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Sabrina Tonin 2022
LAGUNANDO 2022 > selezionati 2022
Nata a Cittadella residente a Tombolo
Visual designer vive e lavora tra il veneto e Budapest.
Amante della scultura, pittura, musica lirica e letteratura che pratica per diletto personale dal 2020.
Quando decide di partecipare a numerosi premi letterari riportando ottanta riconoscimenti.
Nell’anno 2021 pubblica quattro romanzi.

ORTI DEI DOGI
RACCONTI
BEYROUTH, LA NON SCELTA DI NADIA






La sua valigia era quasi più grande di lei, era di cartone plastificato, di un colore indefinito, tanto era logora e consunta, gli angoli erano rotti e non potrebbe essere stato diversamente, ogni giorno Nadia la toglieva dal baule della sua vecchia utilitaria e la trascinava in mezzo alla polvere della strada fino al negozio dove lavorava, nel quartiere di Hamra.
Nabil, il suo titolare, le aveva offerto di custodire la valigia nel retrobottega ma Nadia non se l’era sentita di accettare, in quella valigia c’era tutto quello che possedeva e non poteva rischiare di perderlo, preferiva trascinarla in strada, caricarla e scaricarla dalla sua vecchia utilitaria e tenerla accanto a sé.
Hamra non era lontana da casa sua che si trovava nel quartiere di Hazmieh, un quartiere molto popolato, situato in altura alle pendici del Monte Libano; se le strade fossero state percorribili avrebbe impiegato circa quindici minuti, erano meno di dieci i chilometri che separavano il grande palazzone dove viveva, o meglio, dove dormiva, dal negozio di Nabil.
Le strade però erano impraticabili, invase da macerie e toccava fare giri infiniti che si trasformavano in almeno un’ora di viaggio, per non parlare degli ingorghi che ogni giorno si formavano, da quando i semafori sono stati abbattuti.
Quando si fissava un incontro di lavoro non si diceva “Arriverò per la tal ora” ma “Parto alla tal ora.”
Il rientro a casa alla sera era ancora più lungo e
impegnativo, a ogni angolo di strada c’era un posto di
blocco e bisognava destreggiarsi come in una gimkana per evitare sbarre, macerie e male intenzionati che cercavano di fermare ogni automobile che passasse per depredarne il contenuto, ma Nadia non aveva paura, era un lusso che non poteva permettersi, ed aveva imparato a muoversi nel buio anche a fari spenti.
Il negozio di Nabil era grande, disposto su due piani, al piano terra vendeva abbigliamento per bambini che comprava in Italia ed in Francia, e al piano superiore vendeva tende.
Lui avrebbe voluto vendere solo cose sobrie e grandi firme, ma la clientela continuava a prediligere tende di rayon fluorescenti, adornate di pizzi e con le “mantovane” finemente decorate in oro e cristalli luccicanti.
Non parliamo poi dei vestiti per le femminucce che abbondavano di ricami, le sue clienti volevano il “vestito della festa” che doveva essere più ricco e prezioso di tutti gli altri, per i compleanni o le riunioni in famiglia per gli interminabili pranzi da trenta portate.
Nabil però insisteva nel tenere un reparto di cose sobrie, eleganti, all’italiana; era convinto che Hamra sarebbe diventata la zona elegante di Beyrouth, in fondo era la meno distrutta e quando la guerra fosse finita, sarebbe risorta.
Nadia non la pensava come Nabil che era un inguaribile ottimista, lei attraversava la città due volte al giorno e vedeva le cose che cambiavano, quartieri che prima erano abitati da cristiani maroniti ora erano abitati da mussulmani e viceversa, qualche volta addirittura un lato
della strada occupava palazzoni abitati da famiglie mussulmane e al lato opposto si istallavano i cristiani, e non è tutto qui, Nadia incontrava posti di blocco siriani, altri dell’OLP, altri di El Fath, altri degli Hezbollah, il Libano era sconvolto da una guerra civile.
