Giacomo Giannecchini
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Nato a Massa. Scrivo e racconto da sempre, ma arrivo da una formazione cinematografica. Sceneggiatore, regista e montatore video fin da fine anni Novanta. Poi ho smesso.
Ora scrivo storie, lunghe e corte, articoli, relazioni e qualche saggio.
Amo le penne stilografiche e l’odore della carta buona.
La base
Avete mai avuto una base? Intendo una base sicura da cui far partire ogni azione e dove rientrare quando siete troppo stanchi per fare qualunque cosa. Noi ce l’avevamo. Era proprio in fondo alla recinzione, quasi all’angolo. C’era un arbusto alto più o meno un metro che faceva dei frutti che sembravano delle bombe. Erano frutti verdi, lunghi, affusolati e rugosi. Sembravano delle bombe. Li usavamo proprio come se lo fossero, lanciandoli ai nemici. Tra l’arbusto e il muro della recinzione c’era posto: ci stavamo in tre, anche in quattro se non c’era Giovanni. Se c’era Giovanni no, perché lui è ciccione. Le bombe le tiravamo contro le femmine di solito: erano insopportabili le femmine. E poi noi eravamo maschi e loro no. Quando non riuscivi più a correre, quando non avevi più fiato per giocare ad acchiapparci o a picchiarci, bastava entrare nella base e nessuno poteva più toccarti.
Pensavo alla nostra base mentre ero chiuso al buio, per darmi coraggio. L’avevo combinata grossa e mia madre mi aveva rinchiuso nello “stanzino”: uno sgabuzzino pieno di bottiglie, qualche damigiana, del formaggio, patate e cipolle. In quella stanza non c’era né una finestra né un lampadario. Era buio. Il buio più buio che possiate immaginare. Era la punizione più dura che mia mamma avesse mai concepito: due ore nello “stanzino”. Due ore sono lunghe, ma due ore lì dentro non finivano mai. C’è da considerare inoltre che al buio ci sono i mostri ed i mostri non sono mai buoni.
Anche quelli che disegnavo con la pipì sui muri, sembravano mostri innocui ma dopo un po’ che li guardavi, se non si asciugavano subito, diventavano cattivi. Disegnavo per prima la testa e poi le spalle con le braccia. Il resto te lo dovevi immaginare.
Al buio, nello sgabuzzino, cercavo di riconoscere tutte le cose per quel che erano veramente. Una alla volta, piano piano, tutto tornava normale: l’enorme anaconda davanti a me era tornata ad essere una treccia di cipolle, il tizio che stava sdraiato sotto alla cassetta di patate e che mi fissava era solo un sacchetto di noci posato su una valigia piena di attrezzi. Le due ore erano quasi passate ma è proprio all’ultimo che i mostri ti attaccano, ti fanno prima credere che non esistano e poi ti saltano sulle spalle! Sono proprio cattivi. Oltre a terrorizzarti fanno anche di peggio: quando ti sei spaventato poi ti prendono in giro. Quel giorno ho anche pianto nel buio dello stanzino e speravo che nessuno mi avesse visto.
Quando mia mamma tolse il giro di chiave, senza però aprire la porta della mia prigione, rimasi dentro un po’. Non volevo far vedere che ero stato male. Non so quanto ho resistito in più del dovuto, perché a dire il vero avevo il cuore che mi scoppiava in petto. La porta era aperta e potevo uscire quando volevo ma non potevo far vedere che avevo pianto. Provai a resistere più a lungo che potevo ma può darsi pure che sia rimasto solo trenta secondi in più in quel maledetto stanzino. Una volta uscito sono andato a sedermi fuori, sugli scalini d’ingresso. Volevo dell’aria buona e non volevo correre da mia mamma a scusarmi.
