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Piero Falchetta 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nato a Venezia, già bibliotecario alla Marciana, Storico della cartografia, Traduttore.

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
BURLOVA





Ero in viaggio. Avevo lasciato a Z***, la mia città, un certo numero di situazioni che a dire il vero avrebbero richiesto la mia presenza assidua e costante, ma non ce la facevo più ad affrontare quei nuvoloni neri che ogni mattina, non appena emergevo dalle inconsapevolezze chimiche della notte, su addensavano sopra di me, intorno a me, dentro di me. Di qua il lavoro, di là i sentimenti e i legami, ancora più in qua la salute, e poi il denaro, che richiede più attenzioni d’ogni altra cosa, specie se non se ne ha molto o, ma non è certo il mio caso, se si è davvero ricchi. Avevo così deciso di partire all’improvviso, lasciando un post-it sulla porta di casa con scritto “Starò via qualche giorno. Non preoccupatevi. Tutto bene”, e un messaggio simile nella segreteria telefonica. Non avevo mai fatto qualcosa del genere nella  mia vita, ed ero il primo a rimanere sorpreso e stupito nel constatare con quanta facilità e naturalezza avessi compiuto quel passo che a pensarci bene credevo che non sarei mai stato capace di compiere e sulla possibilità del quale, a mia memoria, non ricordavo di aver mai fantasticato. E invece, messo qualche ricambio in valigia, nel primo pomeriggio di un lunedì del mese di ottobre ero salito su un treno diretto a nord fino alla città di P*** e di là, con un altro treno che aveva attraversato vaste pianure appena ondulate di colline basse e boscose, ero finalmente arrivato alla città di B***, dove mi sono fermato soltanto perché mi pareva di aver messo una distanza sufficiente tra me e tutto ciò che mi stavo lasciando così alle spalle. Non avevo in mente alcun progetto né alcun incontro, e nessun mio amico o conoscente abitava a B***; non avevo perciò alcuna idea di come passare quel tempo che avevo deciso così improvvisamente di regalarmi, e nonostante tutto provavo persino un po’ di sgomento al pensiero di tutte quelle ore da riempire. In quel momento il rischio principale sarebbe stato la noia e magari essere costretto a domandarmi cosa mai ci facessi là e cosa pensassi di trovare o di ottenere scappando così di casa come un adolescente infelice che non ha altra maniera di domandare attenzione.
Avevo preso alloggio in un piccolo albergo nella zona pedonale del centro, un edificio alto e stretto dalla facciata merlata a gradoni e le finestre centrali a bovindo, dalla quale si staccava a mo’ di insegna un circonvoluto ghiribizzo floreale che terminava nella figura di un cavallino rampante con una corona dorata sulla testa. Era un’impresa a conduzione familiare, guidata con disciplina quasi militaresca dalla proprietaria, una donna di mezza età magra e scattante che portava, quasi in contrasto con l’ordine perfetto di tutto il resto, una chioma di capelli bianchi e grigi raccolti in treccioline lunga fino al fondoschiena, che ad ogni suo passo vibrava e ondeggiava come la coda di un cavallo al galoppo. La mia stanza, piccola ma graziosa, era rivestita da una boiserie di pannelli di abete scolpiti a motivi floreali nella parte superiore, mentre le travi del soffitto erano decorate con il disegno ricorrente di uccelli in volo. Affaticato dal lungo viaggio, mi ero steso su un morbido letto la cui testiera era decorata come le travi del soffitto, la cui unica pecca era di avere un cuscino di piuma troppo soffice dentro al quale la mia testa sprofondava come in una nuvola tiepolesca. Preso dalla stanchezza, e ancora vestito, ero piombato ben presto in un sonno greve e senza sogni dal quale mi ero risvegliato dopo un paio d’ore con la sensazione di aver dormito a lungo e, soprattutto, di aver magicamente ritrovato tutte le energie che il giorno prima, decidendo di partire, credevo di aver perduto per sempre. La stanza era immersa nel pallido chiarore dell’illuminazione stradale che penetrava attraverso la finestra, e per un po’ me ne ero rimasto disteso a gustare il piacere di sentirmi improvvisamente tanto bene e tanto rasserenato, mentre i cupi nuvoloni che da lungo tempo accompagnavano i miei risvegli mattutini sembravano d’un tratto essersi dissolti per lasciare il posto a un orizzonte che in quel momento mi era apparso aperto a ogni possibilità.
Non mi ero domandato il motivo di quel repentino cambiamento del mio stato d’animo, ero troppo contento di sentirmi così bene come da tanto tempo non mi capitava; le ansie e i problemi che mi assillavano fino al giorno prima mi sembravano in quel momento remoti, quasi non mi riguardassero più. Ricordo quelle poche giornate trascorse a B*** come giorni tra i più sereni degli ultimi anni, e conservo alcune immagini limpide e felici della città, della mia stanza d’albergo dalla quale mi sentivo accolto come se io fossi stato l’ospite ideale e perfetto che era finalmente arrivato, delle passeggiate serali lungo il fiume alla luce dei lampioni che illuminavano le facciate variopinte dei palazzetti d’epoca allineati con ordine lungo le sue rive, dei pub e delle birrerie dove mi piaceva cenare con semplicità mentre osservavo o per meglio dire immaginavo e inventavo piccole storie sulle giovani coppie che si scambiavano affettuosità o sui lunghi silenzi di quelle di vecchia data, del suono della campana che durante il giorno batteva le ore, e i quarti d’ora, le mezzore e i tre quarti, annunciando con un breve carillon di note chiare i rintocchi più gravi di quelle principali. Nei pomeriggi facevo lunghe e tranquille camminate che a volte sconfinavano in un vicino sobborgo ai limiti della campagna circostante, tutta rossa, gialla e oro dei colori autunnali, e a ripensarci ora mi sembra quasi incomprensibile come io mi fossi abbandonato a simili flânerie svagate e depurate di ogni pensiero che riguardasse l’indomani, i problemi che avrei ritrovato al mio inevitabile rientro e il significato di quella mia assenza del tutto inutile a risolverli, e a volte provo ancora un sentimento di nostalgia per quei pochi giorni trascorsi in una simile atmosfera. Tuttavia, credo che non metterò mai più piede a B***, neppure se mi costringessero a farlo.
Quei pochi giorni mi avevano dunque restituito forza e fiducia, e avevo perciò deciso di ritornare a casa per affrontare con un nuovo slancio tutte le questioni che avevo lasciato in sospeso con la mia partenza improvvisa. Nelle ultime ore del pomeriggio precedente il mio ritorno stavo come al solito passeggiando e, attraversando le vie del centro, mi ero inoltrato in un vicolo che sfociava in una piazzetta per la quale non ero mai passato. Era un luogo di tranquilla e modesta bellezza, circondato da bassi edifici d’epoca alla base dei quali, su due lati, correva un porticato dagli archi acuti ai quali faceva eco, al centro della piazzetta, una fontana ottagonale sormontata da un’edicola devozionale sotto le cui piccole arcate, anch’esse acute, stava la figura benedicente di un monaco, forse di un santo. Tra le poche botteghe allineate sotto i portici avevo notato la vetrina di una libreria antiquaria che aveva subito attratto la mia attenzione essendo io stesso, purtroppo, un piccolo collezionista di libri e stampe antichi; dico purtroppo perché questa mia passione mi aveva più volte condotto ad acquisti sconsiderati che avevano messo a rischio grave le mie non grandi sostanze e, di conseguenza, avevano creato profondi dissidi in famiglia. Avvicinatomi, avevo notato in un angolo della vetrina, appoggiata a un cavalletto, la stampa di una veduta di città di grandezza in folio; quel che aveva innanzitutto attratto la mia attenzione era il titolo che campeggiava entro un cartiglio posto nella parte superiore dell’immagine, identificando un luogo a me del tutto ignoto, chiamato Burlova.
