Elvira Delmonaco Roll
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Scrittrice e poetessa, critica letteraria.
Presidente di Giuria di Premi Letterari Internazionali
Ha già partecipato a:
MODESTA
Era sera nella piccola fattoria sperduta nella campagna intorno al paese nascosto tra le colline. La famiglia aveva vendemmiato e aveva pigiato nei tini i grappoli di uva nera, mettendo a fermentare il mosto che avrebbe dato il Tintilia, quel vino aspro e rosso come sangue che gli antichi romani allungavano con acqua e addolcivano col miele.
I figli riposavano stanchi intorno al fuoco che ardeva nel caminetto, consumando in silenzio la minestra serale, ma la madre non sedeva, né mangiava, aspettava il marito convocato da don Egidio. Sembrava ansiosa e Modesta, la figlia quattordicenne, ne chiese sottovoce la ragione al fratello. Lui la zittì con un cenno.
Il padre tornò un’ora dopo:
«Quel maledetto è il demonio fatto carne», mormorò alla moglie che mandò subito i figli a letto nell›altra stanza, prima di versargli la minestra nel piatto con mani tremanti.
«Domani mattina manda i suoi uomini a prendere il mosto, a noi lascia solo un decimo, per carità cristiana, ha detto, quell›anima dannata. Ci ha preso quasi tutto e non possiamo più farcela a passare l›inverno con quello che ci ha lasciato, ma come mi posso opporre ai suoi briganti? Anche se mi facessi ammazzare, che cosa avrei concluso? Questa è la nostra terra, il raccolto è nostro di diritto, ma mi sono umiliato e l›ho pregato di lasciarci il necessario per vivere, e quel demonio mi ha riso in faccia, dicendo che non eravamo poi così poveri visto che abbiamo ancora Modesta e mi ha fatto venire i brividi. Se le ha messo gli occhi addosso, come posso impedirgli di prendersela? E dopo di lei c’è Letizia che forse è ancora più bella di Modesta. Come posso tenere al sicuro le mie figlie? Dobbiamo andarcene, ma come e dove? Non ci è rimasto nulla per ricominciare da un’altra parte e qui moriamo di fame».
La figlia che origliava lo vide chiudersi il viso tra le mani callose e per la prima volta ebbe paura. Fino a quel momento aveva pensato che il padre avesse il potere di proteggerla, ma non era così e quel gesto di impotente disperazione le gelò il sangue, facendole finalmente aprire gli occhi su quanto era successo solo qualche giorno prima, mentre rincorreva spensierata una capra che si era allontanata dal loro misero gregge.
Si era quasi scontrata con don Egidio a cavallo del suo baio e per un attimo non lo aveva riconosciuto senza l’abito talare, vestito come uno dei suoi briganti. Lo aveva salutato rispettosamente e lui l’aveva guardata. Quello sguardo le bruciava ancora dentro, come se l’avesse marchiata.
«Chi sei?»
«Modesta, la figlia di Pietro di Cola».
«Ti mando a prendere» aveva promesso.
«E io non ci vengo!» aveva gridato, mentre lui galoppava via.
«Vedremo!»
La minaccia l’aveva spaventata e stupidamente, quasi a voler negare quell’incontro, non lo aveva detto alla madre.
«Vade retro Satana» aveva sussurrato facendo gli scongiuri, perché l'arciprete le faceva paura come a tutti i paesani.
Di lui sapeva quello che sapevano tutti: era nato in un paese al di là della collina, da contadini che si erano arricchiti quando uno zio che faceva il brigante si era fatto nominare capitano della guardia, per spadroneggiare in paese. Don Egidio era cresciuto con i briganti e quando lo zio era stato ammazzato, aveva deciso di lasciare il fucile e si era fatto prete per continuare i suoi affari protetto dalla rispettabilità del sacerdozio.
Nominato arciprete, aveva chiesto di essere mandato in quel paesino tra le colline che offriva un ottimo rifugio ai suoi amici ricercati dalle guardie. In cambio della sua ospitalità, i fuorilegge lo affiancavano nei suoi loschi affari e gli permettevano di fare il bello e il cattivo tempo sul territorio, rubando e minacciando. Non era mai sazio di potere, di beni e di donne di cui abusava senza alcun riguardo. Persino una sua pupilla, il cui onore avrebbe dovuto proteggere, era stata ingravidata, privata della dote e del figlio, e data in moglie a un uomo che non aveva potuto dire di no.
