Cristina Lora
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Nasce a Valdagno, 1969, dove vive e lavora nell’ufficio di segreteria del Sindaco. Dopo aver conseguito il diploma di ragioneria, si è laureata in economia aziendale a Ca’ Foscari. Cristina non riesce a star lontana dalla vita. Cerca assiduamente il contatto con la natura rigogliosa che la circonda, dove ama correre tra i boschi, e con le emozioni delle persone che incontra quotidianamente, portatori di storie che diventano spunto per le sue opere liriche e in prosa. Scrivere non è il suo mestiere, bensì una passione nata dal desiderio di dar voce a esistenze che spesso si ritrovano a non averne e che le ha portato numerosi riconoscimenti letterari (oltre cento). E' autrice del romanzo "Figli di un unico blu".
Ha già partecipato alla edizione:
TERZO CLASSIFICATO RACCONTI
IL CIELO HA BISOGNO DI LEGGEREZZA
Fisso la tua foto profilo. Sì, hai capito! Proprio quella appiccicata sulla tua pagina di Bianco Carrara.
Ti sto prendendo in giro? No! Dai, lo sappiamo entrambe che sei social, pure al cimitero, fai filò anche coi morti!… Come hai detto? Ok! Ok! Ciatti anche coi morti.
Sì, ciatti l’ho scritta con la ‘i’, ma ora sta un po’ zitta e fammi continuare.
Ti osservo e noto che il mio naso è sempre più somigliante al tuo. Non è perfetto, ma a te pepava il fascino ancorché sciallato dalla morte. La fronte alta, ecco un altro tratto che ci accomuna e di cui vado fiera ripetendo le tue parole: ”la xe segno de inteligensa”.
Ma è la libertà ciò che ci rende davvero uguali: so quanto ti manca dentro alla bara; sono sicura che stai rincorrendo anche nell’oltretomba il ‘sale’ con cui hai insaporito la vita. Lo starai cercando esattamente come quando non lo trovavi tra i barattoli della dispensa, non perché tu fossi rimbambita, bensì perché te lo rubavo io, amante del condito quanto te.
“Sacramentola! Dove go meso el sale? A son orba, go da cambiarme i ociai”.
Ti arrovellavi in quel dialetto che spesso soltanto tu sapevi comporre, per poi correre in bagno a lavarti ‘i oci’ sperando di trovare quei granelli bianchi che a manciate abbondavano ‘a dar gusto a la tecia’.
“Eco! Vedito che lo go trova’”.
Ti convincevi che il lavaggio degli occhi aveva funzionato, ignara del fatto che finché te ne eri andata in bagno io ero sgattaiolata in cucina per restituire la ciotola nella quale avevo, fino a poco prima, affondato le dita per accontentare la mia lingua.
Divenne comunque una necessità (o una buona scusa, quantomeno estetica) cambiare quegli occhiali che poco si abbinavano alla tua pelliccia di visone. La pelliccia! Un capo di abbigliamento irrinunciabile. Hai rotto le scatole così tanto a tutti noi che mamma te la procurò tramite un’amica. Morbida ed elegante, fasciava il tuo corpo da mannequin mentre ti deliziavi a indossarla con quel cappello che periodicamente aggiungevi alla tua collezione. Amavi il bello, amavi il nuovo, il moderno, esattamente come la camera da letto che in principio della tua vedovanza sostituisti a quella che oggi eufemisticamente definiremmo ‘arte povera’ e che tu, spiccia e semplice, etichettavi con ‘vecia’. Il biondo mobilio rinnovò la tua stanza da single, illuminando le porte dell’armadio con ampi specchi: adoravi la scaltra bellezza che essi conservavano di te, eco di una giovinezza anticonformista e sfrontata.
Ma andiamo con ordine.
Celestina (come poteva starti attaccato un nome tanto sbiadito?!), classe 1920, nata sotto il segno del capricorno, ‘carattere forte’ di cui ti vantavi!
Eri una bella donna e questo fu il principio di tutto. O forse la fine!
