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Piko Cordis 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
All’anagrafe Roberto Sospetti, nasce ad Ascoli Piceno il 4 luglio del 1968.
Appassionato di lettura, storica in special modo, si cimenta nella scrittura, prediligendo ambientazioni medievali e rinascimentali.
All’inizio del 2016, portata a termine la stesura del manoscritto “Veneficus – il gabbamondo”, Roberto adotta lo pseudonimo di Piko Cordis, mostrando così un attaccamento alle sue radici: Piko da cui ha origine Picus in stretta relazione con l’etnonimo latino Picentes (i Piceni); Cordis, in latino cuore. Cuore Piceno.
Vincitore di numerosi primi premi ad importanti concorsi italiani e internazionali.

Già presente edizioni:
2021
ORTI DEI DOGI
RACCONTI
RAPHAEL  VERITAS







Il sole era tramontato con una brillante fiammata rosso rubino, e la luce si stava spegnendo lasciando il posto a un crepuscolo semi dolce di un’estate oramai declinante.
L’aria era calda e ferma e Baviero sudava copiosamente. Si era portato accanto a una delle finestre del suo studio a contemplare il panorama della campagna, cullato dallo stridulo frinire delle cicale. Il concerto, assordante e infinito, si estendeva per tutte le culture fino all’orizzonte dove lo sguardo dell’uomo non riusciva a vedere oltre.
Immerso nei suoi pensieri, considerò che fosse giunta l’ora di mettere per iscritto quello che da molto tempo andava dicendo a chiunque gli chiedesse la verità sul presunto matrimonio del suo stimato amico Raffaello.
Come per Beatrice Portinari e per Laura de Noves che si erano vestite dell’idealizzato amore del sommo Dante e del poeta Petrarca, così Baviero voleva rendere giustizia anche a Margherita Luti, detta la Fornarina, amata dal talentuoso Raffaello Sanzio che l’aveva sposata in gran segreto.
Beatrice e Laura erano state rese immortali nei preziosi poemi dei due poeti, un dono oltre qualsiasi altro omaggio terreno; l’urbinate, rese la sua Margherita immortale, invidiata e ammirata in diversi suoi capolavori pittorici.
Con ancora il favore della flebile luce del tramonto, Baviero preparò tutto il supporto scrittorio a sua disposizione: vari fogli di pergamena, la penna di grotto marino dall’ampio diametro del fusto e l’inchiostro ferrogallico.
Il massiccio scrittoio dove questi stava per iniziare a scrivere, era posto in mezzo alla stanza, proprio di fronte alle due finestre spalancate per mitigare la calura del giorno appena trascorso. A quel momento così importante, durante tutto l’arco della sua vita, aveva pensato molto spesso e finalmente, in quella serata propizia, poteva passare all’azione.

Il mio nome è noto a pochi e non è rilevante ai fini di questo scritto che ha ben più fondamentali motivi d’esser tramandato e rivolto a più savio giudizio.

Il tratto di Baviero era tremolante sul ruvido della pergamena, poiché questi era conscio che l’abrasione dell’inchiostro che penetrava nelle fibre della carta in modo indelebile conferiva al suo scritto una verità taciuta e difficile da accettare, ma nulla lo poteva dissuadere.

Il più eminente ingegno del mio indimenticato amico, Raffaello Sanzio, è stato quello di cercare con autorevole studio e amore le ragioni del bello e della perfezione. Seppur pare difficile comprendere per chiunque in che cosa consista la bellezza, poiché ogni essere vivente ne sente in sé la forza, il talentuoso mio amico ne colse il senso riuscendo a trasferirlo nell’arte. Il bello si comprende perché ha un suo linguaggio, un’armonia celeste cui ogni anima è tenuta a rispondere. Una divina perfezione che l’uomo dispone per natura e lo spirito reclama in ogni cosa terrena e in Dio.

La sua riflessione aveva toccato anche l’Onnipotente, così come faceva sempre Raffaello prima di iniziare un’opera. Lo stimato pittore aveva dipinto per due grandi papi quali Giulio II e Leone X, mecenati e appassionati del sublime Sanzio di Urbino. Entrambi i pontefici avevano ben compreso l’ispirazione celeste della sua pittura che incantava i fedeli e l’invogliava nella preghiera.