Era il demonio e ora avrebbe mandato i briganti a prenderla e l’avrebbe avuta perché suo padre con cinque figli ancora piccoli non avrebbe osato opporsi. L’avrebbe lasciata andare anche perché non
era raro che una famiglia ridotta alla fame vendesse una delle figlie, ma lei non voleva quell’uomo malvagio più vecchio di suo padre. Cosa sarebbe successo alla sua anima immortale?
La mattina dopo fu caricata sul carro insieme al mosto rubato e portata via tra le urla della madre e le bestemmie del fratello preferito. Non si voltò a guardarli perché allora non avrebbe avuto la forza di andar via senza piangere e non vide suo padre prendere un sacchetto di monete e annuire all’ordine di andare via e non tornare mai più, non vide il fratello ribellarsi e correre nei campi.
Quello stesso giorno don Egidio, il servo di Dio, le aprì le porte dell’inferno, affogando la sua infanzia nella vergogna, non lasciandole nemmeno la dubbia consolazione della nostalgia e del ricordo di quando tutto era innocente e pulito: non ne era più degna la donnaccia senza onore che era diventata.
Il suo sorrise si spense e nei giorni seguenti l’anima fuggì in un cantuccio del suo essere e divenne ghiaccio che gelava ogni sentimento. Giaceva come un fiore reciso, senza più profumo, spezzata dalla ignominia, dal peccato e dalla ostentazione della sua vergogna.
Il suo padrone la voleva a tutte le ore, di giorno e di notte, la toccava, l’accarezzava davanti alle serve, davanti ai suoi amici briganti, senza rispetto, senza pudore, e in privato godeva della sua ritrosia, prima, e poi, della sua indifferente acquiescenza a ogni bruttura a cui la costringeva.
Era di fatto la sua prostituta e credeva che quando si fosse stancato, l’avrebbe ceduta, come un oggetto qualsiasi, a qualcuno dei suoi sgherri, se non a tutti, ma si sbagliava perché Monsignore, come l’arciprete voleva essere chiamato immeritatamente, aveva iniziato a essere ossessionato da lei che in modo sottile gli resisteva e gli sfuggiva, eseguendo i suoi ordini con sguardo di pietra, in cui solo a volte leggeva l’ombra della paura. Allora avvertiva in lei un tremito, come un brivido, che le attraversava la pelle.
«Sei proprio come ti voglio» le disse un giorno come complimento e sorpreso la sentì mormorare: «Allora sono dannata».
«Sei una sciocca» la rimproverò, «se me lo chiedi con i dovuti modi, prima che tu muoia ti do l›assoluzione e se non ti basta, ti do anche il Viatico, così arrivi davanti a san Pietro con l›anima bianca e pulita come quella di una verginella» e le dette un pizzicotto, ridendo fino alle lacrime. Modesta ebbe paura: cosa aveva voluto dire? Che sarebbe morta prima di lui?
Non contento di avere distrutto l’innocenza del suo corpo, Monsignore cominciò a desiderare il possesso della sua anima mortificata e ferita. Pensò di corromperla facendone la signora della sua casa e organizzò una specie di cerimonia simbolica.
Una sera gli invitati invasero l’aia del suo casale, al centro del quale bruciava un falò. Modesta versò il vino nei bicchieri degli ospiti, silenziosa come sempre. Aveva lavorato fin da mattina nelle cucine per preparare il pranzo per gli amici, che se avessero potuto avrebbero rubato l’uno all’altro.
«Vieni» le ordinò Monsignore e lei si avvicinò, ma fece un cenno di diniego quando lui cominciò a spogliarla dei suoi abiti contadini e a buttarli uno alla volta nel fuoco. Quando fu coperta solo della sua vergogna, il suo padrone la vestì di seta e di merletti, le dette le chiavi di casa, le assegnò una donna perché la servisse e la proclamò sua legittima compagna.
Vestita come una signora e sentendosi una prostituta, quella sera Modesta servì in tavola come una serva.
«Tu mi appartieni anima e corpo» le disse nella notte Monsignore e le ordinò di essere felice.
Cominciò così una nuova vita, a capo della servitù che aveva troppa paura dell’arciprete per non eseguire a puntino i suoi ordini e Modesta nei suoi ricchi abiti che avevano dato scandalo e offeso le mogli dei don, perché solo loro avevano il diritto di vestire sete e merletti, secondo il secolare diritto medievale, era sempre più prigioniera in quel casale da cui non voleva uscire per non sentirsi chiamare puttana del diavolo dalle pie donne del paese.
Il giorno del suo quindicesimo compleanno don Egidio volle regalarle una festa a cui invitò i suoi compagni briganti, che in mattinata lo avrebbero accompagnato a casa di don Alfonso, uno dei cinque funzionari amministrativi del paese, per insegnargli le buone maniere nella discussione di una spinosa questione di soldi e di ammanchi, che il don aveva scoperto.