Per quanto andassi con la mente a frugare nella mia memoria cercando qualche traccia di quel nome, non ero arrivato a niente, e la mia curiosità era diventata ancora maggiore e più urgente quando una rapida ricerca in Google con il mio cellulare non aveva dato ugualmente alcun esito. Non era tuttavia soltanto il nome mai sentito prima di quella città ad avermi incuriosito; la veduta era infatti stata composta in uno stile che richiamava immediatamente quello di tanti ritratti di città pubblicati nell’età rinascimentale, e in particolare lo stile del sommo Joris Hoefnagel, ma quella esposta in vetrina rappresentava le architetture e la vita di una strana città moderna attraversata non soltanto da strade e viali percorse da mezzi a motore, ma anche da un dedalo di canali entro i quali navigavano imbarcazioni di ogni genere. Nell’immagine che l’artista aveva voluto restituire la città appariva infatti affacciata su di una vasta superficie d’acqua che poteva essere quella di un lago o di una laguna più che non quella del mare, mentre sullo sfondo, verso l’interno, si estendevano vaste foreste, in un paesaggio collinare dominato qua e là da borghi e rocche tratteggiati con pochi e sapienti colpi di bulino. Più che mai incuriosito, ero entrato nel negozio di libri e stampe con la speranza di poter ricevere qualche informazione su quell’immagine singolare; seduto su una poltroncina di velluto verde davanti a un tavolino basso sul quale erano accatastati alla rinfusa decine di libri, un uomo di mezza età, piuttosto magro e vestito con ricercata eleganza era intento alla lettura di un piccolo volume rilegato in pergamena. Al mio ingresso, aveva sollevato lo sguardo togliendosi gli occhiali che gli servivano per leggere e mi aveva rivolto un buongiorno tutt’altro che cordiale, come se io fossi arrivato in un momento inopportuno.  
– Mi scusi, esordii timidamente, è possibile avere qualche notizia sulla veduta esposta in vetrina?
L’uomo, che aveva tutta l’aria di essere il proprietario della libreria, non aveva risposto subito alla mia domanda, ma mi aveva guardato come se volesse valutare dal mio aspetto e dalle mie parole se valesse la pena di prendere sul serio o meno la mia richiesta. Mi ero sentito a disagio sotto quello sguardo e, quasi per giustificarmi, avevo aggiunto – È un’immagine piuttosto insolita, e non ricordo di aver mai visto niente di simile in precedenza.
Invece di rispondermi l’uomo, dopo qualche secondo di esitazione si era alzato dalla sua poltrona ed era andato alla vetrina per prendere la mappa, distendendola poi su un tavolo dotato da una lampada a braccio che consentiva di illuminare nel miglior modo i libri e le stampe destinati a essere esaminati e valutati. – Prego, mi aveva detto, porgendomi nel contempo una grossa lente di ingrandimento che mi avrebbe consentito di scrutare da vicino ogni minimo dettaglio dell’immagine. Mi ero così immerso ancora una volta in quell’universo a due dimensioni nel quale mi sento così perfettamente a mio agio, quanto raramente mi capita in altri momenti della mia vita; poter osservare i paesaggi, le città, le bellezze naturali, i monumenti e la vita quotidiana in quelle stampe che sembrano una versione semplificata della realtà ma nelle quali, a saperle bene interpretare, ogni particolare raffigurato rappresenta l’essenza vitale di quei luoghi e di quelle bellezze, è un’esperienza che consente di accedere a un mondo più chiaro, più ordinato e più bello di quello nel quale siamo immersi nella vita di ogni giorno. Tutto quanto scorre via pressoché inavvertito nell’affacendarsi e nella distrazione quotidiani, prende in quelle immagini un risalto straordinario per effetto del quale siamo chiamati, o per meglio dire siamo risucchiati dentro per essere partecipi dello spettacolo del mondo, in una sorta di dialogo intimo, privilegiato.
Afferrata la lente e dopo un rapido sguardo d’intesa con quell’uomo altero e di poche parole, mi ero dunque chinato sulla veduta dell’ignota città di Burlova per studiarne meglio la fattura e per cercare di capire quale poteva essere la sua provenienza. Vista attraverso il potere della lente, la realtà di quel luogo appariva di stupefacente precisione; l’intrico dei canali che attraversavano da ogni parte il tessuto urbano era di assoluta verosimiglianza nel suo distribuirsi tra le case e i palazzi, e gli approdi per le barche disposti lungo le rive erano stati disegnati con grandissima cura del dettaglio, riportando perfino gli anelli metallici ai quali legare le imbarcazioni ormeggiate. Queste erano raffigurate in una molteplicità di tipi che, malgrado la fantastica inventiva dell’artista, risultavano immediatamente comprensibili nelle loro varie funzioni: barche da trasporto, taxi affollati di turisti con la macchina fotografica in mano, cappellini e occhiali da sole, vogatori in canottiera su filanti canotti con una bandierina sventolante in prua, motoscafi sui quali giovani donne in bikini e con i capelli al vento si abbronzavano a un sole che bisognava immaginare, essendo la luce che illuminava la veduta priva di ogni ombra. Lungo le vie, palazzi e case ritratti con un’incredibile varietà di forme e architetture, dalla villetta unifamiliare al grattacielo irto di antenne per le telecomunicazioni e inoltre alcuni edifici antichi e alcune chiese prive però di croci o di altri simboli, quasi che l’artista avesse voluto concentrare in quell’immagine una sorta di repertorio architettonico che fosse prova della sua perizia e dell’acutezza del suo occhio. Lungo le vie, alcune porticate, altre ampie e alberate, i negozi con le loro insegne che risultavano però illeggibili, anche se alcune vetrine mostravano chiaramente di quale genere di botteghe si trattasse: i pesci distesi sul banco di una pescheria, i fiori disposti nei vasi di un fioraio, i guanti infilati nelle mani di plastica di una guanteria, gli schermi televisivi accesi su canali diversi di una rivendita di elettrodomestici, e così via, a formare un panorama animatissimo di vita quotidiana.
Diversamente da quel che si osserva nelle immagini di questo genere, che sono quasi sempre inanimate e deserte per poter dare miglior risalto alla rappresentazione degli edifici e della città nel suo complesso, la veduto di Burlova era popolata da una piccola folla di persone che percorrevano le sue strade, chi trascinando una valigia con le rotelle, chi abbracciato alla sua innamorata, chi ancora zigzagando in bicicletta fra i pedoni o seduto a un caffè fumando la pipa, mentre dall’alto di un balcone un gatto bianco e nero osservava placido la scena e all’angolo di un palazzo un cane dal muso appuntito e dalla lunga coda alzava la zampa per fare i suoi bisogni contro il muro. Mi ero rialzato per un momento, senza fiato, tale la sorpresa che quell’immagine mai vista prima aveva provocato in me, e non avevo potuto evitare lo sguardo ironico e beffardo del libraio, come se egli si stesse divertendo molto a osservarmi, e mentre già fremevo dal desiderio di possedere a tutti i costi quella veduta, mi ci ero immerso nuovamente ancora più curioso di prima.
La mia attenzione era stata allora attratta dal paesaggio sullo sfondo, dalla successione di colline boscose che facevano corona intorno alla città, e sulle cui sommità vi erano alcune rocche in rovina sulle quali erano infissi vessilli che un vento invisibile agitava da una parte e dall’altra. Quasi al centro della veduta, nella valletta tra due colline, una sottile colonna di fumo si innalzava alta nel cielo, anche se non si capiva dove fosse situato il fuoco che la provocava, mentre sulla strada tutta a curve che si inoltrava tra quelle colline correva un camion dei pompieri seguito da un’ambulanza.
Ero senza parole. O per meglio dire, me ne erano venute alle labbra soltanto due, ma molto importanti: – Quanto costa? La trattativa con quell’uomo apparentemente imperturbabile e distante si era rivelata piuttosto ardua, e alla fine ero stato costretto dal mio irresistibile desiderio di possedere quell’immagine a impegnarmi per una cifra che mi aveva fatto sentire colpevole di irresponsabilità, capriccioso e insaziabile. I veri collezionisti, qualsiasi siano gli oggetti delle loro smanie, sanno bene di che cosa parlo. Tuttavia, quando gli avevo chiesto di dirmi qualche cosa sulla provenienza della veduta, le sue parole si erano fatte sfuggenti e ambigue, e tutto quello che ero riuscito a capire era che la stampa era appartenuta a un piccolo collezionista della città di F***, non più vivente, al quale nel corso degli anni egli aveva venduto alcuni libri antichi e alcune mappe.
