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Concorso Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa inedita
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Ivana Maria Cartanì
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Sono architetto, funzionario regionale, Sindaco e mamma.
Fin da bambina ho partecipato a concorsi letterari di poesia, e con il tempo mi sono avvicinata anche alla prosa.
Negli ultimi anni ho continuato a scrivere, ma solo discorsi istituzionali e atti amministrativi.
Questo racconto nasce una sera in cui accade un episodio al limite del credibile, e per raccontare il quale ho deciso di rispolverare la mia passione antica, lasciando che le mie esperienze personali e professionali tornassero a intrecciarsi con la scrittura creativa.
Ha già partecipato a:
Lo specchio


UN MATTINO

Lo specchio non era stato desiderato.
Non era stato chiesto.
Era semplicemente apparso, accompagnato da una spiegazione che non spiegava: “un dono da una paziente, per te” mi disse il mio compagno.
Un pensiero — così lo definì — rivolto a me, da una donna che non mi aveva mai vista, che non sapeva nulla di me.
Già questo mi turbò.
Passai ore, quel pomeriggio, a cercare risposte nel fondo impolverato di Google. “Regalare uno specchio: significati simbolici, superstizioni, presagi”.
Niente che mi bastasse. Nulla che riuscisse a placare quella sensazione viscosa che mi si era annidata addosso.
“Ma perché?” continuavo a chiedere. “Perché proprio uno specchio?”
Il mio compagno mi rispondeva senza ascoltarmi. “Le sarà sembrato un oggetto carino.” Tutto lì.
Credeva che la mia reazione fosse semplice indignazione estetica. Qualcuno si era permesso di imporre un oggetto -e uno così -nella mia casa, nella mia visione.
Ma non era solo questo.
Sì, anche. Perché io, ci tengo.
Io sono lo sguardo con cui disegno gli spazi che abito.
Sono architetto del mio vivere: l’armonia è lingua materna, lo stile è pelle.

E quello specchio era tutto ciò che non sono.
Barocco, teatrale, eccessivo.
Un piccolo sole malato con la cornice arricciata di cartapesta, come se fosse un oggetto nato da un sogno febbricitante e non da mani artigiane.

Lo posai, senza entusiasmo, in quella stanza incompiuta che da tempo evito. Una stanza sospesa, in cerca d’identità.
E forse fu proprio per questo che lo specchio sembrò trovarsi a suo agio.
Non lo fissai mai davvero.
Eppure, ogni volta che entravo, avevo l’impressione che fosse lui a fissare me.

UN POMERIGGIO

Stava in piedi sull’alto settimino della biancheria. Un angolo marginale della stanza, eppure cruciale, crocevia dei flussi di passaggio.
Un pomeriggio lo sguardo mi si era fermato alle spalle di quel mobile, ed ero rimasta a fissarlo senza quasi vederlo.
La luce filtrava obliqua, in quel centimetro d’aria fra il mobile e il muro.
Era il battiscopa a creare quella distanza-sottile, concreta, apparentemente innocua.
Eppure, in quel momento mi fu chiaro quanto quella fosse una distanza tanto piccola quanto irrimediabilmente incolmabile.

Spostai lo sguardo in alto, cercando la sagoma dello specchio.
Mi aspettavo di vederlo, sì - e lo vidi.
Mi aspettavo di scorgere la lama di luce assottigliarsi in un triangolo.
Un filo di luce che si assottiglia, un segno che rassicura, che dice: è appoggiato.
E invece no.
Alle sue spalle, solo una parallela perfetta, la linea di luce che correva dritta come una sentenza. Nessun cedimento. Nessun contatto.

Lo specchio non si reggeva sul mobile. Si reggeva da solo.
Stava ritto in un equilibrio sottilissimo, sulle sue gambe.
Come un pensiero che non vuole arrendersi alla gravità.