Le avevo lanciato per sbaglio un sasso, piccolo piccolo, e l’avevo presa in testa! Aveva ragione lei però mettermi due ore nello stanzino era stato disumano. Aveva esagerato. In fondo stavo solo giocando a lanciare un sasso in alto e poi, prima che cadesse, cercavo di colpirlo con un altro sasso. Al volo! E’ una cosa difficilissima e ci sono riuscito solo una decina di volte. Forse di più! Però non mi ero proprio accorto che dietro al sassolino che galleggiava in aria era passata mia mamma. Non l’ho fatto apposta, ma l’ho presa proprio in testa. No, niente scuse. Non se le meritava. Se l’avessi fatto apposta allora sì che avrei dovuto chiederle scusa, ma io miravo al sasso mica alla sua testa!
All’ora di pranzo mi sono seduto al tavolo senza dire una parola. C’era la nonna che mi guardava, forse aveva capito che avevo pianto, ma io facevo finta di no. Rocco, mio fratello più grande, stava già mangiando perché doveva tornare a lavorare. Mia mamma invece stava finendo di girare la minestra nel sugo. Proprio in quel momento ho sentito un grosso botto e anche la nonna lo ha sentito. La nonna è sorda. Poi ha iniziato a tremare tutto e la mamma ha iniziato ad urlare e mi ha preso subito in braccio. Siamo corsi tutti fuori e la casa è come scoppiata! Un terremoto fortissimo che faceva ballare tutto come se fosse niente. Rocco era ricoperto di polvere, invece la nonna, io e la mamma eravamo ancora puliti. Ma la casa non c’era più. La mamma strillava, Rocco piangeva e la nonna continuava a dire che eravamo oramai disperati e che sarebbe stato meglio morire tutti insieme sotto alla casa invece di doverla rifare. Io mi ero preso paura, non posso mica far finta di no, però ero contento. Lo stanzino adesso non c’era più!
Lo so cosa pensate e l’ho pensato anche io: sono stato io a fare cadere la casa. Quando ero nello stanzino avevo pensato proprio che avrei voluto che quel buco buio fosse saltato in aria. E così è stato! E’ chiaro che ho dei poteri di questo tipo e devo solo imparare a controllarli. Non è stata una buona idea fare scoppiare la casa. Tra l’altro prima di mangiare. Ora avevo anche fame.
Mi ero già accorto di avere dei poteri quando la mattina andavo a scuola a piedi. C’è sempre freddo a quell’ora e verso Febbraio, di solito, c’è tanto vento. Ma io in quei giorni parlo con il pensiero al vento e lui fa quello che voglio io. Se gli dico di smettere, lui smette. Se gli dico di farmi volare, lui diventa fortissimo e quasi mi alza. A volte lo faccio soffiare forte e poi mi metto a correre con le braccia aperte: è proprio come volare! Quando mi accorgo che mi ubbidisce due o tre volte smetto di dargli ordini. Non deve essere bello avere uno che ti dice “ora smetti di soffiare!”, “ora soffia forte!”, “ora soffia piano” e così via. Va bene che lui mi ubbidisce ma non posso mica approfittarmene! Sennò poi finisce che si scoccia. Devo usare i miei poteri in maniera giusta, per difendere le cose buone. Ecco questa cosa della casa mi è un po’ scappata dalle mani, come diceva papà quando mi allungava una sberla.
Lui, il giorno del terremoto, non era a casa, era a lavorare in fabbrica. E lì è rimasto purtroppo. Formipoli, era stata distrutta tutta. Non che fosse una città molto grande. Per due giorni c’è stato un via vai di donne che piangevano davanti alla nostra casa. Solo dopo qualche giorno ho capito che papà era morto in fabbrica sotto ad un macchinario. E dire che lui odiava andare a lavoro. Se quel macchinario è caduto su mio papà è perché io ho fatto tremare la terra. Quindi sono stato io ad ammazzarlo, anche se non l’ho fatto apposta. Per colpa mia quindi ero senza casa e senza papà, avevo la mamma che piangeva e urlava, la nonna che si lamentava di non essere morta, Rocco che aveva gli occhi lucidi ma che provava a fare l’uomo grande. Ed io continuavo ad avere fame.