Le prerogative ch’erano proprie di Raffaello, con quella calma e dolce espressione dei suoi dipinti era anche preziosa eredità della scuola del suo maestro, il Perugino. L’abilità di panneggiare, la meravigliosa freschezza del colorito e il genio trovava la forza in sé stesso posto in maniera con le sue ispirazioni.
Allo spirito umano occorrono condizioni speciali per sollevarsi al di sopra degli ordinari intelletti, per penetrare con l’arte nella vita di ogni esistenza, e questo riuscì alla perfezione al grande Leonardo da Vinci, a Michelangelo e al mio caro amico. Ma escludendo il genio indiscusso di Leonardo, tra il burbero Buonarroti e l’angelico Sanzio l’arte non era la stessa: il primo attraeva con la profondità del concetto mentre il secondo lo faceva con la fecondità delle idee. Della religione il toscano non conosceva altro che le paure e i tormenti sperando nella giustizia divina, al contrario del mio amico che invece ne faceva comprendere i valori e le gioie, prediligendone la misericordia. La potenza di Michelangelo nasceva dalla rassegnazione, mentre per Raffaello scaturiva dal suo cuore sereno e dall’elevata ispirazione dell’Altissimo.

Nel vergare quei fogli, Baviero si ritrovò in un vortice di sentimenti e idee; le riflessioni toccavano il suo cuore. La sua sicurezza era intanto cresciuta sino a diventare audacia.

Ma veniamo ora alla ragione del mio scritto e a questa storia romantica che non può esser più taciuta. Raffaello era persona molto amorosa e affezionata alle donne e ai diletti carnali, non era un mistero per nessuno e lui non lo negava. Le sue amanti furono molteplici e alcune di loro note ancor oggi come le cortigiane più belle che memoria d’uomo ricordi, come l’apprezzata Beatrice Ferrarese. Ma negli ultimi anni della sua vita, il suo cuore fu rapito da una giovane popolana. Questa abitava in Santa Dorotea in una casa d’angolo con le colonne di spoglio per sostegno e una finestrella a sesto acuto. Figlia di un fornaio, era conosciuta come la Fornarina e Raffaello se ne innamorò un dì che passando di lì la vide spazzolarsi i capelli. In uno stralcio di un suo sonetto le scrisse: che amor mi fece per mio grave affanno. Da allora divenne sua musa e grande ispiratrice.

La mano smise di scrivere, Baviero fissò il suo sguardo verso le candele non considerandole poiché troppo preso da quello che stava facendo. L’esitazione che stava provando in quel preciso istante era motivata e lui ne conosceva le origini.

Nonostante il mio talentuoso amico fosse promesso sposo a Maria, la nipote del segretario intimo del papa, il cardinale di santa Maria in Portico Bernardo Divizio da Bibbiena, Raffaello escogitò ogni tipo di espediente per rinviare il matrimonio. Uno di questi portava il nome della bella Fornarina: Margherita Luti. Al contrario dell’invidioso Vasari che mi considera un semplice aiutante del maestro Raffaello, così come ha infamato Margherita al pari di una prostituta, io ero il suo amico fedele, l’uomo di fiducia che faceva tutto per lui, sapeva qualsiasi cosa che lo riguardasse, ma soprattutto il custode del grande segreto. Raffaello e Margherita erano marito e moglie.

Come svuotato di un peso più grande di lui, Baviero tirò un lungo sospiro. Il suo viso cominciava a risplendere e la sua anima sembrò librare nell’aria.

Raffaello, dipingendo Margherita in tanti lavori l’ha sottratta al fluire corrosivo del tempo rendendola eterna. Lei è ancor oggi Galatea nella villa del banchiere Agostino Ghigi alla Lungara, è una delle sibille di Santa Maria della Pace, è anche il volto della Madonna Sistina e la donna ritratta nel capolavoro che si conosce col nome de La Velata. Ma io, testimone di tutto, non posso che confermare l’amore che provava Raffaello per sua moglie Margherita che nel segreto dei loro momenti più intimi, volle ritrarla nella tela dal respiro erotico che mai mostrò a nessuno e mai vendette: La Fornarina.