E per un istante - brevissimo, ma netto - mi parve che tutto attorno si irrigidisse. Come se anche la stanza se ne fosse accorta.
Come se mille occhi si voltassero insieme a contemplare la scoperta di quell’ equilibrio immoto, la polvere nell’aria avesse smesso di fluttuare, il tempo di correre, trattenendomi il fiato.
Ho sentito per un attimo un moto di comunanza nei confronti di quello specchio equilibrista, un anelito comune che ci vedeva entrambi intenti a mantenere una difficilissima apparenza statica, amorevole e rassicurante, in un turbine che con statico e rassicurante nulla poteva mai spartire.
In due, perfettamente serafici, nell’occhio del ciclone.
I miei figli parlavano ancora, uno sopra l’altro, le loro vocette sature di pretese. Ma io non li sentivo più.
Tutto era lì, concentrato nel punto esatto
dove la luce e lo specchio non si toccavano.
Dove qualcosa stava per accadere.
Ma non accadde.
Non ancora.                                                                                                                  
Io mi voltai.

E la stanza riprese a respirare.

UNA SERA

Mi ero appena spostata nella stanza del mio piccolo, immersa nella solita fatica lenta dei compiti delle vacanze.
Tutto era ancora dentro il quotidiano: le sillabe scandite a fatica, le voci dei bambini che si accavallavano in richieste, proteste, domande.
E poi  - all’improvviso  - quel suono.
Un frastuono pieno, franto, che non era tonfo né schianto, ma una sorta di crollo. Non di sola materia. Qualcosa si era disfatto.
Mi fermai un attimo, poi mi alzai.
Misi in moto il corpo, ma la mente corse più veloce, e altrove.
Pensai subito al maggiore.
Non sa stare fermo. Forse aveva rovesciato qualcosa?
Ma il rumore non veniva dalla sua stanza.
Era la mia.
E da lì cominciò una processione di pensieri brevi, scarti mentali, crisi logiche.
Cos’avrebbe potuto produrre quel suono?
Non era vetro infranto. Non era plastica. Non era metallo
Eppure non era nemmeno legno.
Non c’era nulla, in quella stanza, che potesse rompersi in quel modo.
Nessun oggetto fuori posto. Nessuna fonte probabile.
Il corpo aveva già quasi raggiunto la soglia, ma la mente ancora annaspava in quel vuoto interpretativo.
Io conosco ogni suono di questa casa.
Il tono esatto con cui tintinnano le chiavi nelle tasche del mio compagno, il fruscio delle ciabatte che sfiorano il pavimento, il modo in cui le costruzioni dei bambini collassano su loro stesse — lo riconosco anche nel sonno.
Ma questo no.
Questo era nuovo
E inspiegabile.
E mentre la distanza tra me e la porta si chiudeva - pochi passi - dentro di me si allargava un’eco fredda, come un’apnea.
Un velo invisibile mi imperlava la fronte.
Non era sudore, non ancora.
Era una forma di allarme. Un allarme antico. Di quelli che sussurrano – aspetta-
Varcai la soglia.
Non c’erano cocci. Non c’era polvere.
Eppure qualcosa, lì dentro, non tornava.
La stanza era la stessa. La luce filtrava come sempre, in quell’ora indecisa tra pomeriggio e sera.
Tutto sembrava al suo posto.
Ma io no.
Fu una frazione di secondo -eppure enorme.
Un attimo in cui il mio sguardo cercò, in automatico, un riflesso.
Perché era quello che avveniva ogni volta: aprivo quella porta e incontravo me stessa, appena accennata, nella superficie dello specchio.
Una consuetudine non cercata, ma sedimentata. Una conferma del mio esistere nello spazio.
E invece - il vuoto.
Il corpo c’era, la luce c’era, la soglia c’era.
Ma io no.
E questa assenza non era un’impressione. Era una sottrazione concreta.
Come se, in un gesto invisibile, qualcuno avesse cancellato la mia presenza dalla stanza.
Mi sentii spaesata. Ma non nel senso comune.
Non era la stanza a essersi trasformata.
Era la mia identità riflessa a mancare.
Fu solo dopo, quando la mente tornò a farsi lineare, che capii.
Lo specchio non c’era.
Non era la mia figura a essersi sottratta.
Era il piano riflettente a essersi disallineato, come se la realtà avesse perso uno dei suoi assi.