Don Egidio era ancora in camera, assistito da Modesta, quando lei sentì la voce del fratello preferito. Cercò di correre alla finestra per vederlo, in un impeto di gioia, ma l’arciprete la fermò.
«Che vuoi?» urlò al ragazzo.
«Voglio fare gli auguri a mia sorella e mi voglio arruolare. Sono stanco di lavorare la terra e voglio
fare il bandito». Modesta trasalì, non era da suo fratello parlare in quel modo. «Lei si veste come una signora e io devo zappare? Dammi un fucile e ti faccio vedere io cosa so fare».
Don Egidio rise e ordinò che fosse accontentato.
Un giovane brigante gli porse un vecchio fucile, il primo che il ragazzo vedeva da vicino, e gli ordinò di seguirlo a casa di don Alfonso, ma di non provare a sparare perché l’arma era carica.
La spedizione punitiva a casa del don rallegrò l’arciprete che pregustava il pranzo quando, giunti sull’aia, il fratello di Modesta chiese di vederla e Monsignore gli rifiutò il permesso.
«Modesta» chiamò allora il ragazzo e puntato il fucile contro don Egidio, sparò. Troppo tardi comprese che il fucile che gli avevano dato era scarico e che era caduto nel tranello.
«Maledetto, hai fatto di mia sorella una svergognata» gridò mentre veniva spinto in ginocchio. «Ci hai preso tutto, anche l›onore e dovevo fartela pagare. Modesta! Ti voglio bene».
«Anche io ti voglio bene!» cercò di gridare la sorella che voleva correre ad abbracciarlo, ma don Egidio le mise una mano sulla bocca e un coltello alla gola, tenendola stretta.
«Se ti muovi, muori senza assoluzione» le sussurrò. «Guarda come tratto chi mi si mette contro». «Sparate» gridò e il giovane si afflosciò come un fantoccio nel proprio sangue. Rimase lì, sull›aia, un mucchietto di stracci, come se non fosse mai stato un ragazzo pieno d›onore e d›amore.
«Servi il pranzo» disse calmo don Egidio, come se nulla fosse successo e lei ubbidì, come sempre, soffocando il dolore in quel pezzetto di animo che le era rimasto.
Quella notte concepì il suo primo figlio, mentre il sangue del fratello macchiava ancora le pietre dell’aia.
Quando non riuscì più a nascondere la gravidanza, don Emidio le ordinò di abortire, ma le erbe non fecero effetto e lei ne fu contenta perché quel bambino lo voleva e lo amava.
Il figlio nacque un pomeriggio di fine ottobre, mentre nell’aria cominciava a spandersi l’odore del mosto e i merli dal becco giallo attendevano il momento in cui gli uomini avrebbero lasciato le vigne per cominciare a far pulizia, non dimenticando nemmeno un acino sulle viti o sul terreno. Era stata portata via dalla sua famiglia in una giornata come quella, pensava Modesta tra una doglia e l’altra, e da allora aveva vissuto nella vergogna, senza gioia, ma forse, ora, quel bambino...
«Hai fatto un maschio» disse la donna che l›aveva assistita e preso il bambino, uscì, senza farglielo vedere.
Modesta non vide mai suo figlio. Seppe da una serva che era stato portato alla ruota del convento di un paese lontano. Spezzata, distrutta, desiderò la morte, ma era giovane e la vita la reclamava.
Don Egidio le disse che era stato necessario liberarsi del bambino perché era un maschietto che un domani avrebbe voluto l’eredità che aveva già promesso alla Chiesa. Se fosse stata una femmina, invece, ... Non gli credette, ma sperò che fosse vero quando si accorse di una nuova gravidanza.
Quando iniziarono le doglie andò nel boschetto del casale e si nascose come un animale, trattenendo i suoi gemiti mentre partoriva da sola, su un letto di foglie. La bimba le parve bellissima e l’avvolse nello scialle, cullandola, gioendo della sua maternità.
All’improvviso le furono intorno, gli uomini dell’arciprete, come mai non li aveva sentiti? Le tolsero la sua creatura e la spinsero in casa. Non rivide mai più la sua bambina.
«L›hai uccisa» le disse il ministro di Dio, «l›hai fatta cadere ed è tutta colpa tua. Pagherai per questo peccato». Mentiva, la sua creatura era viva quando l›avevano presa dalle sue braccia.