Ero molto preoccupato per questi poteri fortissimi che avevo e che non sapevo ancora controllare. Dovevo trovare un modo per dominarli ed è proprio in quei momenti che mi sarebbe servita una base, un posto dove neanche il terremoto poteva toccarti. Avrei voluto spiegare le cose per come erano andate veramente alla mamma e alla nonna, ma sembravano non considerarmi più di tanto.
Rocco forse avrebbe capito. Provai a spiegargli la situazione dei miei poteri e della storia dello stanzino ma mi diede uno scapaccione e riprese a piangere. Andai da mia mamma a dirgli che Rocco era uno stronzo perché mi aveva dato uno scapaccione e ne presi uno anche da lei. La cosa mi fece diventare rosso dalla rabbia ma, per fortuna, mi ricordai subito di controllare i miei poteri. Chissà cosa avrei potuto ancora fare! Non so come dirlo ma quella situazione non mi piaceva affatto. In fondo non ho scelto mica io di avere questi poteri immensi! E non c’era nemmeno qualcuno che me li spiegava.
Comunque sia, una signora che abitava vicino a noi, la signora Rosa, detta Rò, mi diede un pezzo di pane. Era una donna magrissima e aveva degli occhi piccolissimi che la facevano assomigliare ad un fantasma. Nonostante tutto quando mi allungò il pezzo di pane non la guardai nemmeno e me lo sono mangiato tutto d’un fiato. Sinceramente avevo ancora fame, però andava meglio assai. Saranno state le cinque del pomeriggio quando ci hanno trasferito a valle, in fondo ad un campo dove avevano messo delle tende. Era già l’inizio dell’Estate e non si stava male nella tendopoli, però erano sempre tutti tristi e questo rendeva le cose difficili. Anche io ero triste per mio babbo, perché quando uno è morto è morto, non lo puoi fare tornare vivo. Però non puoi stare sempre a pensare a quello e poi… chissà! Magari se imparo a usare i poteri potrei anche fare tornare il babbo! Con un’energia speciale che potrei lanciare, una sera lo rivediamo tornare a casa. Lui suona il campanello e, quando la mamma gli va ad aprire, lei sviene sulla porta per la gioia e lui dice a tutti che è stato merito mio se è tornato vivo! Potrebbe succedere se imparo ad usare i miei poteri come si deve.
Intanto però dovevo iniziare con cose più facili. Magari spostando le cose con il pensiero o correndo a velocità supersonica. Mentre facevo i miei primi esperimenti, anche la televisione era venuta a occuparsi di noi! Mi avevano visto sicuramente, però io avevo fatto finta di nulla e non mi ero fatto riprendere dalle loro telecamere. Sicuramente sapevano qualcosa di come erano andate davvero le cose, ma si accontentavano di chiedere alla gente cosa aveva sentito, cosa aveva perso e chi gli era morto. Appena le persone a cui facevano le domande iniziavano a piangere, quelli della televisione se ne andavano a fare domande ad altri. Volevano solo farli piangere, era questa la loro missione. Io non avrei mai pianto per loro.
La situazione diventò difficile quando iniziarono a costruire delle case in legno, lì vicino alle tende. Come delle roulotte senza ruote. C’era sempre rumore e polvere e non si stava in pace mai, nemmeno la notte. Di sera a me piaceva uscire un po’ dalla tenda e fare un giretto a piedi. La mamma non voleva che mi allontanassi dalla sua vista, potevo camminare solo fino a dove lei mi vedeva. Ogni tanto però facevo una corsa e sparivo. Mica era colpa mia se la sua vista era così corta! Per fortuna mia nonna diceva sempre a mia mamma per difendermi:
È una creatura! Cosa deve fare tutto il giorno? Dormire? Non vedi che ha l’argento vivo dentro?
