Luca Bertini
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Ho cinquantasei anni, sono sposato con un figlio e lavoro all’ufficio tecnico del comune di San Giuliano Terme.
Da più di vent’anni seguo una costante pratica meditativa come allievo di Raja Yoga.
La passione per la scrittura ha attraversato varie fasi nella mia vita. Sono partito con la sperimentazione di forme teatrali e successivamente sono arrivato alla composizione forme narrative brevi e più complesse.
Nel 2023 ho dato alla stampa una raccolta di racconti dal titolo “Piccole Storie” e lo scorso anno ha preso forma il mio primo romanzo, dal titolo “Un altro Romeo un’altra Giulietta”. Nel frattempo, ho ripreso altri progetti, a cui si sono aggiunte nuove idee narrative.
L’UOMO PIÙ VELOCE DEL MONDO
La città di New York è anche conosciuta con l’appellativo di “Grande Mela”, questo poiché appare come un frutto che si nutre della linfa dell’albero su cui è appeso. L’albero che gli fornisce la propria vitalità è l’intero Stato di New York e il ramo attraverso cui fluisce, come fosse un cordone ombelicale, è la Statale 9.
Questa strada, all’interno della città di New York, prende il nome di Broadway, che non significherebbe altro che stradone o grande strada, e lo mantiene fino a che non devia verso il fiume Hudson e lo Stato del New Jersey, in corrispondenza del George Washington Bridge.
Da quando lavoro per lo Star-Ledger, che è un quotidiano che ha sede a Newark, nel New Jersey, ogni volta che debbo andare nello Stato di New York, mi torna comodo attraversare l’Hudson in corrispondenza di quel ponte.
Quel mattino lo feci per recarmi a Yonkers, che è appena fuori dai confini della città di New York, dove avrei intervistato un signore di una settantina d’anni, di nome Eulace Peacock.
Eulace Peacock era stato un discreto velocista negli anni Trenta, tanto da riuscire a vincere qualche titolo nazionale e siglare il record mondiale sui cento metri in coabitazione con altri atleti, fra cui Jesse Owens. Nel periodo migliore della sua carriera si era infortunato al tendine del ginocchio destro e la sua breve notorietà era stata offuscata dall’indimenticabile anno olimpico di Owens. Il suo nome aveva avuto un breve momento di notorietà dopo la morte del grande Jesse, quando erano stati in molti a riprendere articoli di giornale o almanacchi degli anni Trenta per poter parlare delle sue imprese e facendolo avevano tirato fuori anche i nomi dei suoi avversari, fra cui quello di Peacock, che era stato l’unico a riuscire a batterlo sia sui cento metri che nel salto in lungo.
Da allora erano passati cinque anni ed erano stati sufficienti affinché il suo nome fosse tornato nell’oblio.
L’intervista che stavo per fargli non c’entrava in alcun modo con il suo rapporto con Jesse Owens, ma era legata al fatto che Eulace Peacock aveva anche detenuto per più di quarant’anni il record di salto in lungo, a livello collegiale, dello Stato del New Jersey.
Questo record gli era stato tolto quasi dieci anni prima da Renaldo Nehemiah, che era stato il primo uomo a scendere sotto i 13 secondi sui 110 metri ad ostacoli.
Da poche settimane Nemahiah era stato reintegrato dalla IAAF, che è la Federazione internazionale delle federazioni di atletica, nel mondo dilettantesco dell’atletica leggera, dopo che alcuni anni prima l’aveva abbandonato per passare al professionismo e giocare a Football Americano con i San Francisco 49ers.
Ora, Nemahiah era nato a Newark e lì aveva vissuto per gran parte della sua giovinezza. Da vecchio frequentatore dell’atletica giovanile, mi ero ricordato che aveva tolto quel record ad Eulace Peacock e avevo proposto al mio caporedattore un pezzo che unisse i due campioni e la loro appartenenza al New Jersey. Questo era il motivo per cui mi era stato concesso uno spazio all’interno della pagina sportiva e per cui stavo percorrendo la Broadway in direzione nord, verso Yonkers.
Yonkers è ancora oggi la più popolosa cittadina della contea di Westchester, ma appena lasciato il caos di New York, tutto assume un altro aspetto.
