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Concorso Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa inedita
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Daniele Morgese
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Nato a Terlizzi il 14/03/1986.
Laureato in Lettere Moderne e specializzato in Storia dell’Europa Contemporanea, vive a Genova dove insegna Lingua e Letteratura Italiana alle superiori.
Vincitore della "menzione d'onore" al premio Lagunando del 2020, ha poi esordito nel 2021 con lo stesso romanzo: “I Negativi” (Giulio Perrone Editore).
"Da nessuna parte" è il suo secondo romanzo
Ha già partecipato alla edizione:
Sinossi

Marta, Dario e Riccardo sono legati da un’amicizia più che ventennale, nata chissà quando e mantenuta in vita nonostante percorsi diversi. Una sera, molto prima del tempo della narrazione, i tre hanno uno scambio sul proprio senso della vita. Non è chiaro chi dica cosa, ma le posizioni sono tre vertici di un ipotetico triangolo.
Vent’anni dopo Marta si ritrova a ricominciare da zero, lontano dall’Italia e dal suo ex fidanzato. Da-rio è un insegnante precario e idealista e Riccardo, dopo anni all’estero, ha l’occasione di tornare a ca-sa.
Il romanzo segue la loro parabola incentrata sulle cose che non accadono e sulle conseguenze che possono avere. Una gravidanza indesiderata, il salvataggio di una studentessa e un inatteso impegno civico. Nell’arco di un anno i tre si ritrovano a fare i conti con il perenne stato di attesa di un tempo che non è detto che arrivi, o che lo faccia nei modi in cui era stato loro promesso.
Il romanzo si chiude con i tre che riprendono la stessa conversazione, dispersi fisicamente e non solo, volteggiando da nessuna parte in particolare.
Da nessuna parte 


A  Francesca e Irene 


Novembre

I see a white and open sky
And you know that I feel fine
Dead leaves are falling on my way
In a warm and cosy grave

And it's gonna be that time
that I like

November
it's so good to let myself surrender

(Shandon - November)