Se fosse stato per mia madre avrei preso le sberle ogni due ore in quel periodo. La teoria della nonna era comunque interessante: l’argento vivo. Chissà cosa era questo argento vivo. Forse era quello che mi dava i superpoteri! Dovevo scoprire cosa era e come funzionava. Il giorno dopo era Domenica e, prima della Messa nella grande tenda, mi andai a confessare. Spiegai la cosa al prete, del terremoto e di come era andata nello stanzino, ma lui mi sorrideva e mi diceva che la colpa non era mia e che dovevo concentrarmi sul consolare mia mamma. I preti dovrebbero capire certe cose, purtroppo però anche loro sembrano proprio non sentire quello che gli dici! Prima di uscire gli ho chiesto se sapeva qualcosa dell’argento vivo, che sostanza era e come mai ne ero pieno. Il prete rise forte e mi disse di ubbidire alla mamma. Non fu molto utile, però mi assolse dai miei peccati.
Il problema è che non è facile imparare ad usare i superpoteri da soli, soprattutto se quando ne parli a qualcuno nessuno ci crede! Ridono, ti danno buffetti, oppure si arrabbiano… mai nessuno che ti prenda sul serio e che ti ascolti. Ci sarà pure qualcun altro, grande, che ha dei superpoteri e che mi può aiutare ad usare i miei per sconfiggere il male! Proprio in quei primi giorni dopo il terremoto mia mamma mi portò con lei da una vecchia signora chiusa in una tenda fatta di stracci. La vecchia aveva almeno mille anni, in bocca aveva un solo dente ed era tutta storta: sembrava una “C” se la guardavi di profilo. Forse una “P”. Doveva misurare la paura a me e a mia mamma con il piattino e l’olio.
Era molto grassa e non era del nostro paese, si sentiva quando parlava che non era di Formipoli. Per primo l’ha misurata a me e ha subito fatto una bella risata dicendo che nessuno aveva meno paura di me! Ed era vero, io non ho paura. Però la vecchia disse che invece mia mamma ce ne aveva tanta e che doveva bruciare il cuscino di mio babbo, quello che usava nella nostra casa. Bisognava mandare qualcuno a scavare nelle macerie e trovarlo. Perché era lì che c’era chiuso tutto il male. Dentro la sua testa c’era qualcosa che di notte passava nel cuscino, oppure al contrario. Però bisognava bruciare quel cuscino. Sennò il male si sarebbe trasferito nella sua testa o nella mia o in quella di Rocco. Prima di andarcene la vecchia mi allungò una mano con due caramelle.
Ecco per la piccola anciua senza paura!
Grazie. Posso farti una domanda?
Certo pizulnino!
Signora lei come ha fatto a diventare una strega?
La vecchia rise forte e mia madre non mi ha dato nemmeno il tempo di chiedere alla signora se qualcuno le aveva insegnato a essere strega o se aveva imparato da sola: mi arrivò uno scapaccione proprio dietro al collo. Mia mamma mi riempiva continuamente di sberle. Comunque, siccome mi vuole comunque bene e ci tiene a me, mentre uscivamo dalla sua tenda chiese alla vecchia che cosa voleva dire “anciua”. Pare che volesse dire “acciuga”, perché ero molto magro. Confronto a lei anche Giovanni è magro!
Di mattina, visto che non c’era la scuola, potevo andare fino quasi alla nostra casa. C’era un campo mezzo coperto di muri sbriciolati e sotto a queste macerie c’era una macchina: una Fiat 127, bordò. Aveva il tetto quasi tutto coperto dai calcinacci e dai pezzi di una casa, ma la portiera dove c’era il volante si poteva ancora aprire.
Sono entrato dentro e ho iniziato a far finta di guidarla, però con la portiera aperta. Non mi fidavo a chiudermici dentro: se poi la portiera si bloccava e rimanevo sotto agli avanzi delle case?
Ad un certo punto da dietro una catasta di mattoni rotti è sbucata una ragazza mora, piena di riccioli, con tutti i capelli gonfi tenuti stretti in un ciuffo alto, magrissima. Aveva un pallone da calcio in mano. L’avevo vista alla scuola di Formipoli. Era in quinta B. Si chiama Teresa.
La sai guidare?