Gli anni ‘30 rincorrevano il periodo prebellico quando la pubblicità dilagante di un basco in lana, una camicia con cravatta abbinata, una gonna plissettata e sorretta da una cintura nera in tinta con calze e delle décolleté basse accalappiarono la tua ambizione, sguinzagliandone la geniale follia. Poco ti importava di simboli e stemmi appiccicati qua e là; di politica non capivi ‘un figo seco’ (sempre per parlare nella tua lingua) e, pur di rifarti il guardaroba a tasso zero, non reputavi un problema voltar le spalle alle Beniamine per iscriverti alle Giovani Italiane arruolate da Mussolini. ‘Lustrà a novo’ la tua esuberante bellezza irruppe in casa, mettendo a soqquadro il credo antifascista di tuo padre che non esitò a lavorar di forbici: la condannata divisa prese la forma delle lasagne che tua madre stava affettando sul tagliere; la gioia sparì dai tuoi occhi assieme a quell’outfit che ti era costato una semplice firma (... ‘firma’? ‘X’! Lo sappiamo entrambe che i tuoi dieci in pagella erano indisciplinati quanto te: esentata da compiti e interrogazioni, e pure dall’esame di quinta elementare, avevi accettato la vantaggiosa proposta della maestra di accudire sua figlia in cambio di una votazione da ’secia’).
Con la chiccosa divisa, le Nazionali Semplici sul filo delle labbra, i grappini abusivi infilati nello stomaco e il tuo fascino impertinente, speravi che Cupido colpisse i desideri di qualche maschietto. Il tuo piano era fallito: ridotto a fettucce, del tuo vestito tua madre fece l’imbottitura di un cuscino e tu fosti costretta a nascondere la tua azzardata femminilità dentro indumenti di seconda mano, chiusi da ‘’na gucia de sicuresa’ per boicottare la ridondanza della taglia.
Ma la tua fantasia era dilagante quanto la tua ostinazione e di “piani B” ne avevi una riserva.
Eri vivace, bella e i giovani che ti incrociavano raccoglievano l’ambizione che seminavi come briciole di Pollicino. E questo a tuo padre non piaceva: insisteva con le forbici sui cappelli che acquistavi svuotando la tua busta paga; bruciava quei rossetti che risaltavano sulle tue labbra. Ti fece abbassare la testa svergognata come una donna dai malsani costumi. I tuoi occhi si aprirono laddove si chiudevano le punte dei tuoi zoccoli.
Gli zoccoli! Quegli orrendi pezzi di legno da poverella che eri costretta a calzare per non consumare le scarpe non erano di certo ‘miele par i moscuni’. Ma le ‘xenocele’ spaccate di nascosto a botte secche e denti stretti ‘le te tornava bone par convinsare to mama’ che i tuoi piedi delicati dovevano vestire morbide scarpe in stoffa. Te le concesse quelle stringate dai toni borghesi e tu divenisti abile nel non consumarle: i passaggi in bici scroccati all’ingenuo di turno, giusto per far ingelosire ‘quello’ che ti piaceva tanto, le conservavano integre.
Eri maestra di astuzia e di gelosia e ora si iniziava a ragionare! La fronte alta funzionava per davvero.
E quei poveri illusi che ti scorrazzavano sulla canna della bici? Come li accontentavi?
Ah già, dimenticavo … ci pensava la ‘pegola’: ne bastava una spalmatina sulla sedia del malcapitato di turno che, nel congedarsi dai tuoi dopo una bella sviolinata amorosa, rimaneva in mutande sotto gli occhi della famiglia, cedendo i pantaloni al collante sul quale era seduto fino a poco prima.
Tremenda! Eri tremenda e stupenda! La gajarda ‘nonna jet’ di qualche generazione dopo.
Fu Bepin a porre pace alla disperazione di tuo padre: un buon partito con il posto in fabbrica e la testa sulle spalle. Astuto quanto te, ignorò i corteggiamenti proponendosi al futuro suocero come tuo sposo e tu, fregata dalla minore età, dovesti scegliere di maritarlo per non finire al convento delle canossiane.
Nel maggio del 1938 annodasti la tua esuberanza all’anulare sinistro. Quel matrimonio stringeva i tuoi 18 anni come l’ago di sicurezza che da bimba ti teneva salda alla ‘traversa de la monega’ della colonia estiva: al ‘collegio’ non ci volevi stare. Scappavi! Libera, lontana dalle regole.
