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Concorso Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa inedita
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Daniela Mainardi
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Fin da piccola leggo di storie lontane che parlano di relazioni dalle sfumature variegate. La consapevolezza che le relazioni costituiscono il cuore pulsante della mia vita mi ha spinto a condividere il mio stato d’animo attraverso i miei scritti. L’importanza dei legami interpersonali e l’ispirazione che traggo dai miei viaggi per il mondo fanno da sfondo ai miei racconti, alcuni dei quali hanno ricevuto riconoscimenti da prestigiose Giurie Nazionali e Internazionali. 2020 Romanzo d’esordio “Il Mappamondo dei legami” Autopubblicazione Lulu.com 2022 Romanzo “Nessuna distanza è troppo lontana” Autopubblicazione Lulu.com 2023 Raccolta di racconti “Frammenti di Vita, un Viaggio attraverso l’animo umano” Autopubblicazione Amazon kdp
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Bolle nell’acqua, parole nel vento








Il giorno del mio tredicesimo compleanno tornavo a casa con un pesciolino rosso di nome Sushi.
Era l’inizio dell’estate. Il sole entrava dalla finestra della mia camera con dita lunghe e dorate disegnando figure geometriche arrotondate sul pavimento. L’aria sapeva di buono, di terra calda e di lavanda, quella che la mamma metteva nei cassetti insieme al bucato che era asciugato al sole. Nonostante fosse il mio compleanno, non mi sentivo tanto felice.
Sushi era un piccolo pesce rosso che galleggiava in una boccia di vetro. Lo osservavo, nuotava piano ed esplorava ogni angolo del suo piccolo mondo. Qualche volta si fermava e anche lui mi osservava. Forse capiva il mio stato d'animo. Mi sentivo confuso, mi sembrava di essere diverso, che qualcosa fosse cambiato. Magari era solo una sensazione, la consapevolezza che, crescendo, certe magie si allontanano piano, senza farsi notare.
Sul balcone, il caldo faceva tremolare il ferro della ringhiera. I gerani della mamma sembravano assetati, come beduini persi nel deserto, si erano accartocciati in cerca di un po’ di fresco.
Guardai in basso e vidi un uomo seduto in mezzo all’ombra del cortile, come se il sole si fosse dimenticato di lui. La camicia era scolorita, le sue dita accarezzavano leggere la schiena di un gatto nero che si era acciambellato sulle sue ginocchia. Guardava un punto indefinito, i suoi occhi erano in silenzio come il vento quando smette di parlare. Si chiamava Attilio.
Attilio mi raccontava le storie dei suoi ricordi. Le parole avevano l'odore della sua officina, della colla da falegname, del pane fresco appena sfornato.
Ogni pausa era un respiro che pesava. E io lo ascoltavo, tutto il mio corpo lo ascoltava, le mie gambe, le mie mani e perfino le mie dita lo ascoltavano.
Mi parlò di sua moglie e di quanto le piacesse ballare, della sua risata che si confondeva con la musica. Mi raccontò di quando se n'era andata, del silenzio che, da quel momento, era entrato nelle sue ossa. C'era voluto del tempo per Attilio per trovare ancora la voglia di parlare, aveva incominciato con il suo gatto nero, Zenzero e lui, in cambio, gli aveva insegnato come restare vivo, anche da solo.
Ogni pomeriggio Attilio mi preparava una sedia, vicino alla sua. Avrei voluto dirgli qualcosa ma non trovavo le parole, allora restavo lì, il mio silenzio vicino al suo.
Un giorno portò un piccolo giradischi portatile, i colori sbiaditi dal tempo.
Le note erano malinconiche, la musica era lenta, forse francese. Attilio mi disse che, quando ascoltava quella musica, sua moglie tornava a vivere, solo per qualche attimo, sentiva ancora il profumo dei suoi vestiti e della sua risata, viva e piena.
"Attraverso i ricordi" sussurrò abbassando lo sguardo "le persone che amiamo restano con noi, ma bisogna condividerli, altrimenti si consumano.”
Con il tempo Attilio imparò a raccontarmi molte cose, mi parlò della sua paura di non avere più nessuno ad aspettarlo, poi guardandomi serio mi disse:
"Ma ora tu mi aspetti, vero?"
Anche in quell'occasione non seppi cosa rispondere, misi la mia mano ancora ingenua dentro alla sua, ruvida e vissuta. Insieme, come strumenti dello stesso concerto, guardammo il cielo, era color pesca e le rondini disegnavano curve alte sopra ai tetti.
Il sole batteva sul viso di Attilio e le rughe sembravano canyon incisi dalle stagioni.
Iniziammo a incontrarci quasi tutti i giorni, al tramonto. Lui parlava e parlava e le sue storie qualche volta si mescolavano e non le capivo bene ma non volevo interromperlo, mi piaceva ascoltarlo, la sua voce mi calmava, era sicura e profonda, era una voce che copriva tutti gli altri rumori. Qualche volta parlavo anch'io, gli raccontavo della scuola, di quel senso di oppressione che spesso mi accompagnava e mi stringeva il petto.
Lui ascoltava, senza giudicare. Qualche volta annuiva, qualche altra sorrideva.
Una volta gli portai un disegno, c’eravamo noi due, seduti sulle sedie, e un cielo enorme sopra. Lo guardò a lungo. Poi disse solo "Grazie, mi piace stare con te perché tu mi guardi davvero".
Un pomeriggio portai anche Sushi con me, mi piaceva condividere con lui il mio mondo. Quando lo posai sul tavolino, Attilio guardò a lungo anche lui.
"Vedi, il tuo pesce vive in un mondo davvero piccolo ma a volte bastano pochi centimetri per sentirsi a casa".
Un altro giorno, fu Attilio a portare un sacchetto di biscotti e mi disse che quelli rotti erano i più buoni, erano i suoi preferiti.
Qualche volta, lo sguardo di Attilio si perdeva lontano a guardare le foglie del fico che sfioravano il muro del cortile.
"Ho imparato una cosa in questi anni," la voce gli tremava "quando si è soli, si impara a riconoscere il valore delle cose semplici. Sai," disse dopo averci riflettuto un altro po’ "è difficile continuare a vivere senza poter più condividere il mondo insieme a qualcuno che ami".
Provai a sentire le sue parole e immaginai Attilio nella sua casa, fatta di silenzi, tazze da lavare, vecchie fotografie piene di memoria. In quel momento sentii il suo dolore, la sua nostalgia, mi sembrava di avere un sasso nello stomaco.
La sera dopo però, Attilio non venne al nostro solito appuntamento e nemmeno la sera seguente e nemmeno quella dopo ancora.
La sua sedia era vuota.
Zenzero sotto il tavolino guardava il cielo, miagolò come a chiedermi notizie di Attilio.
Gli scrissi una lettera, breve, non mi piace scrivere, e gliela lasciai sulla sua sedia, sopra misi un sasso per non farla volare via.
"Caro Attilio,
oggi le rondini hanno volato basso. Forse cercavano te.
Ti aspetto domani e anche se non torni, io ti aspetto lo stesso".