Il suo parere era che si trattasse di un lavoro di pura fantasia che si inseriva nel filone delle tante carte di luoghi immaginari pubblicate nel corso dei secoli, e comunque di un lavoro eseguito con tecnica sopraffina, forse una prova di stampa che per qualche ragione non era stata seguita da una serie, altrimenti di qualche altra copia se ne avrebbe avuto notizia in un modo o nell’altro; a conclusione del suo discorsetto mi aveva confessato con un sorriso appena trattenuto che da oltre un anno la veduta era in vendita, anche online, ma nessuno si era mai fatto avanti con serie intenzioni di acquistarla, e lui era finalmente felice di aver trovato un sincero estimatore di quell’immagine singolare. La sottile presa in giro che mi pareva di leggere dietro quelle sue parole non aveva certo attenuato la mia eccitazione per aver messo le mani su quell’opera curiosa; quello che mi aveva maggiormente colpito nella mappa, a parte la perizia del disegnatore e dell’incisore – dei quali, contrariamente alle consuetudini in uso negli ambienti della grafica d’arte, non v’era menzione alcuna in calce al foglio – era lo strano contrasto fra lo stile antiquario dell’esecuzione, che mimava con sorprendente verosimiglianza le stampe del passato, e il contenuto moderno se non addirittura contemporaneo della rappresentazione. Era come se, fatte le proporzioni del caso, uno Jacopo de’ Barbari o un Abrecht Dürer si fossero risvegliati in pieno ventunesimo secolo e si fossero rimessi al lavoro con i loro sopraffini strumenti per rappresentare con la consueta precisione il mondo moderno.
Mentre tornavo all’albergo con la mia cartelletta sotto il braccio, pregustavo già il piacere di dedicarmi, non appena fossi tornato a casa, all’esame accurato del mio acquisto; nell’intimità protettiva del mio studio, dal quale cerco di tener lontana ogni altra cura, avrei cercato di comprendere meglio la tecnica dell’artista, di studiare le soluzioni che aveva adottato per restituire con tanta vividezza quel paesaggio e quella città, e poi magari avrei potuto effettuare anche qualche ricerca in biblioteca per vedere se il nome di Burlova potesse essere ricondotto a qualche citazione letteraria, se non a un toponimo effettivamente esistente, nel passato o nel presente. La sola idea dell’impegno che mi attendeva aveva suscitato in me uno stato d’animo di grande aspettativa nonché la sensazione profonda di essere finalmente in pace con il mondo dopo i giorni inquieti e carichi d’ansia che mi avevano spinto a una vera e propria fuga dalla mia vita ordinaria.
Quegli eventi inattesi mi avevano così alleggerito dal fardello del mio scontento e felicemente distratto dai miei pensieri; avevo perciò deciso di festeggiare in qualche modo l’occasione rivelatasi propizia di essere approdato alla città di B*** e di aver per un caso fortunato messo le mani su un’opera tra le più interessanti che mi fosse mai capitato di incontrare. Avevo dunque cenato nel miglior ristorante della città, e avevo concesso svariati brindisi a me stesso e alla mia stampa ordinando – prodigalità più, prodigalità meno, la situazione delle mie finanze non sarebbe cambiata – una bottiglia di un fantastico Bordeaux d’annata che mi aveva poi accompagnato verso una notte di sonno pacifico e profondo, dalla quale mi ero ridestato pieno di energie e di buona voglia.
Al risveglio, il mio primo pensiero era naturalmente corso alla mia veduta e, non resistendo al desiderio di guardarla nuovamente per compiacermi ancor più della mia fortuna, ancora prima di lavarmi e vestirmi l’avevo estratta dalla cartellina e l’avevo distesa sulla piccola scrivania situata di fronte al letto. Anche se non disponevo di una lente di ingrandimento, ero in grado di apprezzare a occhio nudo molti dettagli dell’immagine, e mi ero perso a osservare la cura con la quale era stato raffigurato l’orologio del campanile, con le sue dodici ore affiancate da simboli che ricordavano alla lontana i segni dello zodiaco, l’abbaino che lasciava intravvedere attraverso la finestra aperta una piccola catasta di vecchie valigie affastellate, un gruppetto di bambini che si affrettavano correndo verso la porta della scuola, un netturbino che spazzava la strada raccogliendo cartacce e barattoli con una lunga scopa di saggina, e altri dettagli, uno più affascinante dell’altro nel loro realismo restituito con pochi ma sapientissimi colpi di bulino. Ma quale non era stata la mia sorpresa quando, spingendo il mio sguardo verso lo fondo dell’immagine, avevo notato un nuovo particolare che mi sembrava diverso dalla prima volta che l’avevo visto; infatti, là dove il giorno prima avevo notato una sottile colonna di fumo innalzarsi dietro le prime colline, vedevo ora divampare alte fiamme che avevano formato nel cielo una grande nuvola di caligine scura. Non solo, lungo la strada sulla quale avevo osservato non senza divertimento la corsa di un carro dei pompieri e di un’ambulanza, c’era ora un’intera teoria di mezzi di soccorso diretti evidentemente verso l’origine del fuoco.
La mia prima reazione a quell’inspiegabile fenomeno era stata di dubitare di me stesso, ma subito dopo mi ero detto che non era possibile che mi fossi sbagliato in quel modo, perché la differenza tra quanto io ricordavo e quanto avevo sotto gli occhi in quel momento era troppo grande. Com’era possibile? Per quanto mi ero sforzato di dare una spiegazione razionale a quel cambiamento, non ero riuscito a trovarne alcuna. Nel tentativo di rientrare in una dimensione di normalità che mi consentisse di valutare con minore agitazione quei fatti, avevo cercato di comportarmi come in una qualsiasi altra mattina della mia vita; avevo dunque fatto una doccia e mi ero sbarbato facendo attenzione a non tagliarmi, cosa che mi capita abbastanza spesso, ero sceso al piano terra per una colazione della quale non avevo nessuna voglia ma che in quel momento mi era sembrato di non poter saltare se volevo riuscire ad allontanare ancora un po’ il momento in cui avrei dovuto decidere il da farsi, e tra una tazza di tè e un panino imburrato avevo cominciato a riflettere sul significato della trasformazione alla quale avevo assistito.
Se davvero, mi dicevo, la veduta di Burlova è diversa oggi da come appariva ieri, questo significa che il tempo, il suo tempo interno, per così dire, non è fermo al momento X, momento ideale nel quale il suo autore l’ha voluta fissare, ma che quel tempo vi scorre all’interno di una vicenda della quale non è dato conoscere il principio e in quale maniera proseguirà, semmai dovesse proseguire. Infatti, riflettevo, se un cambiamento c’è stato, e ci sono io a testimoniarlo al di là di ogni dubbio, è ben possibile che altri cambiamenti possano verificarsi dentro la dimensione temporale propria di quell’immagine, che però io non so come potrà procedere, né in qual modo né quando. Se io prendo per realmente accaduto quel che ho visto poco fa, e non ho nessun motivo per non farlo a meno di non dubitare della mia stessa sanità mentale, devo per forza di cose ammettere l’esistenza di un tempo che scorre, e che possiede perciò una propria profondità, dentro a un mondo a due dimensioni, quello del foglio sul quale è stampata l’immagine ma ciò, continuavo così il mio ragionamento senza avere alcuna idea di come avrei potuto condurlo a buon fine, contraddice in pieno quel poco che io so sulla struttura profonda dell’universo e sul fatto che il tempo, da Einstein in poi, non è nient’altro che la quarta dimensione di questo nostro universo. Ma se così è, come si poteva spiegare l’esistenza di un mondo tridimensionale, quello della veduta, al quale mancava però la dimensione spaziale, essendo esso piatto, quando quella spaziale era definita dalla fisica come dimensione indissolubilmente connessa e interdipendente con quella temporale?
Come se quei dubbi e quelle domande non fossero bastate, ce n’era ancora una, forse la più importante di tutte: in qual modo ero io implicato in tutto ciò, visto che la trasformazione alla quale avevo assistito si era verificata soltanto dopo che io avevo acquistato la mappa; questa era stata messa in vendita e probabilmente esposta in vetrina per lunghi mesi senza che il suo possessore precedente, il mio laconico libraio, avesse notato niente di strano, altrimenti dubitavo assai che avrebbe continuato a esporre nella sua vetrina la veduta di Burlova. Dopo il mio intervento, per quanto ne sapevo, le cose avevano cominciato a muoversi diversamente; ero perciò stato io a mettere in moto quel fenomeno? E come? E perché? Che ruolo avevo dunque avuto io in quella storia inverosimile? È fin troppo chiaro come in quel momento non fossi in grado di fornire alcuna risposta a tutte quelle domande e che la sola cosa che mi restava da fare per cercare di comprendere quanto stava accadendo, era di mettermi sulle tracce dell’autore di quel disegno.