Spostai rapidamente gli occhi dal muro, bianco e incosciente, al pavimento, alla ricerca di ciò che mi aspettavo fosse in mille frantumi.
Pensai.
Mi era sembrato sinistro quel regalo, un oggetto che non aveva ragione di essere. Mi aveva dato molti pensieri, lo sapevo.
E adesso, che si era quasi fatto familiare, ricominciava a farmi sentire quella parte di me che crede ai presagi - la parte che razionalmente non esiste, ma che si sveglia nelle pieghe di un attimo come quello.
Perché lo sapevo, tutti lo sanno: quando si rompe uno specchio, porta male.
E intanto la mente scorreva, senza pace, attraverso un catalogo interiore di tutte le cose che avrebbero potuto andare storte. Un’infinità di possibili guai, che si facevano strada mentre gli occhi scannerizzavano attenti, veloci, la scena.
Ma non vedevo cocci.
Non c’erano crepe.                                                           
Era semplicemente impossibile.
Era lì. Smontato. Ma come?
Uno specchio che cade da più di un metro di altezza e si smonta, senza rompersi?
La mia razionalità si fermò per un battito, come se qualcosa avesse preteso la sua attenzione, senza avvertire la mente.
I pezzi giacevano lì, disposti con una precisione inquietante.
Il piano di compensato, ancora al suo posto sotto il disco riflettente.
La cornice separata, ma sistemata con una delicatezza quasi assurda.
E i quattro morsetti di metallo, duttile e ossidato, sparsi intorno, ciascuno con il proprio chiodino accanto, come se fossero stati posati con una cura meticolosa, come compagni di vita pronti a non abbandonare mai l’uno l’altro.
Non riuscivo a immaginare come avessero potuto sistemarsi così.
Come se una forza invisibile, soprannaturale, avesse guidato ogni parte, posando quei frammenti con una calma, che l’entropia avesse lasciato spazio alla precisione di una mano divina.
Una forza che non lasciava spazio al caos, ma che anzi pareva mettere ordine in ciò che non aveva ragione di esistere.
Mi chiesi se fosse davvero il caso di tornare a guardarlo, a fissarlo.
Eppure, ogni volta che varcavo quella porta, il pensiero dello specchio mi pesava sulla mente, più di quanto avessi mai voluto ammettere.
Non mi piaceva. Non mi è mai piaciuto. Lo specchio, quel dono immotivato, quel regalo che mi era stato imposto come se fosse un altro corpo a parlarmi.
Da dove veniva davvero?
Che cosa stava cercando di dirmi?
Ogni volta che la mia figura si rifletteva nella sua superficie, una strana sensazione mi pervadeva, come se non fossi mai sola.
E adesso, con i pezzi sparsi sul pavimento, la mia mente non riusciva a non immaginare che ci fosse un significato nascosto.
Se c’era stato un tempo in cui ero riuscita a ignorarlo, ora mi sembrava impossibile.
Lo specchio era sempre stato lì, ma non nel mio cuore. Non l’avevo mai voluto davvero, né cercato.
Però, strano destino, lui mi aveva trovata, a dispetto di ogni mia resistenza.
E ora era lì, smontato, e nudo davanti a me.
Nel suo riflesso avevo visto tante volte non la mia immagine, ma quella che io volevo mostrare al mondo: la donna che sorride, che affronta con serenità le difficoltà.
Ma chi ero davvero?
Mi guardavo, ma non mi riconoscevo mai del tutto.
Mi sentivo distante da quella figura che tutti vedevano, quella bellezza che gli altri vedevano ma che non mi apparteneva.
Volevo credere che fosse solo un gioco di luce, una proiezione effimera.
Lo specchio, però, mi costringeva a confrontarmi con una versione di me che mi sfuggiva sempre, che non riuscivo ad accogliere.
Ora, con quei pezzi che giacevano ai miei piedi, la sensazione di perdita era ancora più forte.
Ma quale perdita?
Il riflesso era già andato da tempo. La verità che cercavo di ignorare stava tornando in superficie, nel silenzio ombroso di quella stanza che sembrava trattenere il respiro.
Non c’era mai stato un vero specchio, forse. Solo una continua riflessione tra quello che ero e quello che pensavo di essere.
E ora, in quel turbine, mi chiedevo che cosa resta di me quando la superficie si sbriciola?