Quel mattino tutto mi apparì ancora più evidente. Lo vedevo dal traffico, dai palazzi che non ti riempivano lo sguardo. Tutto mi appariva fuori scala, mentre ciò che è veramente fuori scala, ciò che è eccezionale, è solo New York.
All’incrocio con la Yonkers Avenue, che in pratica taglia la cittadina in due parti, da est a ovest, la Broadway cambia nome e assume quello di North Broadway. Lì deviai a sinistra, ritornando verso il fiume Hudson, percorsi quella strada fino quasi a sentire il rumore del fiume e quindi svoltai ancora verso nord.
Infine, dopo aver passato almeno tre incroci, arrivai nei pressi della stazione.
L’auto la lasciai poco più avanti, in un parcheggio vicino alla Biblioteca pubblica.
Peacock abitava a quasi un miglio dalla stazione, oltre la North Broadway.
Decisi di lasciare l’auto così distante non solo perché era uno dei pochi posti di Yonkers che conoscevo, ma soprattutto perché avevo bisogno di riflettere. Per farlo meglio entrai in uno dei caffè che si affacciano su una vicina piazza su cui dà la Philipse Manor Hall, che è un edificio in stile georgiano d’inizio Settecento, attorno al quale si era sviluppato il primo insediamento di Yonkers.
Presi un caffè metà latte e metà crema, lo sorseggiai lentamente, e quindi incamminai verso l’abitazione di Eulace Peacock, pensando a quello che avrei dovuto chiedergli, per scrivere l’articolo, e a quello che avrei voluto chiedergli, sul suo rapporto con Jesse Owens.
Venne lui stesso ad aprirmi.
Indossava una giacca in panno di color marrone, adatta al clima ancora fresco di quest’inizio aprile. Sotto la giacca, una camicia bianco avana e a chiudere una cravatta, su cui vi erano disegnati dei simboli floreali alternati ad altri geometrici, che emergevano sullo sfondo di un’altra tonalità di marrone, quasi a fare da contrappunto alla giacca stessa.
Mi presentò sua moglie e quindi mi fece accomodare nella sala.
Su un piccolo tavolino rettangolare erano stati disposti due vassoi circolari, uno contenente una torta di mele, dalla quale erano state già tagliate alcune fette, e sull’altro vi erano dei brownies.
Attorno al tavolo vi era un divano biposto, ricoperto con un copridivano di colore marrone seppia e due poltrone, foderate in una tonalità di marrone più chiara.
Mi sedetti su una delle due poltrone, mentre Eulace Peacock si mise sul divano.
La signora Peacock mi chiese se gradissi un caffè o un tè caldo, ma rifiutai con un cenno della mano, dopodiché lasciò la stanza e socchiuse la porta.
Assaggiai un brownie e quindi presi il mio taccuino, facendo capire al mio ospite che ero pronto per iniziare l’intervista.
Peacock dette un piccolo colpo di tosse, come a dirmi che anche lui era pronto.
Ho iniziato chiedendogli di parlarmi del suo rapporto con il New Jersey.
Mi disse che la sua famiglia si era trasferita nel New Jersey quando lui non aveva ancora due anni.
Di quel viaggio non si ricordava niente e l’unica cosa che mi raccontò era un aneddoto, che era solita ripetergli sua madre.
Quel viaggio l’avevano fatto in treno, era durato vari giorni e, al momento in cui erano partiti dall’Alabama, gli aveva fatto indossare dei pannolini bianchi. Quando erano arrivati in New Jersey, quei pannolini erano diventati rossi, dello stesso colore dei sedili di quel treno.
Quindi iniziò a raccontarmi della sua infanzia, del luogo in aveva abitato nel New Jersey, del fatto che avesse sempre praticato un qualche sport prima di dedicarsi esclusivamente all’atletica.
Poi si fermò, come ripensando al passato, e disse:
«Non avevo perso una sola gara da giovane, la prima sconfitta arrivò il giorno in cui sentii per la prima volta il nome di Jesse Owens.
Avrò avuto sedici o diciassette anni, non me lo ricordo.
Ci eravamo già trasferiti a Union City da diversi anni e gareggiavo per Union High School.
Avevo già vinto i campionati collegiali l’anno precedente e sapevo di non avere avversari nel New Jersey.