Sì, mio babbo mi faceva guidare quando si andava al mare.
E questa va in moto?
Non ci sono le chiavi, sennò ce la facevo andare in moto.
Si può fare con i fili.
Che fili?
Con i fili sotto al volante. Ci sono dei fili che se li metti insieme fanno la scintilla e la macchina si accende.
Davvero?
Sì.
E che fili sono?
L’ho visto in diversi film. Ma non so quali sono i fili. Non l’ho mai fatto.
Possiamo provare.
Abbiamo cercato quei fili sotto al volante ma non ce n’era. Alla fine abbiamo deciso di provare anzi a rompere i vetri della macchina con dei sassi. Non c’è stato verso. Dopo un po’ abbiamo iniziato a fare dei passaggi con il pallone per poi tirare delle “cannonate” contro la macchina. Teresa ha un tiro fortissimo, anche se ha i piedi “a banana” e manda sempre il pallone fuori. Da quel giorno tornavo ogni mattina alla macchina e veniva sempre anche Teresa.
Ci siamo divertiti tanto con quella 127 e con il pallone. Abbiamo giocato a fare i poliziotti che facevano gli inseguimenti, a spaccare le cose dentro la macchina, a fingere di essere in un’astronave nello spazio… e poi dopo si giocava sempre a pallone e la macchina diventava la porta.
Si facevano dieci tiri per uno in porta: tutta la macchina era goal. Dopo diversi giorni eravamo riusciti ad aprire anche il finestrino e se riuscivi a fare goal dentro al finestrino valeva doppio.
Teresa mi piace perché non è come le altre femmine: lei è come i maschi. Le piace giocare a calcio, spaccare le cose e ridere. Non si veste nemmeno come le femmine.
Un giorno le ho detto la cosa dei miei superpoteri. Lei è rimasta seria, seduta accanto a me sul cofano della 127. Aveva i capelli sciolti perché avevamo sudato tanto ed eravamo appena usciti da bere alla fontanella. Si teneva abbracciate le sue ginocchia sporche. Le ho spiegato anche dello stanzino e del terremoto. Dopo un po’ che io parlavo e lei stava zitta mi sono accorto che aveva le lacrime agli occhi. Non stava proprio piangendo, però era molto triste.
Era arrabbiata con me perché la sua mamma era morta nel terremoto e ora sapeva che era stata colpa mia. Le ho spiegato che non l’avevo fatto apposta. Non sapevo usare i superpoteri e poi le dissi anche che magari, se li avessi imparati ad usare, avremmo potuto anche riportare in vita mio babbo e sua mamma.
Però devi farmi vedere che ce li hai davvero questi superpoteri.
Allora abbiamo fatto un patto: mi avrebbe aiutato a capire come funzionavano i poteri e poi li avremmo usati insieme per fare del bene. Volevamo difendere quelli più deboli e sconfiggere tutti quelli che fanno i prepotenti e che si atteggiano, tipo i ragazzini ricchi o quelli alti. E anche le femmine smorfiose.
In quell’estate la sera c’era molto caldo e i grandi organizzavano un sacco di cose all’aperto. Un giovedì sera non stavo nella pelle perché al “cinema sotto le stelle” davano Rocky quattro! Era uscito ad anno nuovo nei cinema normali ma il babbo non mi ci aveva portato, perché rispondevo sempre male alla mamma.
Purtroppo quella sera mi ci accompagnò nonna e arrivammo tardi, perché lei era super lenta. Era già iniziato: c’era già l’amico di Rocky, quello nero, che combatteva contro un russo biondo e cattivissimo. Non c’era posto a sedere, ma Teresa mi ha fatto cenno e poi ha lasciato la sua sedia alla nonna. Noi due ci siamo seduti per terra, un po’ più in là. Eravamo molto di lato rispetto allo schermo ma almeno non avevamo nessuno davanti. Il film era bellissimo e Rocky riusciva a sconfiggere quel russo che sembrava un robot. Mi sentivo fortissimo. Io con i miei superpoteri potrei fare anche di più! Posso far vivere tutti gli uomini del mondo come veri amici e non come i russi. Alla fine del film, il nostro sindaco prese il microfono e disse con voce piena di entusiasmo:
Proprio come Rocky, anche il comune di Formipoli ha avuto la sua grande vittoria: dal 21 di Settembre saranno aperte le scuole!