Sei stata devota a tuo marito come lo sei stata a Dio e al prete tuo amico, con il quale avevi stretto un patto in vista della morte e che imponeva a entrambi un aggiornamento costante sul proprio ‘stato in vita’. Senza dubbio il patto lo hai proposto tu! A piedi nudi non ci saresti andata nemmeno al Creatore. Chissà quale metafisica costruzione hai architettato quella volta, ma certa che ‘l’oio dei morti’ te lo avrebbe dato lui, lo hai ingaggiato a metterti le scarpe ai piedi dentro la bara. Ovviamente, in cambio tu avresti fatto altrettanto. E così facesti. Sei morta per seconda, ma ti assicuro, le tue morbide scarpe in pelle sono ai tuoi piedi anche ora.
Eravate ‘buseta e boton’, ma il pepe ce lo mettevi sempre tu, anche quando, generosa di provocazione, gli chiedesti l’annullamento del tuo matrimonio in quanto ‘rato e non consumato’ (penso fosse una delle poche frasi in italiano che tu riuscisti a pronunciare, afferrata durante un pettegolezzo e ignara del suo significato). Fu sonora la risata del sacerdote che riconosceva in quelle parole il tuo sottendere burlone e falsamente blasfemo riguardo al “non consumato” mentre reggevi i tre figli aggrappati al tuo vestito, ‘promosa de tornar casa da Bepin, bon come el pan’.
Sì, insomma, i tuoi spazi li hai sempre difesi, trincerata nella tua libertà, e Giuseppe ti voleva così bene che in quel ‘bene’ accettava anche la tua esuberanza che trovava sfogo, anche da maritata, nell’arte culinaria.
I ‘rosti de osei’! Eccoli lì, quelli erano la tua passione. Detta così, nel corrente millennio, rischieresti grosso di fronte al dignitoso rispetto che il mondo ha per ogni forma di vita. E non nego che anch’io li preferisco liberi a cinguettare nel bosco quei poveri pennuti con i quali deliziavi, in alternativa ai ‘corgnoi’, gli avventori della trattoria. Ma in fondo era il tuo lavoro. Gestivi ‘La Rueta’, ancor’oggi nota in paese, e il ‘girarosto’, dove cuocevi la carne facendo ballare il grasso nella ‘lecarda’ della polenta, la tua creatura preferita. Di sale, di olio e di burro facevi il tuo mantra, contrariamente a ciò che, oggi, ogni sano principio consiglierebbe, ma nel dopoguerra povertà e fame dei periodi precedenti ammettevano prosperosi piaceri culinari.
Parlavamo di ‘corgnoi’: le lumache. Sì, pure quelle cucinavi dopo averle raccolte nei giorni di umidità tra i boschi assieme ai funghi. Non oso pensare alla fine di quei poveri molluschi, piacere del palato di chi li mescolava alla polenta calda. E non oso nemmeno pensare all’acqua di cottura che facevi bere a tuo marito perché toglieva il catarro. Un rimedio naturale sicuramente efficace, ma che schifo!
I boschi erano il tuo forte e nei boschi mutavi con l’abilità di un camaleonte la tua dolcezza domestica in indomito selvatico. Come poteva immaginare quel prete capo-campo (ignaro della tua rapida sfrontatezza) che nel chinarti per raccogliere porcini e ‘corgnoi’ si sarebbe tirato la zappa sui denti invitandoti a indossare una femminile gonna anziché delle ‘braghe de fustagno’? Lo accontentasti. Cambiò subito idea in quel (bel) vedo e non vedo tra gli svolazzi della gonna che stava facendo strisciare qualche “lumacone” in più.
Tra un millennio e l’altro sei passata da mamma a nonna e dunque a ‘Bis’, come ti coniò velocemente mio figlio: un Generazione Z che aveva già deciso per gli shortener prima ancora di conoscere le parole intere. Indossavi quel soprannome come l’acqua di colonia che ingentiliva la tua pelle quotidiana: ‘nonna’ puzzava di vecchio, ‘bisnonna’ di andato e quando Alessandro chiudeva al raddoppio in un ‘Bis, Bis’ ti perdevi dentro un brodo di giuggiole. E poi, ti ritrovavi allieva tra l’abbiccì di mia figlia che non voleva lasciarti partire per il Paradiso incapace di leggere e di scrivere. Mai avrebbe accettato che tu seguissi indicazioni sbagliate.