Credo che si sia gareggiato a Trenton. No, no! Quell’anno si gareggiò a Newark, ora me lo ricordo bene, perché arrivai a casa in poco tempo.
Non credevo di essere pronto per fare il record collegiale, ma in atletica non ci sono mai certezze.
Ci si allena, si corre, si suda, si fatica, eppoi all’improvviso ti rendi conto che i sacrifici che hai fatto sono serviti a qualcosa.
Mi ricordo ancora il risultato: ventiquattro piedi e tre pollici.
Mi dissero subito che era il record dello Stato e che avrebbe dovuto essere anche il nuovo record nazionale a livello collegiale, solo che per dichiararlo dovevano aspettare la fine delle altre gare di salto in lungo, che contemporaneamente si svolgevano negli altri stati.
Appena uscito dallo stadio mi accompagnarono a casa.
Mi lavai velocemente e accesi la radio, nella speranza che potessero dire qualcosa di quel record.
Infatti, dissero che era stato stabilito il nuovo record collegiale a livello nazionale di salto in lungo, ma non fecero il mio nome, bensì quello di Jesse Owens.
Quello stesso giorno era riuscito ad arrivare a ventiquattro piedi e cinque pollici. Appena due pollici in più del mio record.
Il giorno dopo seppi anche il resto.
Per meno di due ore avevo detenuto il nuovo record nazionale a livello collegiale, ma non era stato solo quello, per quelle due ore scarse era stato anche il nuovo record mondiale juniores.»
Quindi mise un braccio appoggiato sopra la spalliera del divano, come se avesse concluso il suo discorso.
Approfittai di quella pausa per prendere un altro brownie e dopo gli chiesi di raccontarmi qualcosa dell’estate del 1935 e delle sue sfide con Jesse Owens.
«In quella stagione lo superai sette volte.
Quella che avrebbe potuto essere la prima volta alla fine fu di nuovo in una sconfitta, ma mi servì perché quel giorno capii che avrei potuto batterlo.
Successe a San Diego, nel giugno del 1935, in una gara sui cento metri. Lui partì più forte, io lo raggiunsi negli ultimi venti metri e si piombò assieme sul traguardo.
Poi, si restò in attesa del responso dei giudici.
Passò un quarto d’ora, ma questi non si decidevano a stabilire chi avesse vinto.
Nel frattempo, attorno a loro si era formato un capannello di persone sempre più folto. Un mio amico ci s’infilò e si avvicinò così tanto da sentirli discutere.
Quando si uscì dallo stadio, mi disse che avevano deciso di dare la vittoria a Jesse solo perché su quel trofeo c’era già scritto il suo nome, ma in realtà non lo sapevano neppure loro chi avesse vinto.»
Mentre continuava, io non facevo che prendere appunti.
«Pochi giorni dopo iniziarono i campionati nazionali.
Capitai nella stessa batteria dei cento metri di Jesse Owens e quella fu la prima volta che lo superai.
Poi, arrivò il giorno della finale, che quell’anno era prevista per il quattro di luglio.
Allora le piste erano in terra battuta.
Nelle gare di velocità non si partiva dai blocchi come fanno ora. Si facevano delle piccole buche per terra, ci si posizionavano i piedi, si faceva presa con i chiodi delle scarpe e si aspettava lo sparo. Poi bisognava essere subito abili a slanciarsi, sia in alto che in avanti, senza perdere l’equilibrio.
La pista era a sei corsie, come tutte le piste di quell’epoca.
In finale, oltre a me e Owens, c’era arrivato anche Metcalf, che era il campione uscente e aveva qualche anno più di noi. Infine, c’erano gli atleti bianchi, ma noi afroamericani eravamo già i più forti da qualche anno.
Owens era il favorito e partì come al solito, con quella sua corsa fluida e leggera. Si avvantaggiò di almeno un metro, ma ai sessanta io e Metcalf l’avevamo praticamente ripreso e si piombò sul traguardo.
Credevo di aver perso ancora una volta, ma vidi che tutti si voltavano verso di me. Per primi lo fecero i bianchi, poi Metcalf e infine si voltò anche Owens e in quel momento capii che avevo vinto.
Mi dissero che avevo stabilito il nuovo record mondiale, ma che quel risultato non poteva essere omologato perché c’era troppo vento.