E giù applausi e sorrisi da parte degli adulti. Io e Teresa stavamo per piangere. Eravamo solo a metà Agosto e farci pensare alla scuola era cattiveria. Nel mio cuore pensavo che con il fatto del terremoto forse avrebbero smesso con le scuole almeno per qualche anno. Invece no.
Dovevo però stare calmo perché quando mi arrabbiavo succedevano sempre cose strane. Una mattina avevo litigato con Rocco perché mi trattava sempre male: mi dava calci e faceva il prepotente. Rocco ha otto anni più di me ed è grosso il doppio!
Mi teneva una mano sulla fronte, con il braccio tutto steso, mentre cercavo di colpirlo e lui rideva del fatto che io non ci arrivavo. Mi chiamava “Rocky Zero”. Stavo per iniziare a piangere, e proprio in quel momento è scoppiato un fulmine in cielo.
Un temporale che è durato tutto il giorno. Anche Rocco si è spaventato per il botto del fulmine e ha smesso subito di darmi fastidio. Il giorno dopo ne ho parlato con Teresa e lei mi ha subito detto che dovevamo iniziare a fare degli esperimenti prima di fare altri danni.
Il temporale aveva reso la “tendopoli” una specie di grande pista da motocross piena di fango, quindi rimandammo gli esperimenti perché con la sua bicicletta potevamo sfidarci a correre a tutta velocità dentro le pozzanghere senza cadere. Poi, belli coperti di fango e schizzi di acqua sporca, abbiamo iniziato le prime prove.
Il primo esperimento deve essere facile. Ho un’idea: se impari a controllare questo siamo a posto!
Io rimanevo seduto e lei lasciava cadere davanti a me dei fili d’erba. Con il pensiero dovevo farli andare controvento. Abbiamo provato molte volte ma non è una cosa facile. Ve lo assicuro.
Teresa mi guardava con i suoi occhi così lunghi e marroni, e cercava di sforzarsi anche lei con la mente per aiutarmi. Ma niente: l’erba andava sempre dove la portava il vento.
Il giorno dopo abbiamo provato un altro esperimento molto difficile: mi ha bendato, poi mi ha messo in mano un oggetto che aveva portato da casa. Io dovevo parlare di quell’oggetto e dire tutto quello che mi veniva in mente, tutto quello che sentivo. Ad esempio, come primo oggetto, mi ha messo in mano una chiave e mentre la stringevo ho sentito che era la chiave di camera sua e che ogni giorno lei la toccava. Quando glielo ho detto mi è saltata addosso e mi ha abbracciato. Io ero bendato, in piedi, e siamo caduti a terra come due scemi. Mi ha tolto la benda:
Bravo! Hai indovinato! I poteri funzionano!
E mi ha dato un bacio.
Da quella volta provavamo tutti i giorni a fare quel tipo di esperimento. A volte ci andavo molto vicino, altre volte sbagliavo completamente. Però dopo un po’ gli esperimenti diventavano noiosi ed allora giocavamo a “far finta che”. Andavamo in un vecchio fienile ancora mezzo in piedi e fingevamo di essere marito e moglie con tre figli: Matteo, Giancarlo e Luigi. Ne succedevano di tutti i colori in quella famiglia! Ce n’era sempre qualcuno in ospedale oppure che veniva rapito o anche ucciso. Noi, dopo aver fatto finta di essere una famiglia normale, iniziavamo le nostre indagini per risolvere la disgrazia che ci aveva colpito. Potevamo andare avanti un’ora intera con quelle fantasie, fino a che Teresa non mi diceva:
Mio caro marito, che ne dici se andiamo a giocare a pallone?