QUELLA NOTTE

Lo specchio, ormai ridotto in frammenti, non era solo un oggetto fisico.
Era una finestra, o meglio, un muro tra me e ciò che non volevo vedere.
Ma ora che non c’era più, che i suoi pezzi giacevano sparsi sul pavimento, mi accorsi che ero io a sentirmi frantumata.
Non era solo il riflesso che mi mancava.
Era la certezza.
La tranquillità di sapere chi ero, di vedere ogni giorno un volto che, anche se estraneo, avevo imparato a riconoscere come mio.
Avevo guardato per anni quel volto come in un sogno, lontano, estraneo.
E ora che quel sogno si era rotto, cosa rimaneva?
Mi piegai con un brivido, per raccogliere i morsetti di metallo e le viti. Le mani tremavano. Non mi ero mai chiesta prima se avessi avuto paura.
Paura di che? Della mia stessa immagine?
No, era qualcosa di più sottile, di più nascosto. Era come se lo specchio avesse avuto il potere di svelare ciò che non volevo vedere. E adesso che non c’era, la sua assenza era altrettanto potente.
Posai pezzi sul tavolo. Le mani si erano fermate, ma la mente correva. I pensieri si mescolavano, vaghi, eppure acuti, come una melodia che non riesco a dimenticare.
Così tanti anni passati a cercare di definire me stessa, a voler vedere un’immagine che corrispondesse a ciò che gli altri vedevano.
Perché tanto impegno?
Cos’era che temevo di scoprire, se non avevo nemmeno il coraggio di guardarmi a fondo?
Il tempo sembrava dilatarsi. Le ombre della stanza si allungavano, eppure non riuscivo a concentrarmi su nulla.
Guardavo i pezzi dello specchio, ma non li vedevo.
Mi chiedevo se, in qualche modo, non avessi voluto che quel dono, quel regalo forzato, mi indicasse qualcosa che avevo bisogno di sapere.
Dovevo trovare il modo di rimettere tutto insieme.
Forse solo allora, mi sarei sentita di nuovo intera. Forse solo allora avrei capito.
Mentre raccoglievo metodicamente ogni piccolo frammento, il mio sguardo oscillava tra i pezzetti sparsi sul pavimento e la mia mente, che rifiutava di smettere di girare attorno a una domanda che non riusciva a rispondere: che significato aveva quello specchio nella mia vita?
E la risposta, come un’ombra sfuggente, continuava a sfiorarmi senza che potessi afferrarla completamente.
Ogni pezzo sembrava raccontare una storia che non riuscivo a decifrare.
Non era solo uno specchio. C’era qualcosa in più, qualcosa di nascosto, come se ogni riflesso contenesse un messaggio, un avvertimento che avevo rifiutato di ascoltare fino a quel momento.
Eppure, a ogni movimento, la sensazione cresceva, come un eco che non voleva silenziarsi.
Non potevo credere che fosse un caso.
Non lo avevo mai creduto, fin da subito.
Chi mi aveva donato quello specchio non lo aveva fatto senza motivo.
Ogni gesto aveva un senso. E lo specchio non era un regalo qualunque.
Lo avevo capito, anche se non riuscivo a definire cosa fosse veramente.
Era una prova, forse. O un richiamo.
E quella caduta, quel disastro, aveva un senso. Quale? Non lo sapevo.
Mentre mettevo insieme i pezzi, mi rendevo conto che non solo non riuscivo a spiegarlo razionalmente, ma che mi sentivo irrazionale, superstiziosa, come se qualcosa di più grande, di più misterioso, avesse preso il controllo di tutto.
Un potere che non riuscivo a contrastare.
Non riuscivo a smettere di chiedermi:
Perché? Perché proprio ora? È rimasto in bilico per un tempo che mi sembrava indeterminabile.
Perché ora questa caduta, perché tutta questa fragilità?
Ogni pensiero razionale sembrava rimanere incagliato in un groviglio di emozioni irrazionali.
Il destino aveva deciso di parlarmi e io non riuscivo a sentire la sua voce.
Ero sorda: sentivo solo un fastidioso ronzio nelle orecchie che sapeva di paura.
Lo specchio e i suoi frammenti composti, mi raccontavano una storia che non riuscivo a comprendere, ma che avevo paura di ignorare.