Leo
Passarono i giorni e passò l’estate, i pomeriggi erano meno caldi, il cielo più opaco, e le cicale cantavano solo a metà. La mamma diceva che avevo lo sguardo da grande ma io non volevo crescere.

Poi, una mattina, al mio risveglio, trovai Zenzero sulla finestra. Tra i denti teneva un pezzettino di stoffa arrotolato, era il fazzoletto a quadri di Attilio. Dentro c’era un bigliettino.
"Mi hai fatto ricordare cos'è l'amicizia.
Grazie, Leo".
A.

Cercai di masticare il nodo che mi stringeva la gola. Sentii il vento, era caldo, sapeva di pino, di biscotti rotti, i più buoni.
Quel pomeriggio presi Sushi e scesi in cortile, mi sedetti sulla sedia di Attilio e per la prima volta, fui io a raccontare.
A nessuno in particolare o forse a tutti.
A Zenzero, al cielo, alle rondini.

Raccontai di un uomo che parlava poco, ma che sapeva osservare, sapeva amare con gli occhi. Di come il tempo, vicino a lui, fosse prezioso. Di come, per essere ricordati basta una stagione, forse pochi attimi.
Poi, poco alla volta, altre persone iniziarono a sedersi accanto a me in cortile. Una vicina e il suo cane, il postino in pausa. Anche mia mamma, un giorno si sedette accanto a me, aveva le mani che sapevano di bucato. Ascoltavano. Non sempre parlavano. Ma restavano. E in quel restare, Attilio era lì con noi.
L'estate ormai era finita ma io avevo imparato la lezione più importante di tutto l'anno, anche chi non c'è più… se qualcuno racconta la sua storia, non smette mai di esistere davvero.


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