Presa questa decisione, per quanto mi fosse apparsa assai debole e limitata rispetto all’indecifrabilità  di quella situazione, mi ero sentito comunque in grado di affrontarla con un po’ più di calma e raziocinio, e dopo aver comunicato al portiere che mi sarei trattenuto ancora per una notte e aver fatto una penosa telefonata a casa per annunciare che in capo a un paio di giorni sarei finalmente rientrato, ero risalito nella mia stanza, avevo dato un’ultima occhiata alla stampa per vedere se nel frattempo non fossero intervenute altre trasformazioni, cosa che non era accaduta, e mi ero diretto con piglio determinato alla libreria antiquaria, deciso a ottenere maggiori informazioni sull’origine di quell’opera. Considerata la somma tutt’altro che esigua che avevo sborsato per la veduta, mi aspettavo di essere accolto in libreria se non con un sorriso quanto meno con formale cordialità, e invece al mio ingresso il mio impagabile libraio mi aveva lanciato un’occhiata del genere ‘Che cosa vuole ancora questo qui?’. Avendo per l’anima e per la mente tutt’altro dall’umore di quell’uomo scostante al quale si sarebbe dovuta insegnare un po’ di buona educazione, ero andato subito al punto chiedendogli di aiutarmi a risalire ai precedenti proprietari dell’immagine e del lascito ricevuto dal loro parente defunto.
– Perché lo vuole sapere?
– Mi sembra evidente, avevo risposto a mia volta con una certa freddezza. Si tratta di un lavoro assai strano e curioso, e mi piacerebbe poter risalire al suo autore – Neppure per un istante mi era passata per la mente l’idea di accennare alle sorprendenti trasformazioni alle quali avevo assistito; senza sapere bene perché, ero convinto che l’intera vicenda avesse a che fare con la mia persona in un modo diretto e che nessuno, se non io stesso, avrebbe potuto risalire al bandolo di quell’oscura matassa nella quale mi trovavo inspiegabilmente intricato.
– Come lei sa, aveva ripreso il mio uomo, l’assoluto riserbo è una regola ferrea nel nostro mestiere. Mi dispiace, ma non posso dirle niente di più – aveva concluso con quello che mi era sembrato un mezzo sorriso compiaciuto sulle sue labbra.
– Senta, gli avevo allora detto in un ultimo tentativo di convincerlo, facciamo così: lei mi dà un nome, e se io riesco a mettermi in contatto con qualcuno degli eredi, dirò di aver trovato il loro nome, senza però sapere a chi fosse riferito, scritto a matita sul retro della stampa, e che quella era la sola traccia che mi aveva condotto fino a loro per tentare di ottenere, da collezionista quale sono, qualche notizia su una singolare veduta di città acquistata da un privato che l’aveva messa all’asta su Ebay – E per indurlo a dirmi quel nome avevo aggiunto ancora: – Comprendo bene i suoi scrupoli e, da piccolo collezionista, so quanto sia importante la discrezione nel nostro ambiente. Le assicuro dunque che mai e poi mai mi permetterei di rivelare la fonte delle mie informazioni, se lei acconsentirà a farmi quel nome.
Quel mio discorsetto aveva evidentemente avuto qualche effetto su quell’algido personaggio, o forse aveva pensato che dandomi quanto chiedevo si sarebbe finalmente liberato della mia presenza che per qualche ragione, non c’erano dubbi, non gli risultava molto gradita. Non potevo però fare a meno di domandarmi come riuscisse a mandare avanti un’attività commerciale così delicata, nella quale il rapporto con i possibili acquirenti doveva basarsi su una particolare specie di fiducia, se manteneva anche con gli altri quelle sue maniere scostanti e se non rinunciava a quell’aria di sottile presa in giro con la quale mi aveva trattato fin dal primo momento. Dopo qualche istante di esitazione e senza dire più una parola, aveva scritto qualcosa su un bigliettino e me lo aveva dato con uno sguardo che voleva dire ‘Adesso puoi toglierti dai piedi’. Gongolando, ma senza darlo a vedere per non dargliene soddisfazione, ero uscito di gran fretta dalla libreria, quasi temendo che potesse pentirsi e rivolere indietro quel nome.
Fatto ritorno in albergo, avevo ancora una volta aperto la cartellina per verificare se nella veduta qualche altro cambiamento non fosse intervenuto nel frattempo, ma ogni cosa sembrava uguale a come l’avevo lasciata. Mi domandavo come, quando e perché si verificassero quei fenomeni in grado di trasformare la fissità di un momento ideale fermato nel tempo in una storia che si andava sviluppando verso un esito imprevedibile, una storia che seguiva un proprio filo narrativo, come in una favola della quale io fossi il solo lettore. La risposta ad almeno una delle mie tre domande l’avevo finalmente avuta il mattino seguente quando, controllato ancora una volta lo stato della mia mappa, mi ero trovato di fronte a importanti novità.
A un primo sguardo la vita della città appariva immutata, ma grandi cambiamenti stavano avvenendo alle sue spalle; l’incendio fra le colline si era infatti esteso fino ad abbracciare con il suo arco di fuoco il limite estremo di Burlova; il cielo era sempre più scuro per le alte colonne di fumo che si innalzavano in più punti e che il vento degli strati più alti disperdeva poi sopra il paesaggio in una caligine grigiastra, mentre un paio di Canadair stavano scaricando i loro serbatoi colmi d’acqua sulla foresta in fiamme; la strada che si inoltrava fra le colline era ormai sbarrata e una lunga colonna di auto e di altri mezzi in uscita dalla città ingombrava ogni passaggio. Tutta quell’agitazione sembrava non essere stata ancora avvertita dagli abitanti della città, quasi che non fossero in grado di vedere il cielo sopra di loro, né di udire il rombo degli aerei antincendio e neppure di curarsi dell’ingorgo di auto che bloccava le strade là dove la città cedeva il posto alla campagna in un diradarsi del tessuto urbano che la veduta restituiva con straordinario realismo.
Una cosa cominciava comunque ad apparirmi chiara, ed era che nonostante io non potessi né capire né tanto meno spiegare come e perché l’immagine si animava di vita propria al di là di ogni ragionevolezza, ciò avveniva molto probabilmente mentre io dormivo; gli altri confronti che avevo potuto effettuare durante il giorno precedente non avevano infatti mostrato alcun cambiamento, mentre per ben due volte la notte e il mio sonno avevano dato luogo a un’evoluzione degli eventi. Una coincidenza? oppure per qualche motivo a me ignoto ero io stesso l’agente e il catalizzatore di tali cambiamenti o, ancora meglio, era attraverso di me che il tempo interno della mappa si metteva a scorrere in parallelo con quello della mia vita? e se quella mia vita era tanto strettamente connessa con quella propria della veduta, come poteva evolvere la situazione per quello che mi riguardava?
Tali domande avevano gettato il mio animo in uno stato di sgomento che se da una parte  mi suggeriva di lasciar perdere tutto, di liberarmi di quell’acquisto dal quale avrei fatto meglio ad astenermi non soltanto per ragioni economiche, dall’altro non facevano che rendere ancora più acuta e urgente la mia curiosità e il mio desiderio di saperne di più su quella carta e sul suo autore. Alla fine, con indosso il peso di una sensazione vagamente sinistra, eppure animato da una forte volontà di venire a capo di quella storia, ero salito sul primo treno diretto a F***, determinato a rintracciare a ogni costo i proprietari precedenti della mappa.