Una sola cosa mi era chiara, limpida come un faro nel buio delle mie incertezze.
Non potevo rimetterlo io insieme.
Non sapevo spiegare perché, ma quella certezza mi paralizzava.
Non era solo il peso del significato che non riuscivo ad afferrare. Era qualcosa di più profondo, una sensazione che scivolava lungo la pelle come un brivido gelido. Non potevo farlo, non sarei riuscita a restituirgli la forma, la sostanza.
Non avevo la forza. Non ne avevo il diritto.
Pochi minuti dopo, i frammenti erano disposti davanti a me, sparsi sulla superficie fredda del tavolo, come tessere di un mosaico rotto.
Il mio compagno, con la sua consueta calma, indossava la sua vecchia tuta da lavoretti casalinghi, uno strano contrasto con l’atmosfera che aleggiava intorno a noi.
Mi osservava, ma non una parola usciva dalle sue labbra. Non chiedeva spiegazioni, non sembrava nemmeno sorpreso. Come se avesse capito che quell’incidente, in qualche modo, non riguardava solo l’oggetto in sé. La sua apparente indifferenza non mi turbava, ma anzi, mi confortava.
Non avevo bisogno di chiedergli nulla. Si era già messo al lavoro, come se fosse un atto naturale, meccanico. Mentre lo guardavo muoversi con quella calma che mi era tanto familiare, dentro di me cresceva un’inquietudine che non riuscivo a spiegare, ma che non riuscivo nemmeno a ignorare.
E il mio pensiero era fisso: Non posso rimetterlo io insieme. Non posso.
E poi, come se niente fosse, un altro gesto: prese la colla, quella vecchia, il cui aroma pungente riempiva la stanza, profumo di anni ‘60 che mi sembrò improvvisamente familiare, confortante. La colla gialla, viscida, e imperturbabile.
C’era qualcosa di definitivo in quel gesto.
La colla che si allungava a coprire ogni superficie, sigillando ogni crepa, ogni frattura.
Mi sembrò che la colla mi pervadesse: forte come un abbraccio, una carezza che si depositava attraverso un pennello intriso di amorevole attenzione.
Ogni movimento del suo braccio era preciso, calmo. Come se, in qualche modo, comprendesse che io e quello specchio eravamo legate. Che qualcosa, tra noi, era rimasto irrisolto. In quel momento, la sua solerzia, quasi misteriosa, mi parve un atto di cura.
Mi trovai a osservarlo, mentre le sue mani lavoravano, ad un passo da me.
La sua concentrazione era tangibile.
Il suo silenzio parlava forte.
Non era solo il ripristino dello specchio che stava compiendo, ma un atto che mi restituiva un certo equilibrio. Anche se non lo diceva, lo capivo.
Si stava prendendo cura di me, in quel gesto semplice e profondo, riparando qualcosa che non riguardava solo l’oggetto, ma anche la mia mente.
Lo specchio stava tornando a essere intero, e meno forte quella paura irrazionale di guardarmi quella superficie liscia. La mia riflessione, per quanto distorta, mi sembrava meno minacciosa.
Quella sua caduta, quel voler rimanere intero, quel perdere un equilibrio illogico, lo rese più umano a me, e sentii di non dover più temere il suo giudizio.
Quello di un oggetto ostile che quel giorno era diventato, infine, mio.
Lo guardai mentre finiva di aggiustare gli ultimi dettagli, e sentii che, come quello specchio, anche io stavo ritrovando la forma dei miei pensieri.
“Ci vorrà un po’ di tempo per farlo asciugare” disse infine, come se avesse letto i miei pensieri, e io annuii, il cuore più leggero, ma ancora colmo di un’inquietudine che non riuscivo ancora a scacciare.
E mentre la colla asciugava, sentii, più che vedere, che stavo ricominciando ad accettare la realtà dei fatti: la mia immagine, lo specchio, il messaggio che mi voleva trasmettere, quel crollo che mai avrei potuto evitare.
E, infine, anche la forza di quel gesto.
La sua cura, in quel momento, era il mio specchio più sincero.