Nabil diceva che le Guerre Civili duravano tre anni come in Spagna, presto tutto sarebbe finito e il Libano sarebbe tornato ad essere la Svizzera del Medio Oriente.
Succedeva che a qualche posto di blocco non si passasse, così Nadia trovava ospitalità in qualche casa di conoscenti lungo la via o dormiva in macchina con la sua valigia.
La guerra durava già da tre anni e non sembrava volgersi al termine come presagiva Nabil, anzi, i bombardamenti erano sempre più frequenti e pesanti.
Nessuno si azzardava più ad addentrarsi nel quartiere vicino al mare dove un tempo sorgevano gli Hotel più esclusivi come il St George, dai palazzi fatiscenti i cecchini sparavano su qualunque cosa si muovesse e si diceva che sparassero ai ratti che erano diventati enormi perché si cibavano dei cadaveri ai quali nessuno era riuscito a dare sepoltura.
Come erano lontani i bei tempi in cui la città era un immenso giardino, le vie brulicavano di bella gente elegante, i locali erano aperti tutta la notte e la gente per strada sorrideva.
Quando il caldo dell’estate diventava opprimente, Nadia si spostava a Jouny, la spiaggia preferita dalla gente che contava, oppure proseguiva verso il confine con la Siria, la terra di sua madre, dove sulle alture si stagliavano cedri maestosi e l’aria era fresca.
Nadia aveva studiato e viaggiato in Europa, oltre all’arabo e al francese che erano le lingue ufficiali del suo Paese, parlava bene l’inglese e l’italiano, era una ragazza colta ed era molto bella, sul suo viso olivastro incorniciato da foltissimi capelli neri e ricci si stagliavano due profondi occhi neri, si poteva ben dire che era una splendida ragazza.
Sognava Nadia, sognava come tutte le ragazze della sua età, di incontrare il Principe Azzurro, un bel ragazzo biondo con gli occhi chiari, come non se ne vedevano dalle sue parti se non nei film.
E un giorno lo aveva incontrato il suo Principe Azzurro, era successo dopo la fine della Guerra Civile che non aveva visto nessun vincitore, a governare il Libano erano organizzazioni internazionali neutrali che avevano ottenuto soltanto il ritiro delle truppe israeliane.
Tra queste organizzazioni di “Pace” c’era anche l’Italia che aveva inviato quattromila soldati nella base di Naqura, sul mare, nel Sud del Paese.
L’ambasciata italiana cercava traduttori italiani e a Nadia era sembrata una buona occasione, così si presentò tra tanti altri aspiranti, tutti uomini.
Il Comandante della base tentennò un po’, preoccupato di quali sarebbero state le reazioni dei suoi uomini, ma poi l’assunse insieme ad altri cinque traduttori.
I cinque uomini prescelti si sarebbero stanziati nella base dell’UNIFIL mentre a Nadia sarebbe stato assegnato un compito “culturale”, avrebbe accompagnato gruppi di soldati a visitare i luoghi di interesse culturale nei giorni di libera uscita dei militari.
La prima uscita fu una già calda domenica di fine marzo, la meta era Byblos, un borgo di pescatori a nord di Beyrouth.
Erano saliti in dieci compreso il guidatore e Nadia su un Torpedo blindato ed erano partiti di buon mattino.
Arrivati al mare avevano fatto il bagno a turno in modo che qualcuno di loro fosse sempre armato e pronto ad intervenire in caso di attacco, la guerra era finita ma ancora non c’era la pace e succedeva che ci fossero degli agguati o che qualche camionetta saltasse per aria su una mina.
Nadia si affannava a raccontare la storia di Byblos, delle sue rovine, degli antichi Fenici che da quella spiaggia erano partiti per le loro conquiste e della porpora che si diceva fosse nata proprio lì.
I soldati l’ascoltavano per un po’ ma erano attratti dal mare e dal gioco del pallone sulla sabbia.
La cena era pronta un po’ in anticipo e piatti traboccanti di pesce arrostito erano disposti su lunghi tavoli di legno, ci si doveva affrettare, la strada del ritorno era lunga e la comitiva doveva rientrare.