Era una giornata autunnale grigia e umida, e mano a mano che il treno si avvicinava alle montagne il paesaggio diventava sempre più spoglio e brullo, mentre i vetri del finestrino si andavano bagnando di un leggero spolverio d’acqua che non era ancora una vera pioggia e che tuttavia dava una sgradevole sensazione di freddo che penetrava fin dentro allo scompartimento. Di fronte a me sedeva un sacerdote che per gran parte del viaggio aveva armeggiato con il suo telefono inseguendo chissà quali curiosità fino a quando aveva tratto fuori da una valigetta nera sistemata nel portapacchi una rivista di giochi enigmistici, e vi si era immerso per completare uno schema di parole incrociate servendosi di una matita dotata di un gommino rosso con il quale a ogni momento cancellava qualche lettera che non si combinava con gli incroci obbligati di quel gioco. A dire il vero, per gran parte del viaggio io avevo se non proprio dormito di certo sonnecchiato in uno stato di dormiveglia che veniva spesso interrotto o da uno scossone del treno o perché la mia testa ciondolava scomodamente da una parte e dall’altra; il tepore dello scompartimento, le numerose gallerie che si succedevano lungo il percorso, alcune delle quali assai lunghe, mi avevano indotto a cedere a quel quasi sonno durante il quale immagini frammentarie e confuse si accavallavano nella mia mente. Ora mi svegliavo di soprassalto perché convinto di aver dimenticato la mia mappa a B*** poi, sempre nel sonno, domandavo al mio prete, che però non somigliava per niente a quello seduto di fronte a me, se quel treno andava a F***, e lui mi rispondeva che no, che la prossima stazione, ormai vicina, era quella di Burlova, e mi chiedeva se nel mio passaporto avevo il visto che serviva per entrarvi, gettandomi con questa informazione in uno stato di ansia tanto intenso da risvegliarmi soltanto per vederlo più che mai intento alle sue parole incrociate; o ancora mi pareva che nello scompartimento fosse entrato il libraio di B*** e che a voce alta, additandomi con la sua mano affusolata, mi accusasse di aver rubato una preziosa stampa nel suo negozio. Ogni volta mi risvegliavo per pochi istanti per essere subito riafferrato da un pesante sopore del quale soltanto l’annuncio gracchiante del prossimo arrivo a F*** mi aveva alla fine sgravato. Quei frammenti di sogno avevano lasciato in me un’impressione o piuttosto una vera e propria sensazione di mancanza e di inadempiuto, come se avessi dimenticato un dettaglio importante per proseguire nelle mie ricerche, e come se fossi venuto meno a un patto del quale la mia memoria aveva perduto ogni traccia. L’eco di tale sensazione non mi abbandonava mentre cercavo di riordinare i miei pensieri seduto nel taxi che mi portava all’indirizzo consegnatomi dal libraio; dovevo annunciarmi in qualche modo prima di tentare un approccio diretto? o non era forse meglio presentarmi subito di persona? Mi sentivo incerto e insicuro, come se fossi stato sul punto di fare qualche cosa di non completamente onesto, come se stessi tramando un inganno che in realtà non esisteva; uno strano disagio che non riuscivo a spiegarmi mi sussurrava di lasciar perdere tutto e di tornarmene finalmente a casa mia, ma proprio in quel momento il tassista mi aveva annunciato che eravamo giunti a destinazione.
L’automobile si era fermata lungo un viale alberato davanti al portone di un palazzo che conservava una certa aria di signorilità borghese, compromessa però dalla presenza lì accanto di una sala scommesse illuminata da una sgargiante insegna al neon, presso la cui porta di ingresso sostava una piccola folla di sfaccendati in attesa che la fortuna si accorgesse di loro. Con una certa trepidazione per il fatto di presentarmi all’improvviso e da perfetto sconosciuto in una casa della quale non sapevo nulla, avevo suonato al portone, e alla voce femminile che aveva risposto avevo a mia volta spiegato il motivo della mia visita, dicendo chi ero e nominando infine la veduta di Burlova. A quelle mie parole erano seguiti alcuni lunghi istanti di silenzio che mi avevano fatto temere di poter essere respinto, ma subito dopo la stessa voce mi aveva invitato a salire. Sulla porta di un appartamento situato al terzo piano mi aspettava un’anziana signora vestita e acconciata con una certa cura, come se fosse stata in attesa di una visita; indossava un abito lungo di velluto viola, le cui maniche erano chiuse ai polsi da bottoni di vetro anch’esso viola, e i suoi capelli raccolti a chignon erano di un bianco purissimo che illuminava due occhi azzurri dallo sguardo malinconico. L’imbarazzo per quella mia invasione di una casa privata sembrava essere più mio che non suo mentre in piedi nell’ingresso ripetevo le ragioni della mia visita offrendo a mia giustificazione ulteriori particolari sulla grande curiosità riguardo alla stampa di Burlova che mi aveva spinto a presentarmi in quel modo non del tutto urbano.
Con non poca mia sorpresa e nonostante tutto, la signora sembrava voler accogliere senza riserve le mie esitanti spiegazioni e mi aveva rivolto le seguenti parole: – Non si stupisca, gentile signore che io non conosco, se l’ho subito accolta nella mia casa – e aveva aggiunto questa fase sibillina: – È la speranza che mi induce a farlo... – Detto ciò, con un gesto di invito mi aveva guidato verso un salottino pregandomi di accomodarmi su una delle quattro poltroncine Luigi Filippo disposte intorno a un tavolino dello stesso stile, mentre il resto dell’arredamento, per così dire, era quanto meno insolito. Mi ero guardato intorno con curiosità e stupore esaminando gli strani oggetti rinchiusi entro una serie di teche allineate lungo le pareti; lo sguardo dell’anziana padrona di casa era posato su di me e attendeva una mia reazione, come a volte ci capita quando invitiamo un amico ad ammirare un paesaggio, un dipinto o un qualsiasi altro oggetto che ci sta molto a cuore sperando di potergli trasmettere, attraverso quell’oggetto, una parte di ciò che noi siamo o che vorremmo essere. Alcune fra le cose contenute in quelle teche erano facilmente riconoscibili; vi erano conchiglie di diversi colori e dimensioni, di sicura provenienza tropicale, una sfera di avorio finemente cesellata a rappresentare il globo lunare con le sue macchie e i suoi crateri, una spada la cui lunga lama era annodata su se stessa, un fez di panno rosso, una collana di denti di qualche animale, un teschio umano con un foro circolare sulla fronte, alcune statuette di soldatini armati fino ai denti ma nudi, una campana tibetana, un velo strappato, la fotografia di un asino con due teste, un mazzo di carte fatto di sottilissimi fogli metallici con i loro semi a smalto rosso e blu, e molte altre curiosità che non smettevano di attrarre il mio sguardo. Alcuni oggetti apparivano molto vecchi, se non addirittura antichi, altri invece avrebbero potuto far parte del bric-à-brac di un trovarobe di scarso talento che aveva finalmente trovato il cliente ideale al quale vendere la sua paccottiglia. Sul tavolino davanti a me era posata una cornice di pietra  paesina dagli ampi bordi che con il suo disegno dava l’illusione del profilo di una città monocroma e turrita; la cornice conteneva il ritratto di un uomo sulla cinquantina che indossava un’uniforme di tipo marinaresco e che avevo subito immaginato essere il marito della donna seduta di fronte a me. L’uomo aveva un portamento rilassato e sorrideva al fotografo, e il suo sguardo era trasparente e pulito, forse addirittura ingenuo, come se la fiducia nel mondo e nelle sue meraviglie non fosse mai venuta meno in lui con il passare degli anni.