Un sussulto attanagliò Baviero che alzò la penna dal foglio rimirando lo scritto. Sapeva benissimo che di lì in poi avrebbe dovuto descrivere Margherita.

L’emozione percettiva che la bella fornarina trasmetteva era palese a chiunque. L’impalpabile luminosità che i sensi afferravano l’osservatore prima ancora degli occhi la rendeva profondamente diversa ed era giusto chiedersi a quale altro mondo lei appartenesse.
Una Venere seminuda che tentava di nascondere senza troppa convinzione i seni acerbi e ignudi con una mano, proprio sul cuore, lì dove risiedono i sentimenti e un velo trasparente a coprire il ventre. Una posa classica in un gesto di pudore che orientava lo sguardo di chi l’avrebbe poi ammirata. Vezzosa, lei s’era raccolta i capelli in un turbante orientaleggiante dal quale fuoriusciva dalla seta una piccola perla. Ma come tutte le opere del mio stimato amico, anche questo capolavoro parlava, affermando a gran voce, come se ce ne fosse stato bisogno, il nome della giovane ritratta: Margaritari che in greco significa giustappunto perla. Ma gli uomini hanno bisogno di simboli che accendono e nutrono la fiamma degli affetti in un vincolo amoroso che ne determini la verità e il mio caro amico Raffaello, non faceva eccezione. Lui, privilegiato dalla natura che l’aveva colmato di doti superiori ai comuni mortali, cedette alla tentazione di rendere inopinabile al mondo intero il possesso della sua donna cingendole sul braccio sinistro uno stretto bracciale blu e oro che recava la scritta Raphael Urbinas, ma non pago le disegnò all’anulare sinistro un anello nuziale.

Lo svolazzare di una grossa falena nei pressi delle candele, sospese lo scritto di Baviero. Lo prese come un avvertimento: aveva rivelato troppo o troppo poco?
La sera era oramai calata e la casa era immersa nell’oscurità; solo la fioca luce di quelle candele nello studio, filtrava il buio tutt’intorno. Le ombre smussavano gli angoli e il lieve baluginio si rifletteva sul viso stanco dell’uomo.
Baviero in quella piccola pausa prese a fissare oltre la finestra. Una falce di luna stagliata nel cielo per un breve istante lo fece sentire meno solo.

Nei giorni della malattia del maestro, fui costretto ad allontanare la bella Margherita. Col cuore distrutto lei, e col rimpianto io, la giovane moglie non poté assistere il suo sposo nel momento del trapasso. Il testamento del compianto Raffaello indicava precisi voleri e tra questi c’era un lascito per la Fornarina ch’io gestii personalmente. Ma a Margherita non interessavano i denari, ma solo l’amore perduto del suo sposo.
Alla sepoltura si procedette con grande sconforto di tutti, sulla sua tomba al Pantheon non v’è accenno alcuno a Margherita ma a quella Maria promessa sposa, nipote del cardinale di Bibbiena. Però Raffaello, mirabile in vita, ma provvidenziale nella morte, rese giustizia alla sua vera sposa. Ebbene è giunta l’ora che si riveli l’ingegno: la Madonna del Sasso che veglia sul sepolcro di Raffaello, la commissionò da tempo egli stesso a Lorenzetto, pretendendo che avesse il volto di Margherita per esser insieme per l’eternità.

Baviero rimase in silenzio, ponderando quando appena rivelato; poi, sorridendo e pensando a sé stesso, al suo ruolo in tutta questa vicenda, ritenne opportuno aggiungervi una riflessione e firmarsi; in fin dei conti il suo amico Raffaello lo avrebbe preteso.

È cosa buona disporre l’umanità al bene e incitarla a cose grandi aspirando a deliziare la vista e la vita, a credere nell’amore e ad apprezzare il bello in ogni cosa. Ma nell’uomo secerne anche il male e distruggere il buono che altri uomini riescono a produrre è pura viltà. Un’ombra residua torna a offuscarmi i sensi e la mente e vi raccomando, a voi che avrete l’onore di ammirare La Fornarina, di pensare a lei come la sposa di Raffaello anche se vili deturpatori hanno fatto sparire dal dito della bella Margherita l’anello che sanciva l’amore eterno per il suo sposo.

Messer Baviero de’ Carocci da Parma, pittore




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