Il sole cominciò il suo viaggio verso la notte e scese verso il mare come una palla di fuoco rosso che si immerge per spegnerlo, Nadia disse “Ecco, per questo è qui che fu inventata la porpora, perché qui il sole diventa un fuoco”, e mentre lo diceva nei suoi occhi si rispecchiava la grande palla infuocata.
Un ragazzo, Enrico, alto, biondo e con gli occhi azzurri mise due pesci in un piatto, si avvicinò a Nadia e la prese per mano per condurla al lambire delle onde.
Si sedettero e mangiarono i pesci con le mani, bevvero vino bianco fino a finire la bottiglia, Enrico si sporse verso Nadia che lo credette il Principe Azzurro ed accettò il suo bacio.
Era stato così che Nadia aveva conosciuto quello che sarebbe diventato il padre delle sue bambine, Gabriella e Camilla, nate ad un solo anno di distanza una dall’altra.
Gabriella aveva i colori di sua madre e Camilla quelli di suo padre, erano entrambe bellissime, Gabriella era nata con una forma di asma importante ed era gracile, Camilla era sana e piena di vita, Gabriella prediligeva parlare in arabo e Camilla amava l’italiano.
Erano passati solo quattro anni da quando gli occhi di Enrico si erano tuffati in quelli di Nadia, quando il Libano fu nuovamente scosso dalla Guerra e questa volta Nadia non voleva affrontarla, aveva vissuto tre anni di inferno, sempre con la valigia pronta, non se la sentiva adesso che aveva due bambine da salvare.
Supplicò Enrico di lasciare l’arma e andare tutti in Italia, Enrico amava la vita da militare e voleva restare ma la paura che leggeva negli occhi delle sue figlie alla fine lo fece decidere e la famigliola partì per l’Italia.
All’inizio furono accolti in casa dalla madre di Enrico che per un po’ accettò la situazione ma la convivenza in un piccolo appartamento della Bergamo alta era difficile e ben presto erano nati i primi screzi.
Enrico era combattuto tra la moglie e le figlie da una parte e sua madre dall’altra, non sapendo verso chi propendere scelse di fuggire e tornare a fare il militare, questa volta in Kossovo, dove era in atto un’altra guerra fratricida.
Una volta partito lui, sua madre mise alla porta Nadia e le bambine che si videro costrette a tornare in Libano in piena guerra.
Si sistemarono nella casa della madre di Nadia dove già vivevano le due sorelle ed i loro figli, dividendo gli angusti spazi e dormendo in tre per ogni letto.
Nadia aveva trovato lavoro da Nabil e tutti i giorni andava ad Hamra con la sua valigia nel bagagliaio, tutto era tornato come prima.
Un maledetto giorno arrivò una lettera dal Kossovo, Enrico scriveva che si era innamorato di una ragazza del posto e che non sarebbe mai tornato a prenderle.
Nadia ammutolì fissando il muro davanti a sé, Gabriella scoppiò in singhiozzi e le prese un attacco d’asma così forte che ci vollero due iniezioni per farla respirare, Camilla sentenziò: “Sono italiana e tornerò in Italia.”
Di Enrico ebbero notizie molti anni dopo quando l’anziana madre scrisse che era morto per un tumore al fegato e che non aveva lasciato nulla, la notizia aveva lasciato indifferente Nadia che ormai si era rassegnata a vivere solo per le sue figlie.
Anche questa seconda guerra ebbe fine lasciando distruzione in ogni via, la guida del Paese fu assegnata ad un mussulmano sotto il controllo della Siria e pian piano sembrò che il mondo riprendesse la sua corsa.
Gabriella e Camilla erano cresciute, grazie all’Ambasciata Italiana avevano potuto studiare e laurearsi, Gabriella lavorava in un ufficio della Base Unifil e Camilla era diventata medico, era una virologa geniale ed aveva ottenuto una borsa di studio per perfezionarsi all’Ospedale Spallanzani di Roma, dopo la specializzazione si era trasferita a Bergamo dove viveva una sorella di suo padre che non aveva figli ed era diventata primario del reparto di infettivologia di Bergamo.