– Sì, è mio marito – aveva detto quasi avesse potuto leggere nel mio pensiero – mio marito era pilota d’aereo, e per molti anni ha volato sulle rotte transcontinentali in ogni parte del mondo. – Aveva poi proseguito raccontandomi come a un certo punto della sua vita egli  fosse stato preso da una vera e propria smania per gli oggetti strani e curiosi che si procacciava nel corso dei suoi continui spostamenti, e che aveva via raccolto nella stanza nella quale ci trovavamo. – Tornava ogni volta tutto contento di mostrarmi questa o quella curiosità che aveva acquistato a Kyoto oppure in Patagonia o chissà dove, e mi raccontava la storia di quegli oggetti; più di qualche volta mi capitava di non credere a quelle storie che mi parevano il frutto della pura fantasia e magari anche dell’imbroglio, ma non volevo deluderlo troppo e spegnere il suo entusiasmo. E poi non mi dispiaceva che questo nostro normalissimo appartamento di città contenesse una stanza delle meraviglie nella quale erano riunite, insieme a tutti gli oggetti, tante storie forse vere e forse false, ma sempre belle da raccontare. –
A quel punto si era interrotta per l’emozione che quelle sue parole avevano suscitato in lei nel ricordo di un tempo oramai trascorso; immaginavo che quell’emozione fosse provocata dal ricordo di un compagno scomparso, ma mi sbagliavo, perché le cose stavano assai diversamente, come avevo ben presto avuto modo di comprendere dal seguito del suo racconto: – La nostra vita andava avanti così piuttosto tranquilla; con il passare degli anni provavo sempre meno quel timore di saperlo lontano, esposto a pericoli di ogni sorta, salvo quando mi arrivava la notizia di qualche disastro aereo, e allora la paura che potesse morire in un attentato o in un incidente mi prendeva, soprattutto durante la notte, e mi sentivo allora terribilmente sola. Figli non ne abbiamo mai avuti, e un po’ per volta mi ero comunque abituata a una vita per gran parte del tempo solitaria. Le cose però sono improvvisamente cambiate un giorno di due anni fa. Lui tornava da Buenos Aires per passare insieme a me un periodo di vacanza nella nostra casa di montagna. Quando ho aperto la porta di casa per riceverlo sono rimasta sorpresa nel vedere che non era solo; infatti lo accompagnava uno dei suoi assistenti, un amico più che non un collega, il quale mi aveva subito rivolto uno sguardo pieno di preoccupazione. Stavo per abbracciare mio marito, ma mi sono fermata di colpo vedendolo stranamente muto, immobile e senza espressione, non sembrava più lui. Che cosa succede, ho domandato allora, come stai, entrate, non rimanete così sulla porta. Non lo avevo mi visto in quelle condizioni in tanti anni di vita insieme, e mi sono spaventata a morte. Si muoveva come un automa; è entrato, si è seduto su quella poltroncina dove è seduto lei ora, e ci guardava come di lontano, come se fossimo stati due sconosciuti mentre il suo collega mi raccontava quel poco che sapeva. Sembra che mio marito durante il suo giorno di riposo prima del volo di ritorno si fosse recato in città dicendo che avrebbe fatto il suo solito giro di librerie e botteghe di antiquariato; la sera era tornato all’albergo nei pressi dell’aeroporto, dove avevano cenato insieme parlando del più e del meno. Fra le altre cose, mio marito aveva raccontato di aver comprato per pochi soldi  una stampa che sembrava antica, ma che ritraeva una città moderna mai sentita nominare in precedenza. Come lei avrà già capito, si trattava della veduta di Burlova, la stessa immagine che probabilmente ha spinto lei ad arrivare fin qui da me. L’aveva comprata non soltanto perché quella carta era assai curiosa, ma anche perché andava ad arricchire la sua piccola raccolta di mappe di luoghi immaginari collezionate nel corso degli anni. Questo episodio dell’acquisto di quella veduta sarebbe però stato ben presto dimenticato se il mattino seguente, all’ora dell’appuntamento fissato per riprendere il loro posto sull’aeroplano, mio marito non avesse tardato a scendere dalla sua stanza, un ritardo tale che a un certo punto il suo comandante, dopo averlo invano fatto chiamare al telefono dal concierge, aveva domandato al direttore dell’albergo il consenso di far aprire la camera con un passe-partout. Lo avevano trovato ancora in vesti notturne, seduto al tavolo sul quale era distesa la veduta di Burlova, agitatissimo e apparentemente terrorizzato; alla domanda di che cosa fosse successo non aveva reagito e si limitava a indicare con il dito un minuscolo dettaglio. Il comandante si era avvicinato per capire di che cosa si trattasse, e tutto quello che aveva potuto vedere era la figura disegnata di spalle di un uomo che aveva tutta l’aria di fuggire a precipizio da non si sa cosa, agitando in alto le braccia come per lanciare l’allarme per un pericolo imminente. ‘Il fuoco, il fuoco’, erano state le uniche parole uscite dalla bocca di mio marito, e non si era riusciti a fargli dire nient’altro nonostante le domande che gli rivolgevano; era come se fosse stato fulminato da un colpo che gli aveva ottenebrato la ragione e che lo aveva ridotto in uno stato dal quale non si è più ripreso, tanto che – e qui la mia signora aveva interrotto per un momento il suo racconto, sopraffatta dall’emozione e dalla tristezza – dopo aver visitato non so quanti medici e aver tentato non so quante cure, mi sono rassegnata... –
Così dicendo, si era alzata e mi aveva invitato a seguirla fino alla porta di una piccola stanza nella quale, immersa nella penombra, immobile in una poltrona, la figura di un uomo che altri non era se non il pilota fissava un punto imprecisato del muro, senza distogliervi lo sguardo neppure quando eravamo entrati noi due. – Questo è ciò che rimane di un uomo che è stato uno dei più bravi piloti della nostra compagnia aerea, e che ora credo non sia nemmeno più in grado di riconoscere sua moglie. Non dà nessun problema, si lascia guidare e trattare, ma per tutto il resto è come se non ci fosse – Dicendo così, si era avvicinata all’uomo e lo aveva accarezzato con delicatezza, quindi gli aveva aggiustato il foulard che portava annodato intorno al collo. Lo aveva chiamato una sola volta per nome, aspettando da lui un cenno di risposta, ma nessuna parola era uscita da quelle labbra, e neanche un solo sguardo aveva gratificato la moglie per quelle sue attenzioni amorevoli.
La donna aveva poi continuato così il suo racconto: – Ero disperata, e non mi rassegnavo all’idea di aver perduto il compagno della mia vita; le idee più assurde mi venivano alla mente dopo aver constatato come la scienza si fosse rivelata impotente di fronte a quanto ci era così disgraziatamente capitato. Tra le varie assurdità tentate in quei giorni, presunti maghi, intrugli tanto costosi quanto inefficaci, vane preghiere a un Dio al quale non ho mai creduto, si era insinuata in me un’idea altrettanto assurda e disperata: non poteva darsi che la condizione di mio marito fosse da mettere in relazione con quella mappa davanti alla quale lo avevano trovato in uno stato di totale confusione e sgomento? non sembrava forse, a quanto mi avevano riferito, che proprio quell’immagine avesse scatenato in lui lo choc tremendo? Era un pensiero insensato, me ne rendevo ben conto, ma in quei momenti l’intera mia vita mi appariva insensata e incerta, e in quei giorni quel pensiero non mi era apparso più improbabile di tanti altri. Speravo che una specie di contro choc potesse riportare mio marito alla ragione e alla nostra vita di sempre, e così un bel giorno distesi sul tavolo dello studio la veduta di Burlova e vi condussi davanti mio marito. Purtroppo, la sua reazione fu completamente diversa da quella che io avevo sperato; non appena il suo sguardo si fu posato sull’immagine, aveva cominciato a gemere in un modo straziante, come se fosse in preda a qualche tormento delle carni, si copriva gli occhi con la mano, annaspava, e continuava a ripetere ‘Il fuoco, il fuoco’, in uno stato di agitazione nel quale non lo avevo mai visto. Il brutto è che quello sconvolgimento si protrasse per giorni interi, nonostante io cercassi di calmarlo in tutti i modi; per fortuna a un certo punto, era già passata quasi una settimana, mio marito era poco per volta tornato a essere quell’uomo muto e inerte che lei vede ora davanti a sé; provi  a immaginare quanto mi costa aver detto ‘per fortuna’, ma di fronte al profondo turbamento e al panico ai quali avevo assistito e ai quali avevo cercato invano di porre rimedio, il silenzio e l’inerzia mi sembravano e mi sembrano ancora il male minore. Da quel giorno in poi lo studio è diventato un luogo proibito, e perfino quando ci passiamo davanti mi marito prende ad agitarsi e a gemere come se temesse di esservi condotto, al punto tale che la sua casa è ormai tutta in questa stanza. –
Il racconto della signora non era però ancora terminato; mancava infatti ancora la parte che potesse spiegare come la veduta di Burlova fosse arrivata fino al libraio di B*** e quindi fino a me. – Profondamente provata e turbata dagli eventi di quei giorni, sentivo che avrei voluto dimenticare il più presto possibile tutto quanto avesse avuto a che fare con quell’ultima crisi di mio marito; un sentimento che non ho oggi difficoltà a riconoscere come superstizioso mi spingeva a disfarmi di quell’immagine maledetta che era forse la responsabile principale delle nostre sofferenze. Non volevo però distruggerla, anche se ne avevo avuto una grande tentazione; cercando tra le carte di mio marito trovai diverse lettere di una sua corrispondenza con un libraio della città di B***, dal quale aveva acquistato negli anni alcuni libri e alcune stampe; decisi perciò di mandargli la veduta accompagnata da una lettera nella quale in nome dell’antica conoscenza con mio marito lo pregavo di metterla in vendita nella sua libreria. Questo accadeva all’incirca un anno fa, e da quel momento non ne ho saputo più niente anzi, me ne sono quasi dimenticata. Quando lei ha suonato alla mia porta e ha nominato Burlova tutto quel passato mi è tornato di colpo alla mente e se da una parte avrei preferito di no, dall’altra ho la speranza che lei possa finalmente darmi qualche elemento per cercare di capire meglio quanto è accaduto. Ecco perché ho acconsentito a riceverla pur non conoscendola; è una speranza quanto mai improbabile, me ne rendo conto, ma non potevo trascurarla. E con ciò ora lei conosce l’intera storia. –
Il racconto di quelle tristi vicende mi aveva dapprincipio condotto a uno stato d’animo e a pensieri ansiosi e preoccupati. Infatti, anche se la crisi dell’anziano pilota non avesse avuto niente a che vedere con la mappa di Burlova, ipotesi che mi sforzavo di ritenere quanto mai probabile, sull’intera storia, a partire dal carattere gelido e scostante del libraio di B*** fino ai fatti dei quali ero appena stato messo al corrente, gravava un’atmosfera sinistra e finanche tragica nei suoi ultimi risvolti; non soltanto il mistero delle trasformazioni che io avevo potuto riscontrare nell’immagine della città rappresentava una voragine oscura della ragione e una crisi delle esperienze sulle quali era fondata l’intera mia vita, ma un timore allarmante si era insinuato nella mia mente mentre ascoltavo le parole della signora, quello di poter andare incontro a un destino simile a quello di suo marito. La stampa che avevo acquistato per soddisfare la mia curiosità e il mio appetito di collezionista stava minacciando di aprire orizzonti tetri così a me come era successo a colui che vi aveva avuto a che fare in precedenza, e quel misero pezzo di carta era ormai diventato il testimone, se non l’attore, di una possibile minaccia futura. L’idea di disfarmene si era fatta in quel momento più forte che mai, ma ancora una volta la brama del possesso di un documento tanto singolare, che pareva in grado di aprire una porta su mondi di conoscenze nuove e impensabili, aveva avuto il sopravvento sulle mie riserve e sui miei timori, ed era stato proprio in quel momento di massimo dubbio e di incertezza che, in preda a un impulso potente, avevo preso la decisione di andare fino in fondo a quella vicenda.