E si tornava a giocare nel campo davanti alla 127. Per questo mi piace Teresa: si diverte a fare fantasie, correre con la bici, fare esperimenti, rompere le cose e tutto il resto, ma più di tutto le piace dare calci al pallone. Proprio come a me! Di solito si giocava a “scartino”: si prendono due sassi grossi, ne metti uno a terra, misuri due passi lunghi e metti giù l’altro, così fai una porta. Poi ne fai un’altra. Una volta fatte le porte devi “scartare” l’avversario e poi fare goal nella sua porta. Io quando corro con la palla e provo a scartare ripeto di continuo “Misceel! Misceeel! Misceeeel!”, perché il mio giocatore preferito è Platini. Giocando con Teresa, avevo sempre dolore agli stinchi perché lei quando la scarti almeno un calcio te lo dà. Però poi ti chiede scusa.
Poi a fine giornata, verso le sette della sera, si andava alla fontanella a bere e a schizzarci con l’acqua. Si rimaneva un po’ seduti al sole ad asciugarci e si ritornava a casa.
I miei superpoteri li abbiamo provati tutti: spostare le cose, leggere la storia degli oggetti, telepatia, capacità di vedere i fatti che succedono a distanza e anche il super udito. Siamo convinti che i poteri ci sono, ma che bisogna aspettare un po’ di anni per farli crescere. In fondo è un po’ come per le ossa no? Essere ci sono anche quando hai nove anni, ma poi diventano molto più grandi e forti quando ne avrai venti.
Nel frattempo le 49 famiglie di Formipoli hanno tutte una casa, seppure provvisoria. Molti sono andati dai parenti che li hanno ospitati, altri hanno ricevuto una di quelle case di legno che hanno costruito. Di tende non ce n’è quasi più, a parte quella del dottore e quella dove dicono la Messa.
Il giorno che mi ricordo meglio è il 20 di Settembre. Era Domenica e dopo la Messa, ho fatto una corsa fino alla nostra “roulotte senza ruote” a mangiare più in fretta che potevo. Mentre uscivo, ancora sudato dalla corsa di prima, mia mamma mi diede uno scapaccione mentre mi urlava contro:
Non mastichi nemmeno le cose nel piatto, non senti i sapori, domani ti metto una ciabatta nel piatto voglio vedere se te ne accorgi!
Arrivai alla 127 che Teresa era già lì. Non aveva portato il pallone.
Che ne dici se oggi proviamo a vedere se riesci a leggere nel futuro?
Certo!
Domani inizia la scuola: dimmi che cosa vedi.
Mi concentrai a fondo come avevo imparato a fare negli esperimenti durante tutta l’estate. Feci diversi grandi respiri, chiusi gli occhi e iniziai a descrivere la mia visione:
Da domani non ci vedremo quasi più. Tu andrai alle medie e io ancora un anno alle elementari. Però d’estate ci ritroveremo qui alla 127.
E sarai sempre il mio migliore amico?
Sempre. Anche quando saremo grandi.
Da grandi ci sposeremo davvero?
Sì. Lo vedo. Saremo sposati e felici.
Sono bella io?
Sì, sei molto alta. Sei tanto felice.
Avremo davvero tre figli?
Non li vedo, ma potrebbero essere a scuola. Noi siamo soli in casa in questo momento.
E tu come mai che non sei a lavorare?
Non lo so, magari siamo ricchi.
La vedo difficile.
Non lo so, io ti dico che ci vedo insieme molto felici. In una bella casa.
E’ pulita?
E’ pulitissima e c’è anche il giardino per giocare a pallone.
La mia visione sparì. Teresa aspettò un paio di minuti che mi riprendessi e poi mi ha abbracciato forte forte e mi ha baciato. Mi ha detto di non dimenticarmi che avrei dovuto sposarla e se ne è andata.
L’Estate finì così. Il giorno dopo ero dietro ad un banco, con la maestra che ci faceva un dettato. Con Teresa provo quasi tutti i giorni a collegarmi psichicamente, ma non risponde.