Dopo lunghe insistenze aveva convinto sua madre a raggiungerla, Nadia era restia, ma Gabriella ormai viveva a Naqura, nei pressi della Base italiana, sua madre era morta e lei stava invecchiando, alla fine partì per l’Italia.
Di giorno passeggiava per la città, ogni tanto prendeva in treno ed andava a Milano ad incontrare vecchi amici libanesi, la sera preparava le pietanze libanesi di cui Camilla era ghiotta, cucinava montone, tabule e dolci di mandorle e miele, la notte la trascorreva insonne a pensare alla sua vita infelice.
Una sera Camilla tornò tardi e molto stanca, non volle mangiare e raccontò a sua madre quello che stava accadendo, in ospedale erano arrivati i primi casi di una terribile polmonite virale, prima due persone, il giorno dopo altre sei, quello appresso venti, e ogni giorno si moltiplicavano a dismisura.
Camilla e i suoi colleghi si sentivano impotenti, non riuscivano a curare i malati che morivano davanti ai loro occhi non trovando più il respiro.
Mentre Camilla parlava, Nadia pensava a Gabriella e alla sua asma, rivedeva gli occhi pieni di terrore della sua bambina quando non riusciva a respirare e pensava al terrore dei pazienti di Camilla.
Dopo qualche giorno, Camilla non tornava a casa, rimaneva in ospedale giorno e notte per soccorrere le centinaia di malati che arrivavano e disperandosi nel non poter fare nulla per loro.
Una sera Nadia si era affacciata alla finestra, sperando di vedere la sagoma di sua figlia che rientrava a casa, ma aveva visto spuntare dalla curva in fondo alla via un mezzo militare, lei li conosceva bene, ne aveva visti tanti in Libano, ma dopo il primo ne arrivava un altro e un altro ancora, una fila interminabile di camion militari.
Per un momento pensò alla guerra ma subito dopo si disse che non era possibile, era a Bergamo, non era a Beyrouth.
Invece era una guerra, una guerra contro un virus subdolo, e quei carri portavano le salme dei morti verso i cimiteri.
A Nadia la gola si serrava e il cuore sembrava comprimersi nel petto, tutta la vita aveva cercato di sfuggire al dolore e alla morte e ora assisteva impotente come tutti al dilagare di un nemico sconosciuto, a Beyrouth sapeva quali quartieri evitare, in quali ore uscire, quali persone doveva evitare, ma ora era in balia del suo terrore, pensò alla sua valigia e corse a prepararla.
Lentamente la pandemia cessò, ci vollero mesi e mesi nei quali Nadia aveva avuto il tempo di riflettere su quella che era stata la sua vita, su quelle che erano state le sue scelte che l’avevano portata su una strada o sull’altra.
Aveva agito bene o aveva sbagliato?
Quale era il consuntivo della sua vita ora che si avviava verso la fine della sua vita?
Aveva fatto abbastanza o si era fermata a guardare l’evolversi degli eventi senza agire?
Arrivò una lettera di Gabriella, la situazione in Libano era drammatica, il Paese era impoverito inverosimilmente, la pandemia era imperversata uccidendo decine di migliaia di persone, non c’erano soldi per fornire gli ospedali di attrezzature idonee, Gabriella era terrorizzata, la sua asma era un handicap pericoloso, se avesse contratto il virus sarebbe stata destinata a sopperire.
Nadia rispose cercando di convincere la figlia a raggiungerla in Italia, ma non ci fu nulla da fare, Gabriella si sentiva libanese e aveva deciso di restare nel suo Paese.
Fu Nadia a scegliere e a tornare a Beyrouth e quello che l’aspettava era desolazione, stenti, povertà e morte, il suo amato Paese, il Paese dei cedri non aveva più nulla a che vedere con il giardino che era stato un tempo.
I medicinali di cui Gabriella necessitava erano diventati introvabili già dall’autunno precedente, ed era Camilla a mandarli dall’Italia, il carburante scarseggiava e Gabriella poteva recarsi alla Base Unifil dove lavorava e che era lontana cento chilometri dalla città grazie ai rifornimenti che le facevano alla Base.