È evidente come a quel punto sarebbe stato inutile e forse crudele raccontare quanto era capitato a me e svelare alla signora che la mappa poteva non essere il semplice ritratto di una città bensì una specie di organismo che viveva una propria esistenza in un tempo diverso dal nostro; farlo, avrebbe significato spingere ancora di più quella donna infelice nell’oscurità dell’incomprensione, in un mondo sregolato dove non esistevano appigli all’esperienza comune, dove soltanto motivazioni faustiane, quale la mia in fondo era, potevano consentire di non smarrirsi nell’assurdo. Tutto ciò che avevo allora potuto dirle era che, arrivato sperando di saperne di più su Burlova, me ne andavo invece via senza poter offrire nessun elemento in grado di aiutarla a capire e a sopportare con un po’ più di serenità il suo pesante fardello di tristezza e di sgomento.
A seguito del racconto del quale ero stato testimone e della mia repentina decisione, avevo lasciato quella casa di F*** portandomi addosso una strana sensazione di irrealtà e, soprattutto, di estraneità rispetto alla mia vita di sempre; era come se fossi entrato in una dimensione nuova, nella quale i punti di riferimento consueti non esistevano più e una meta, pure se era incerta ed evanescente, esistesse da qualche parte, e il mio compito era quello di trovarla. Un sentimento di sfida mi animava ormai, e non provavo più quella sensazione di oppressione e di sconfitta che mia aveva spinto soltanto pochi giorni prima a lasciare la mia casa e la mia città, senza orizzonte e senza scopo.
E così, senza porre altro tempo di mezzo, ero nuovamente salito su un treno che mi avrebbe riportato là da dove me ne ero andato soltanto pochi giorni prima, anche se mi sembrava che fosse passato un tempo lunghissimo o, per meglio dire, ero io che mi sentivo tanto diverso da non poter più appartenere del tutto al tempo nel quale era cominciata la mia avventura. Mentre viaggiavo veloce attraverso le campagne fradice di pioggia sotto un cielo ugualmente grigio e basso da ogni parte, non avevo potuto resistere alla tentazione di estrarre dalla sua custodia la mia veduta, ma non mi aspettavo di trovarvi cambiamenti di sorta. Se era vera la mia teoria, tali trasformazioni potevano verificarsi soltanto durante la notte, ovvero quando il mio tempo soggettivo era abolito dal sonno e dall’incoscienza, e vigeva semmai, a volervi trovare un’analogia, il tempo parallelo del sogno, il quale possiede regole proprie del tutto imprevedibili e anarchiche; nulla perciò sarebbe accaduto, se doveva accadere, prima che il sole fosse nuovamente sorto e prima che io avessi resa possibile con il mio semplice guardare la realtà altrimenti inerte di Burlova. E in effetti, estratta la stampa dalla cartellina, potei constatare che nessun cambiamento era intervenuto dall’ultima volta che l’avevo aperta.
La mattina seguente, al risveglio, mi ero attardato in una serie di azioni dilatorie prima di andare a controllare lo stato della mappa; combattuto tra inquietanti sospetti e divorante curiosità, avevo continuato a rinviare sempre un po’ più in là il momento della verifica. Mi ero trattenuto a colazione più a lungo del solito, avevo dato un’occhiata alla posta e ai giornali, avevo dedicato qualche cura supplementare al mio aspetto fisico con un po’ di ginnastica, il tutto però con il pensiero fisso a Burlova e con lo stesso stato d’animo trepidante che si ha nell’attesa di una prova difficile o di un evento felice. Sotto questo strato di eccitazione covava tuttavia anche il vago timore di trovare inalterata l’immagine della città e di vedere perciò improvvisamente interrotta la strada sulla quale la mia smania di sapere stava correndo a perdifiato. Che fosse un timore infondato era stato però evidente fin dalla prima occhiata.
All’apertura della cartellina mi si era infatti presentato uno spettacolo grandioso e terribile. L’intera città era in fiamme. Dalla cintura di fuoco che la circondava e che stava divorando anche i boschi e le campagne si diramavano infatti numerose lingue ardenti che penetravano fra le costruzioni, dapprima nella periferia e quindi gradualmente verso il centro; le case e gli edifici più esterni erano già ridotti a scheletri neri e fumanti, mentre alte lingue di fiamma stavano consumando i palazzi patrizi, i monumenti e il labirinto di case e strade del centro storico più antico. Il fuoco avanzava da ogni parte nonostante la presenza dei molti canali che con il loro intreccio creavano le piccole isole sulle quali la città era stata costruita; l’acqua sembrava non essere di ostacolo al propagarsi dell’incendio e vano appariva il lavoro disperato dei vigili del fuoco che con autobotti e autopompe cercavano sia dai canali che dalle strade di fermare quel gigantesco rogo.
Dappertutto piccoli gruppi di persone correvano in cerca di scampo, famiglie con i bambini in braccio, anziani che arrancavano curvi, qualcuno con gli abiti già in fiamme, mentre qualche corpo giaceva immobile a terra. Là dove uno dei tanti ponti che univano un’isola all’altra pareva dare accesso a una zona libera dal fuoco, si accalcava una folla in preda al panico che travolgeva ogni resistenza davanti a sé, non badando se bambini e infermi venivano calpestati e schiacciati. Alcune persone avevano cercato scampo gettandosi in acqua e nuotavano a casaccio da una parte e dall’altra ma anche là, come se una potente maledizione avesse convertito l’acqua in petrolio, le fiamme si levavano alte scorrendo rapide sulla superficie dei canali, e incendiavano i capelli e i volti dei malcapitati. Dalla sommità dell’antica torre che dominava la piazza principale si innalzava una colonna di fumo nerastro, quasi che quella fosse la ciminiera di una combustione sotterranea che liberava nell’aria le sue ceneri e i suoi veleni, e qua e là già crollavano splendidi edifici che avevano ospitato generazioni e generazioni di cittadini dietro le loro facciate decorate a mosaico, dipinte ad affreschi recanti scene di vita mercantile e stemmi nobiliari, e sulle quali s’incastonavano bassorilievi marmorei, patere con gli emblemi di antiche proprietà e ghirigori floreali.
