeriggi a bearci del sole che ci splendeva sul viso, inspirando il profumo del mare che invadeva il bosco, e mai sentivamo il bisogno di rompere quel prezioso silenzio. Le nostre ore erano permeate da una tacita, limpida serenità.
È solo quando ti sei addormentata per sempre che ho compreso perché tante anime ne provano angoscia. Quando mi ha sfiorato un silenzio diverso: vacuo, funesto, ineluttabile come un baratro d’ombra.
Quando ricerco il silenzio placido dei miei ricordi, ripercorro i nostri passi sul monte Bulgheria, la leonessa assopita che veglia sul Cilento. Il riflesso del sole sul mare era la sola lancetta che scandiva le nostre ore. Tra i fiori di zafferano e la lavanda selvatica, tu correvi a cogliere i soffioni e mi apparivi fragile e indomita come una primula di Palinuro sbocciata dalla roccia.
Il sentiero si arrampica ai faraglioni, dove la pioggia e il vento hanno scolpito il massiccio con pazienza secolare, e si sporge come un balcone sul golfo di Policastro. Il mare si staglia prorompente che puoi sfiorarlo tendendo la mano. Se socchiudi gli occhi, il Cristo di Maratea emerge all’orizzonte.
Tra le tante cose che abbiamo imparato insieme, abbiamo scoperto che la montagna sa offrire una nuova prospettiva sul mondo. Quando sei più vicino al cielo che alla terra, nulla contano i dilemmi umani. Cosa siamo, in fondo, se non un misero istante nell’infinità del tempo? Verranno altre civiltà – forse altri mondi – quando l’umanità si sarà estinta da un’era. Cos’è allora la morte, quando la nostra vita appare come uno sbuffo di vento in un deserto? Che diritto abbiamo di soffrire, quando siamo una perturbazione impercettibile di qualcosa che forse nemmeno esiste del tutto?
E proprio quando ci si sente inghiottire dall’immensità del tempo, la più grande consolazione è il più piccolo nido che si possa concepire, come un sacco a pelo rattoppato da cui ammirare le sfumature della Via Lattea. Ti ricordi, Bianca? Ogni notte di san Lorenzo scalavamo il monte Bulgheria, ci stendevamo nella radura al limitare del bosco e cercavamo le stelle cadenti, ed esprimevamo fino all’alba lo stesso desiderio. Triste destino, non averlo visto avverato.
Mentre, sopra di noi, Perseo dava vita al Pegaso alato e traeva in salvo Andromeda, tu chiudevi gli occhi e ti adagiavi sul mio petto. È per questo che bramo tanto il mare: le onde s’infrangono sulle spiagge del nostro golfo e si ritraggono come un respiro perpetuo; nella nostalgica melodia che effondono ritrovo una parte di te che si addormenta sul mio cuore.

6 agosto 1989

Hai il corpo di donna, il volto di bambina. Sei l’euforbia che riveste le nostre scogliere, con le gemme verdi che tendono appena al giallo e pare sempre sul punto di sbocciare e poi non sboccia mai; invece è già fiorita e nessuno se n’è accorto, e sotto le gemme sta già appassendo.
Mentre dormi sul tuo letto sei incantevole e imperturbabile come una bambola di porcellana, ma non riesco a scacciare un pensiero che nel profondo mi turba più di tutti. Come posso sapere se, sotto la porcellana che riveste il tuo viso, ogni fibra del tuo corpo non implora di porre fine a questo limbo?
Quando pensieri affilati mi trafiggono la mente, se non riesco a scacciarli mi resta la speranza di coprirli con altri più nitidi; e nulla è nitido come le memorie di noi due che crescevamo insieme. Così mi rifugio in soffitta e mi lascio naufragare negli album di ricordi che i nostri genitori hanno custodito.
Sono posti speciali, le soffitte che custodiscono ricordi. L’aria è permeata dall’odore del legno antico, i raggi di sole filtrano a fasci palpabili e mi sento sereno come nel mio nido in fondo al mare, come se potessi riafferrare il tempo che è volato.
La memoria più preziosa è quel giorno di settembre in cui ci avventurammo alla grotta dell’Acqua, dove nascosti dalle stalagmiti giganti chiudesti gli occhi e posasti le labbra sulle mie. Mai come quel giorno ho amato quella striscia di paradiso che è la costa della Masseta, dove l’erica e il mirto discendono dalla collina degli ulivi fin sul dorso degli scogli, e protendono le fronde al largo come a voler sfiorare le barche dei pescatori. Mi chiedo se in autunno mi guarderai percorrere i nostri sentieri serenamente seduta sulle panchine che dalla collina si sporgono sul mare. D’altronde, se esiste un dopo non posso immaginarlo diverso dal pianoro di Ciolandrea.
Quando m’immergo nelle memorie felici, ne divento avido come un tasso del miele. Tra sedie a dondolo e scaffali impolverati, la soffitta nasconde scatole e cartelle senza fine. Molte appartenevano ai nonni: i loro ricordi m’invadono gli occhi mentre cerco album di fotografie e i disegni che hai realizzato per me coi tuoi acquerelli. Quanto amo la tua Venere di Botticelli, che come te affiora tra il vento e le onde e pare si possa dissolvere come spuma in riva al mare.
Mentre il sole tinge d’ambra l’orizzonte, m’imbatto in una piccola scatola, la più antica di tutte, che giace rinforzata dal fil di ferro. Sono sicuro di non averla mai aperta. Sciolgo l’occlusione e mi trovo tra le mani qualcosa che mi lascia senza fiato: un vecchio revolver arrugginito.
Il nonno non era forse ufficiale di marina? Allora risale alla seconda guerra mondiale. Sono rimasti due colpi in canna, chissà se funziona ancora.
Nascondo il revolver nello zaino di scuola e corro giù per la discesa che porta al mare. Le onde della marea che si alza s’infrangono sulla riva, un gabbiano riposa sugli scogli all’ultima luce del giorno.
Rimuovo la sicura e punto il revolver verso il mare. Un’esplosione mi assorda, dalla canna s’innalza un velo di fumo e polvere che odora di bruciato. Il gabbiano è volato via, il proiettile è scomparso tra le onde. Che idea bizzarra: quando le mie stesse ossa saranno cenere, tutto ciò che avrò lasciato al mondo sarà questo proiettile che viaggerà per mare in balia delle correnti.
Dunque, è avanzato un ultimo colpo. Che sia questo il segno che aspettavo? Forse ora posso liberarti dal tuo tormento.