UNA DOMANDA

Bastava davvero quella cura?
Era sufficiente un po’ di colla a ricomporre le crepe in me, come avevo visto fare a quello specchio?
O forse, dentro di me, c’era uno squilibrio troppo profondo, nascosto, che non poteva guarire con il semplice tocco di mani amorevoli, per quanto rassicuranti?
E qual era la mia malattia?
Lo specchio rifletteva così tante cose, così tante sfaccettature di me che non avevo mai osato guardare.
Cosa nascondevo, veramente, dietro quel sorriso perfetto che mettevo ogni mattina sul mio volto?
Forse c’era qualcosa che avevo sempre ignorato, qualcosa che non volevo vedere: la fragilità estrema di quel filo su cui sentivo di camminare; un bisogno costante di conferme, di approvazione per rincuorarmi dal baratro sotto quel filo sottile che intuivo più che vedere.
Quella paura sorda che mi batteva nei timpani: mi diceva che se solo mi fossi fermata, tutto sarebbe crollato.
E poi la dimostrazione che gli equilibristi perdono prima o poi nei confronti del caos, era proprio lì nelle mie mani.
Un monito per quel mio vivere sempre ad un passo, sempre ad un solo centimetro dall’ esaurimento delle forze.
Forse il mio demone era quello: la sensazione non essere mai abbastanza.
Di non riuscire a stare in equilibrio, come quel maledetto specchio.
Per certi demoni, non basta l’amore di una famiglia che ti considera il centro del proprio mondo.  Non basta la protezione di chi ti sta vicino.
C’erano cose dentro di me che non potevo nascondere o ignorare. Dovevo affrontarle.
Dargli un nome. Il nome che solo io conoscevo.
Il gesto del mio compagno, di curare e ricomporre, non poteva risolvere tutto.
Il vero atto di guarigione doveva venire da me, dal mio confronto con le ombre che da troppo tempo evitavo.
Perché per ogni specchio che si rompe, bisogna fare i conti con ciò che riflette.
E io, fino ad allora, non avevo mai voluto farlo.
Lo specchio era a testa in giù, “deve asciugare”, disse lui;
Sul retro c’era ancora quella calligrafia svolazzante che imitava le scritture antiche. “Dal laboratorio artigiano di Rosa”, recitava.
Ho sempre pensato che questo specchio proprio non mi confacesse, e quella dedica continuava a rimarcarlo. Una donna, Rosa, che ha il tempo di dedicarsi ad arricciare una cornice di cartapesta attorno a un vecchio specchio.
Un gesto che ha magicamente trasformato un vecchio gingillo, in uno ‘antico’.
Proprio a me doveva capitare.
Una donna moderna, proiettata fuori più che dentro. Attenta a quietare gli istinti più introspettivi. Sono d’intralcio, no? Rapidità, razionalità, azione. Eppure, l’idea che fosse irreparabile mi aveva velato di una tristezza che non mi apparteneva.
Di solito penso che gli oggetti siano e rimangano oggetti.
Eppure, mentre lo guardavo, mi chiesi cosa accarezzassi nelle pieghe di quest’oggetto.
Cosa cercavo veramente?
Avrei voluto avere anche io tempo per le mani, per dedicarmi a qualcosa che non richiedesse uno sforzo mentale così assorbente come tutte le cose a cui mi dedico.
Perché se mi fermo, se rallento, la mia lucidità,
la velocità che mi definiscono, si sciolgono come neve al sole, non è vero?
E forse, ancora di più, ho paura di rimanere indietro.
Di perdere un’occasione che non tornerà più.
Eppure, mentre lo specchio asciugava, capii.
Era come se quella colla che lentamente legava i pezzi, legava anche i rivoli del mio cuore.
Non era solo lo specchio che si ricomponeva, ma anche io, ed i miei frammenti. Non sarebbe stato il caos, il disordine a definirmi, ma piuttosto la mia capacità di risistemarmi, di trovare un nuovo equilibrio.
Forse non dovevo più correre.
Forse il tempo, anche quello che sembra perduto, ha il suo valore.
Mi chinai verso lo specchio, di nuovo intero.
Lo guardai.
La mia immagine non era più la stessa di prima.
Non c’era quella frenesia che mi aveva accompagnato fin lì.
C’era, piuttosto, una pace che non avevo mai cercato ma che ora mi apparteneva.
E forse, in fondo, non era più uno specchio. Era diventato un pezzo della mia storia: un frammento che mi aveva mostrato chi ero, e chi avrei potuto essere in futuro, con quella nuova pace nel cuore.

IL MATTINO SEGUENTE

Lo specchio è tornato al suo posto, campeggia in cima al mobile della biancheria. Di nuovo, impassibile, di fronte al mio riflesso mattutino sulla porta della mia camera.
Una piccola differenza è lì, a segnare la fine di qualcosa: la parallela ha lasciato il posto a un appoggio continuo alla parete, saldo. Luce non se ne vede più.
Non rischierò più di perdere l’equilibrio.
Pardon. Non rischierà.

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