Preludio – LA conversazione

Ogni generazione rimprovera alla precedente di averle rubato il futuro, e alla successiva di non esser in grado di ripeterne le gesta. E tutte, inderogabilmente, sentono intimamente di aver ragione. Solo una però, ce l'ha per davvero.
Una nutrita schiera di storici, sociologi e antropologi potrebbe obiettare che questa affermazione manchi di sostanzialità e che in ogni epoca si siano succedute generazioni, ammesso che si possa sempre parlare di gruppi indistinti di abitanti della terra utilizzando un termine simile, dalle fortune altalenanti. Ma quelle che affronterebbe non sarebbero lagnose litanie stereotipate, bensì vibranti recriminazioni di chi ha raggiunto la consapevolezza di poter porre sotto la lente della giuria del tempo il proprio esemplare caso.
I ragazzi e le ragazze nate tra la metà degli anni settanta e l'inizio degli anni novanta del secolo scorso, ingiustamente separati nelle classificazioni dei dotti, sono accomunati da un'inestinguibile condanna: non veder mai giungere il proprio tempo.
Il tutto per un paradossale principio supremo: il loro bene. Un bene immaginato, presunto, ma mai realizzato concretamente e per questo colpevolizzati, sbeffeggiati e sminuiti, dopo esser stati blanditi e avvolti in amorevoli cure.
Sono circondati. Da un lato, chi li ha preceduti, ha avuto la spregiudicata incoscienza di cavalcare l'onda di un progresso che appariva senza fine, non lasciando che briciole. Dall'altro, chi li segue, non li percepisce come modello perché, senza girare troppo attorno alla questione, hanno miseramente fallito, in tutto.
Ingrati quando non accettano, viziati se lo fanno. Sbiaditi nelle proprie velleità, che appaiono innocue agli occhi dei nuovi giovani, che puntano solo all'assoluto, preferendo l'alternativa nichilista al compromesso. Secondi se va bene, ma mai abbastanza efficaci, mai abbastanza compatti, mai abbastanza. Nonostante i numeri, i risultati, le condizioni di partenza. Nati piccoli e destinati a non diventar mai abbastanza grandi. In ritardo sul lavoro, nel diventare genitori, nel realizzarsi, nel comprare una casa e accendere un mutuo. Mai presi realmente sul serio e con la mannaia del “alla tua età io...” utilizzata per far rannicchiare le spalle e rimandare, rimandare ancora.
Pluriqualificati ma inspendibili. Rispettosi ma non scafati. Ingenui, naif. Intimoriti per mancanza di esperienza, di denaro, di cattiveria.
Destinati a soccombere, senza mezzi di difesa, raggelati dall’idea di perdere quel poco ottenuto. Desiderosi di riconoscimento ma allo stesso tempo di non sprofondare in codici e paradigmi che non avvertono come propri. Affranti da un senso di colpa atavico. Sconvolti dalla discrepanza tra un'educazione che gli avrebbe aperto tutte le porte e il reato di farlo, abbandonando la casa, la terra, in spregio a secoli di tacito assistenzialismo familiare.
Ma tutto questo, la sera del dodici giugno del duemilasei, le tre figure che si stagliano alla luce opaca di qualche lampione dai fari arrossati, condividendo due bottiglie di vino scadente, non lo sanno ancora. E non lo sanno perché nessuno ha avuto ancora il coraggio di dirglielo.
Si scambiano i sorsi, soffiandosi il pastoso liquido dalla gradazione tendente all'illegalità. Tutt’attorno le panchine, disposte in modo tortuoso lungo il perimetro di giardini ai bordi di una periferia come tante, brulicano di anime diseguali che cercano la vita che scorre senza che tra le loro derelitte mani vi resti qualche segno che non siano tagli, calli e le scorie di tutti i giorni, alla disperata ricerca di una consolazione che allevi le preoccupazioni che tanto resteranno lì dove sono, almeno per la notte. Brusii indistinti di risate sguaiate che seguono commenti ruvidi che fanno da risposta a battute oscene. Tutto doverosamente in dialetto, che ne è lingua ufficiale, col quale è più semplice pronunciare bestialità che nella lingua dei poeti risulterebbero indicibili.
Di cosa parleranno poi? Delle vicendevoli miserie, o magari ancora di quelle altrui, più semplici da denigrare, per sentirsi migliori, almeno per una volta, almeno per poco.
Nessuna brezza spazza quelle voci, nessun refolo d'aria confonde i suoni, appannando le vocali smorzate e le consonanti eccessivamente calcate. Eppure sembrano non giungere da quei tre, isolati acusticamente dalle rispettive soglie di attenzione, focalizzate sui sodali senza pericolo di essere distratti da quanto accade a pochi passi di distanza.
Ma c'è un motivo.
Quella in atto non è una conversazione qualsiasi. Ciò che stanno affrontando è una di quelle discussioni che, inaspettatamente, divengono svolte cruciali. Dopo di esse l'orizzonte si modifica, il paesaggio muta e le strade non sono battute. Ma anche di questo, sono all'oscuro. Quant'è incredibile avere vent'anni. Quanta innocenza di fronte a passi che scavano solchi.
Se l'avessero saputo, forse avrebbero calibrato i termini per non pentirsene in futuro; preferito iperboli politicamente corrette a sciabolate secche e rozze. Se l'avessero saputo, si sarebbero attrezzati: avrebbero accorciato meglio le distanze e preparato attacchi e difese. Definito strategie, accerchiamenti. Un arrocco piuttosto che un'apertura. E invece si trovano a improvvisare nel bel mezzo della sfida, forzando la mano e non accorgendosi che, più si va in là, più subentra il desiderio inconfessabile di voler certo esprimere il proprio pensiero, ma anche di non piegarsi al fronte avversario.
«Io, io voglio soltanto che qualcuno si ricordi di me».
«E non ti basta che si ricordino di te i tuoi amici?».
«No, voglio di più. Altrimenti che senso ha tutto questo».
Eh, no, vorremmo poter dire di più, di come siano arrivati già a queste granitiche posizioni, ma siamo arrivati troppo tardi.
Se ci avvicinassimo, potrebbero notarci e finiremmo per interromperli. L’udito è buono e le voci squillanti. Le frasi giungono distintamente alle nostre orecchie nonostante il ronzio di sottofondo. Soltanto la distanza ci impedisce di comprendere chi stia dicendo cosa. Maledetti lampioni. I dettagli sfuggono. Non sono solo le panchine a risultare sparpagliate lungo quel perimetro mal pavimentato dei giardinetti. Lo sono anche le luci, e dove ben illuminano scene di cui poco ci interessa, in altri casi adombrano le figure, le accarezzano con il fioco riverbero di soffici riflessi...
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