Avrei voluto saperti giovane adesso, con il tuo estro da “cuoca in TV”, con la sigaretta elettronica sulle labbra, salutista del ventunesimo secolo; indaffarata vegetariana a inventare piatti di curcuma e tofu, chef retrò a impastare tagliolini all’uovo per condirli con funghi e grana; godereccia amica in uno spritz tra i tavoli degli happy hours, disegnando il bordo del bicchiere con l’impronta del tuo rossetto; sfrontata seduzione a stendere maschietti ‘imbambolati’ al tuo passaggio, libera e un po’ libertina a flirtare per le vie del paese. Avrei voluto vederti social tra Instagram e Tik Tok perché Facebook sarebbe stato ‘da Boomer’ per te, anziché guardare negli occhi, seduta sull’altro angolo della stalla, la tua sorte decisa nel sorgere del ‘900.
Ma ti preferisco nonna, ‘Bis’ dei miei figli a contare i giorni che mancavano a Natale, partendo già dal 26 dicembre; a preparare la mancia per i pronipoti e chiudere la sera del 25 con un classico del tuo repertorio:
“Xe pasa’ anca l’Natale”.
Ti preferisco parte del mio naso imperfetto e della mia fronte alta, attaccata alla libertà come lo sono io.
Eri fanciulla, nonna, tra le ultime battute delle tue palpebre, avvolta dalla poltrona nella coperta sulle gambe; felice per il nostro cane accucciato nei tuoi giorni dei quali avvertiva la velocità. Eri ‘figlia’ in quel pannolone che mamma ti metteva prima di dormire e che tu toglievi perché non apparteneva alla tua bellezza over novanta. Eri incontinente, ma strideva col tuo dialetto quella parola complicata da sopportare. La malattia ti aveva resa incapace di deglutire, ma non di nutrirti attraverso l’amore di quell’uomo che, per ultimo, si prese cura di te: papà, tuo genero, che ti teneva attaccata alla vita, quella tua, spiccia e leggera quanto il tuo modo di viverla.
E tu non provavi vergogna.
Lo sentivi alleato assieme a mamma nell’incedere dell’affanno in quel letto d’ospedale a pochi giorni dal Natale quando li volevi entrambi a tutti i costi accanto a te, perché sapevi che te ne stavi andando e non potevi farlo senza aver ‘comandato’ l’ultima richiesta che importava al tuo cuore.
“Grazia, Sandro - uscì il medico dalla stanza della rianimazione - venite, Celestina chiede insistentemente di voi. Potete entrare tutti e due, la testardaggine di questa donna sfida anche le regole”.
I tuoi occhi ripresero forma nel vedere mamma e papà vicini al tuo letto.
“Vegni qua!” - non avevi mollato il tuo modo ‘imperativo’ di impartire i desideri e nemmeno il tuo anello di granata incastonato nell’anulare. Sposa del bello fino alla fine.
“Tra ‘na stimana xe Natale. Parecie’ le buste par i nevodi. Ghe scrivì i nomi fora e ghe metì un biglieto dentro con scrito ‘Buon Natale dalla Bis’; tolì el me bancomat e preleve’ sinquanta euro a testa. Ma dovì prometarmelo”.
Mamma e papà inghiottirono l’ombra della morte che già si rifletteva sul tuo corpo assieme al groppo che avevano in gola:
“Sì, ghe pensemo noialtri”.
Non rimaneva altra forza alla tua mano, altro pensiero se non quello di chiudere le buste con le mance per i tuoi pronipoti.
E ancora una volta ti fisso nella tua foto profilo e sorrido per la tua sfida all’epoca del ‘proibito’. Ora vai nonna, tieni stretto il tuo nome che lassù contamina libertà, anima il Paradiso.
Il cielo ha bisogno di leggerezza.