Ero affascinato da quello spettacolo di morte e distruzione che in virtù della sua irrealtà non  mi costringeva a un atteggiamento morale di orrore e di pietà e mi lasciava invece libero di continuare a seguire gli sviluppi di una storia imprevedibile, per quanto luttuosa e crudele fosse, con la stessa limpida e innocente curiosità con la quale un bambino trema e al tempo stesso gode all’ascolto di una favola nella quale orchi malvagi e perfidi maghi fanno strage di innocenti prima di essere finalmente sconfitti. Mi rendevo però conto, mentre osservavo quella scena apocalittica, che la volontà di andare avanti per scoprire cosa si nascondesse o piuttosto cosa si sarebbe potuto rivelare alla fine di quella storia, aveva sopravanzato ogni mio ragionevole dubbio e che il mio scetticismo di fronte agli eventi inspiegabili ai quali stavo assistendo non aveva alcun peso nelle mie considerazioni e nelle mie decisioni; con lucidità mi riconoscevo intrappolato in quella vicenda che pareva volermi dire ‘qui non vi sono uscite, qui vi sono soltanto entrate’, come se fossi rinchiuso in un teatro dove si rappresentava un dramma soltanto per me e dal quale non mi sarebbe stato possibile uscire prima della fine.
Questo turbine di pensieri, di sensazioni e di emozioni che mi agitava accresceva perciò  sempre più il mio desiderio e anzi sarebbe meglio chiamarlo bisogno di uno svelamento, e all’improvviso mi si era insinuata nella mente un’idea che pian piano aveva invaso la mia coscienza spingendo via propositi e intenzioni di prudenza e buon senso alla stessa maniera nella quale un cafone maleducato  e incivile, per poter passare davanti a tutti, si fa largo a gomitate in una fila di persone che attendono l’autobus. L’idea era questa: forse avrei potuto accelerare il tempo intrinseco della mappa per far sì che il seguito degli eventi procedesse con maggiore rapidità verso la sua naturale conclusione, ammesso che in un caso di tal genere i concetti stessi di natura, naturalità e naturalezza potessero essere chiamati in causa.
Io faccio un uso saltuario di Stilnox, una piccola compressa bianca e oblunga che garantisce almeno sei ore di sonno, ma che a differenza di altri sonniferi che ho provato nel corso del tempo non comporta un generale ottundimento dei sensi e della mente quando ci si risveglia al mattino; ingoio questa pastiglia soltanto quando le notti insonni si susseguono una dopo l’altra e allora io cerco di spezzare quella catena di veglie patologiche con una notte di sonno tranquillo, per quanto artificiale. Conservo perciò una buona scorta di questi sonniferi, che tengo in un cassetto del comodino accanto al letto in una scatolina d’argento sulla quale è incisa a sbalzo la figura di un Hermes con caduceo. Avevo allora pensato che se io procuravo a me stesso sonni ripetuti, avrei potuto ravvicinare le fasi delle trasformazioni che stavano distruggendo la città di Burlova, le sue case, i suoi palazzi e i suoi abitanti, e scoprire finalmente quale fosse il disegno che governava quel fenomeno e a quale fine mirasse.
Con questo convincimento in testa, avevo perciò ideato una sorta di programma che mi avrebbe visto passare da un sonno a un altro sonno, intervallandoli con brevi pause di veglia durante le quali avrei avuto la possibilità di esaminare la veduta e di verificarne le trasformazioni intervenute. Questa procedura aveva naturalmente richiesto che la dose di sonnifero dovesse essere raddoppiata a ogni assunzione per far sì che il sonno tanto artificialmente indotto potesse essere operante nel mio organismo. Ho ricordi assai confusi di quelle poche giornate durante le quali il tempo della mia esistenza animale si era dissolto in un altro tempo non lineare, nel quale alla mia mente drogata dalla chimica realtà della veglia e realtà del sonno, sogni e ricordi, immagini dal vero e immagini inventate dalla mia fantasia si fondevano e si rincorrevano invertendo di continuo il senso del loro succedersi, dalla realtà al sogno, dal sogno ai ricordo, dalla fantasia alla realtà, di modo che non ero stato più in grado di riconoscere per bene quello che vedevo nei momenti di veglia e di distinguerlo da quello che invece era il frutto del sogno e dell’immaginazione.
A ogni risveglio, l’immagine mostrava uno spettacolo di desolazione e distruzione sempre più grande, fino a quando dell’intera città non era rimasta che una distesa di macerie fumanti dalle quali si sprigionava ancora qualche lingua di fuoco; anche se moltissimi erano fuggiti, diversi corpi senza vita giacevano poi a terra. La cosa forse più spaventosa era tuttavia l’altissima muraglia di fiamme che dopo aver circondato la città si stava espandendo sempre più nelle campagne e tra le colline circostanti, procedendo implacabile verso chissà dove; quella barriera di fuoco in movimento sembrava inarrestabile e anche là dove non si vedevano vegetazione, costruzioni o altri materiali in grado di alimentarla, le fiamme ardevano violente e immense, tanto alte da sembrare l’effetto di un diluvio di fuoco caduto dal cielo. A un certo punto però lo stato di profonda prostrazione al quale mi aveva condotto l’eccesso di sostanze chimiche aveva fatto sì che al risveglio, tentando di alzarmi dal sofà dello studio sul quale avevo trascorso quei momenti, avevo barcollato sulle gambe che parevano non volermi più sostenere, e aggrappatomi invano alla sedia dall’alto schienale della mia scrivania, ero scivolato a terra in uno stato di profonda incoscienza, senza sogni, senza immagini, senza luci, senza rumori.
Mi ero svegliato dopo un tempo che non sapevo dire se fosse stato breve o lungo, ma dovevano essere trascorse diverse ore perché fuori dalla finestra il buio della sera o forse della notte aveva preso il posto della luce del giorno, mentre cadevano lenti volteggiando appena nell’aria lievi fiocchi di neve illuminati dai lampioni della strada. La mia mente era più che mai confusa e il mio corpo debole, ma nonostante ciò non avevo pensato ad altro che alla mia mappa, e un po’ annaspando e un po’ barcollando mi ero tratto in piedi con grande sforzo, fino a ritrovarmi ritto davanti a Burlova. Non avrei mai potuto immaginare la scena che mi si era presentata in quell’istante. Sullo sfondo di una distesa infinita di ceneri e rovine, un uomo avvolto dalle fiamme avanzava verso di me, si muoveva sotto il mio sguardo incredulo avvicinandosi sempre più in un gioco di prospettive che andavano trasformandosi mano a mano che la sua distanza da me diminuiva. A un certo momento avevo provato la strana sensazione che vi fosse qualcosa di familiare in quella figura, per il suo modo di camminare, per una certa sua aria che la faceva assomigliare a qualcuno che io conoscevo. Sembrava che le fiamme che lo avvolgevano non avessero alcun effetto su di lui; camminava lento guardando davanti a sé, ovvero guardando me che ero come paralizzato davanti a quel fenomeno; non sapevo più se stavo sognando o se i sonniferi avessero a tal punto offuscato la mia ragione, ma non distoglievo gli occhi da quella figura che continuava ad avvicinarsi sempre più fino a quando non si era fermata, quasi in primo piano, e aveva alzato la testa che prima era china guardandomi dritto in faccia. Ero io! ero io! ero io quell’uomo in fiamme  e mentre sentivo il respiro mancarmi e il cuore battere un ritmo frenetico nel mio petto, la porta dello studio si era spalancata di colpo andando a sbattere contro la parete e attraverso la soglia una lingua di fuoco rosso incandescente si era precipitata nella stanza a ghermirmi...

Ero in viaggio. Avevo lasciato a Z***, la mia città, un certo numero di situazioni che a dire il vero avrebbero richiesto la mia presenza assidua e costante, ma non ce la facevo più ad affrontare quei nuvoloni neri che ogni mattina, non appena emergevo dalle inconsapevolezze chimiche della notte, su addensavano sopra di me, intorno a me, dentro di me.....



























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