Nelle ore di solitudine, mentre si riprendeva dal parto, tra i dolori del seno colmo di latte, si chiese cosa ne sarebbe stati di lei e se sarebbe impazzita per il dolore, l’unico sentimento che le era rimasto, oltre alla vergogna.
Appena il suo corpo si fu ripreso dal parto, Monsignore la portò nel suo letto.
Quella notte non riuscì a dormire. Si alzò alle prime luci dell’alba, presa dal bisogno di allontanarsi dal respiro pesante del suo padrone, dall’oppressivo calore del suo corpo, dalle sue mani che la toccavano anche nel sonno. Si sentiva soffocare.
Uscì sull’aia che, per quanto ripulita, per lei era ancora sporca del sangue del fratello, e sedette a guardare il sorgere del sole. Lo aveva fatto altre volte, prima, quando innocente ragazzina gli aveva chiesto di esaudire i suoi desideri, ma tutto quello che aveva avuto era stato Monsignore.
Avrebbe pianto, se ne fosse stata capace, mentre si abbandonava alla carezza dell’aria fresca sul viso.
Un trillo la riscosse, era il canto mattutino di un cardellino, vicino, vicinissimo e scrutò intorno per
scorgere i suoi splendidi colori. Era tanto che non ne vedeva uno e non ne sentiva il canto, per lei il più bello che un uccello avesse mai intonato. Una poiana lanciò il suo grido alto e stridulo e l’uccellino si zittì.
“Ecco” pensò “la poiana è Monsignore, ma io non sono un cardellino che quando è in gabbia sbatte le ali contro le sbarre, ferendosi alla ricerca della libertà. Io sono solo un misero passero, umile e dimesso, con il suo imbelle cip cip”.
Sì, imbelle! Aveva lasciato che il demonio la privasse delle sue creature e non aveva fatto niente! E se avesse concepito un altro figlio? Avrebbe perso anche questo senza reagire?
Improvvisamente sentì che la ribellione sorgeva in lei fredda come una furiosa ventata di bora e si rese conto che sua anima non era del tutto morta come aveva creduto, che era colma di sentimenti repressi nella paura, nella vergogna, nella umiliazione. Era stata per troppo tempo infelice come una bambina punita ingiustamente, schiacciata dal disonore, ma la maternità frustrata l’aveva resa donna e ora scopriva di avere il dovere di proteggere la sua futura creatura, affrancandosi una volta per tutte da Monsignore e c’era un solo modo: lo avrebbe denunciato, anche se avrebbe dovuto lavare i panni sporchi della sua vita nella pubblica piazza, anche se la sua vergogna non avrebbe mai avuto fine. Il paese che l’aveva bollata come puttana del diavolo l’avrebbe definita svergognata senza onore, traditrice, e nessuno le avrebbe aperto le porte di casa, ma non le importava: era arrivato il momento di fare giustizia per la morte del fratello, per i suoi due bambini, anime innocenti, per sé, per i suoi anni di schiavitù nel dolore...
Il cardellino riprese a gorgheggiare e accarezzata e sostenuta dalle note incantate Modesta cominciò a fare i suoi piani.
Sapeva per averlo sentito dire, che don Alfonso, nonostante l’attacco subito dai briganti, o forse proprio per quello, continuava a cercare ostinatamente prove contro don Egidio e decise di farne il suo strumento di giustizia. A questo scopo riprese a frequentare la chiesa e con astuzia, riuscì a stabilire un contatto col don, fingendo di cadere mentre gli passava accanto. Cortese lui la sorresse e lei gli mormorò qualche parola. Lo incontrò, a rischio della loro vita, nel bosco profumato di erbe selvatiche.
Una mattina di aprile, mentre l’arciprete si preparava a festeggiare il lunedì di Pasqua insieme ai suoi compagni, Modesta aprì le porte ai gendarmi venuti dalla città che misero fine al dominio di Monsignore, arrestando tutti i briganti presenti. Mentre usciva con le mani legate dietro la schiena per essere portato al processo che avrebbe distrutto la sua vita, don Egidio si girò a guardarla, con la sorpresa negli occhi.
«Perché mi hai fatto questo? Io ti amavo!» gridò e furono le ultime parole che le rivolse.
Questo racconto si è ispirato alla figura storica e ad alcuni episodi documentati della vita di don Peppo, nato Giuseppe Nicola Carnevale, arciprete, che agli inizi dell’800 tenne sotto il suo dominio il paesino di Pietracupa in Molise, non disdegnando di servirsi dei briganti. Fu processato per la sua condotta immorale e condannato al carcere, da cui fu liberato dopo aver perduto il suo potere. Morì a sessantaquattro anni.