19 agosto 1989

L’estate sta per terminare, ma quest’anno non ho collezionato nessun ricordo. Dev’essere la sorte di chi si lascia annegare nel passato.
Le palme ondeggiano sospinte dal grecale e si affacciano sul porto gremito di barche e garzoni che legano funi alle bitte. Le luci del sabato sera mi circondano sul lungomare di Scario mentre il tempo continua a sfuggirmi dagli spiragli tra le dita. Attorno a me scorrono volti abbronzati e sorridenti, e vuoti. Corrono verso il molo, affollano i lidi e le discoteche. Sai, non provo pietà per le persone sole, ma per quelle avide di divertimenti, perché penso a quale intollerabile vuoto si sforzino di colmare. Non potrò mai dirtelo, ma mostrandomi un’alternativa a questa sconclusionata frenesia mi hai salvato la vita. Come vorrei, adesso, poter salvare la tua.
Volto le spalle alle barche e mi allontano dal porto. Lancio uno sguardo alla scuola elementare e al nostro ginnasio, e m’immergo nel sottopassaggio della stazione. Stasera trovo conforto nella panchina di legno sotto la pensilina del binario morto, di fronte alle rotaie arrugginite che percorrevamo fino alla galleria mentre aspettavamo il treno per le nostre gite.
Sai, non avevo mai colto il fascino delle piccole stazioni, quelle dove gli altoparlanti funzionano a metà e c’è sempre un anziano che getta il pane ai pesci rossi. Sarà che mi manca scoprire cose nuove insieme, e in momenti come questo mi basterebbe condividere con te qualcosa di semplice, qualcosa di antico. Cosa ne saprà mai la gente avida di distrazioni, della compiutezza che dona condividere la semplicità di un attimo? Una lacrima s’infrange sulla banchina.
È davvero questa la vita, Bianca? Vedere morire tutte le persone che ami, a meno che tu non muoia per primo? Mi chiedo perché ne parlino tutti come un dono – addirittura un miracolo – quando appena sotto la superficie si cela questa condanna. Non posso tollerare che tu stia soffrendo, ma come posso portarti via la cosa più preziosa che hai? Mentre ci penso, l’abisso non cessa di chiamarmi.
Ma ormai ho preso una decisione. Non so dove troverò il coraggio, ma devo, in qualche modo, dirti addio per sempre.

3 settembre 1989

Mancano pochi giorni all’inizio della scuola. Il cuore mi vibra sempre più forte mentre nascondo il revolver nello zaino e m’incammino lungo la via. La brezza di settembre mi sfiora il viso e mi accarezza le braccia. Il mare tuona e biancheggia sulla scogliera, il marciapiedi s’insinua sotto il porticato dell’ospedale. Quest’estate l’ho percorso tante volte che potrei ritrovare le mie orme nel cemento.
L’odore dei camici e dell’antisettico m’investe fin dalla sala d’aspetto; nel corridoio incrocio lo sguardo paterno del primario. Lui non sa cosa sta per succedere. Sarà una doccia ghiacciata, quando lo scoprirà.
La porta della camera cigola, la socchiudo lentamente. Bianca, sono di nuovo accanto a te. Lo sai che avrei dato tutto, per un’altra avventura insieme. Chissà se nei tuoi sogni sei riuscita a viverla almeno tu, per tutti e due.
Le tende color miele, così sbiadite che potrebbero svanire, lasciano filtrare un raggio di luce palpabile come nella soffitta e nel mio nido in fondo al mare, dove il tempo cessa di sfuggirmi e non devo più affannarmi di tenere il passo. Che strano, comincia a mancarmi piacevolmente il respiro.
Sai, il pensiero della morte mi ha angosciato per tutta l’estate, eppure ora che l’ho abbracciato non mi spaventa più. Mi appare perfino soave, come se la fine di questo limbo fosse la cosa più dolce che possa desiderare.
Accarezzo il grilletto, la canna del revolver mi solletica i capelli. Stringo in tasca la lettera su cui ho battuto a macchina la mia ultima volontà.
Ti ricordi? Ti ho promesso che il mio cuore avrebbe battuto solo per te. Quando il trapianto sarà ultimato, accadrà davvero. Mia amata Bianca, ti auguro tutta la felicità che io ho perduto. L’estate è finita, ma la tua vita può ricominciare.
Torna ai contenuti