Andò ad abitare in un quartiere nei pressi del vecchio porto e Gabriella la raggiungeva ogni fine settimana, passeggiavano lungo il mare e quando c’erano i soldi si fermavano a mangiare un po’ di pesce.
A Nadia piaceva uscire di buon mattino, non appena Gabriella partiva per Naqur, le piaceva camminare sul lungo mare che dalle sue finestre non si vedeva perché a impedirne la vista c’erano enormi silos, più alti dei grattacieli.
Erano stati costruiti nel 1970 da un Fondo kuwaitiano e potevano contenere 105.000 tonnellate di grano, la capienza fu poi ampliata fino a 120.000 nel 2007, erano i più grandi di tutto il Medio Oriente ed erano dotati di sofisticati meccanismi che permettevano lo scarico da qualsiasi mezzo.
Nel 2013 il Governo decise di stoccare 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio che era stato sequestrato ad una nave il cui armatore era fallito e che dopo anni di permanenza nel porto stava per affondare.
Il pomeriggio del 4 agosto Nadia era rientrata in casa, il caldo era asfissiante e aveva aperto le finestre, aveva visto incendiarsi l’Hangar numero 3 e aveva sentito le sirene dei pompieri.
Rimase alla finestra finché l’incendio sembrò essere domato quando esplose l’Hangar numero 12, quello che conteneva il nitrato d’ammonio.
Vide un enorme fungo rosso rame e poi una palla di fumo bianco che l’avvolgeva, mentre i vetri delle finestre andavano in frantumi e il grattacielo tremava come in un terremoto potentissimo, in breve l’aria si era fatta irrespirabile, si toccò il viso sanguinante e cercò il telefono per avvisare Gabriella di non fare ritorno perché con la sua asma non avrebbe potuto respirare in mezzo a quel fumo, ma le linee erano interrotte.
Scese in strada, ovunque c’erano morti e feriti, si contarono più di duecento vittime e oltre settemila feriti, nemmeno durante le guerre aveva visto una cosa simile.
Più di trecentomila persone, un terzo della popolazione rimasero senza un tetto sulla testa.
Nessuno aveva più intenzione di aiutare il Libano, nessuno si fidava più dei governanti che avevano condotto negli ultimi trent’anni in Paese al baratro.
Ci vollero più di due settimane perché venissero ripristinate le linee telefoniche, non c’erano rifornimenti di cibo, medicinali, carburante.
Camilla riuscì a parlare con qualcuno dell’Ambasciata italiana e riuscì a mettersi in contatto con sua madre e sua sorella, le supplicò di raggiungerla in Italia, avrebbero provveduto i militari della Base a trasportarle con un aereo speciale non appena fosse stato possibile, ma Gabriella non voleva lasciare il suo Paese per niente al mondo.
Implorò sua madre di partire almeno lei, laggiù rischiava la morte per fame o per una nuova guerra, o per una recrudescenza della pandemia che non sarebbe stato possibile affrontare per mancanza di medicinali, le intimò di fare una scelta tra la vita e la morte.
La risposta di Nadia non si fece attendere:
“Ho scelto di restare a Beyrouth, non scelgo tra la vita e la morte, non scelgo tra la fame e la tavola imbandita, scelgo la mia dignità di cittadina libanese, scelgo il diritto di vivere nel mio Paese, scelgo di lottare per la libertà.
Sono stata debole per tuta la vita, incapace di una scelta, ma ora sono forte e scelgo di stare con il più debole e il più debole è Gabriella, resterò al suo fianco a combattere o a soccombere, ma lo farò consapevole di aver fatto la scelta giusta perché nella vita abbiamo tutti una possibilità di riscatto, una strada per uscire dal guado, un motivo per cui tentare di continuare a vivere.”
Questo è stato il testamento di Nadia dai profondi occhi neri che guardavano oltre il mare, di Nadia che non aveva mai scelto lasciando che la vita scegliesse per lei.






















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