Due ore dopo lo battei anche nel salto in lungo e per la prima volta superai gli otto metri.»
Quindi si fermò per qualche secondo, non so se per riprendere fiato o per riordinare i ricordi.
«Come le avevo detto, durante quell’estate lo superai sette volte.
Dopo le due vittorie ai campionati nazionali, nelle due settimane successive lo affrontai altre tre volte sui cento metri e ogni volta lo battei.»
Mentre lo diceva alzò in sequenza il pollice, l’indice, il medio, quindi l’anulare e infine il mignolo della mano destra.
«Poi …», alzò nuovamente il pollice, quasi tendendolo nel suo sforzo di memoria.
«Poi … l’avevo già superato anche in batteria ai campionati nazionali e …»
Eulace Peacock rimase in silenzio, con le dita della mano sinistra che cercavano di rialzare per la seconda volta l’indice, senza riuscirci.
«A metà luglio partii con altri velocisti per l’Europa, per partecipare ad alcuni meeting, mentre Owens rimase ad allenarsi.
In quel mese e mezzo vinsi ogni gara sui cento metri e gli elogi non facevano che crescere.
Dicevano che fossi diventato l’uomo più veloce del mondo e che avrei dovuto essere io a partecipare alle olimpiadi, al posto di Owens.
Poi, ci fu l’infortunio di Milano e alle olimpiadi non ci sono mai andato.»
Si fermò per un attimo, come per riflettere, così gli chiesi se avesse ancora dei rimorsi per quello che era successo e per le opportunità che non aveva avuto.
«Dall’atletica ho imparato a lavorare sodo e a pensare solo a quello.
Dopo l’infortunio ho provato a ritornare ad essere il migliore, ho continuato per anni a lavorare duramente, ma il mio fisico non rispondeva più come prima e non ci sono riuscito.
Forse ho avuto sfortuna, ma ogni sera, quando sono andato a letto, non mi sono mai fatto prendere dai rimorsi per quello che sarei potuto diventare.
Quando ho smesso con l’atletica e ho avuto altri problemi che mi assillavano, ho sempre mantenuto quest’atteggiamento e ancora oggi mia moglie mi chiede come ci riesca. Allora le sorrido e le dico che, se rimanessi sveglio, il giorno dopo non potrei fare niente. Se invece dormo, il giorno dopo sono più lucido e magari quel problema riesco pure a risolverlo.»
Appoggiò nuovamente un braccio sopra la spalliera del divano e compresi che era il suo modo di dirmi che non aveva altro da aggiungere.
Gli chiesi che cosa significasse per lui essere considerato un campione.
«Sono gli altri che decidono se considerarti o meno un campione.
Non lo so, se sono stato un campione, quello che so è che Jesse Owens lo era sicuramente.
Un atleta, per poterlo essere, dovrebbe avere il dono di possedere sia le capacità fisiche, che quelle mentali.
A livello mentale credo che sia come un senso di realizzazione, che ti permette di comprendere che i sacrifici che stai facendo hanno un senso e sono l’unico modo per ottenere i risultati a cui ambisci.
Fra queste due capacità, quella essenziale, è la mentalità. Se non ce l’hai non lo sarai mai, anche se hai le capacità fisiche per poterlo essere.
Ho conosciuto tanti atleti che si allenavano duramente e che avrebbero avuto la mentalità di un campione, ma non erano in grado di portare a casa più di un posto in una finale. Per me questi atleti erano comunque dei campioni, perché avevano compreso dove potevano arrivare e il modo per poterci riuscire.»
Avrei voluto chiedergli altri particolari sul suo rapporto con Jesse Owens, come si fossero ritrovati anni dopo la guerra e a chi fosse venuta l’idea di fondare la “Owens & Peacock Company”, ma il tempo stava scorrendo velocemente e non avrei avuto per redigere il pezzo prima dell’impaginatura.
Gli chiesi così se avesse avuto notizia del ritorno alle gare di Renaldo Nemahiah e mi disse che l’aveva letto da qualche parte, ma che non si ricordava dove fosse stato. Questo fu lo spunto per parlare dell’atletica moderna, delle differenze che c’erano rispetto al momento in cui correva lui e infine gli chiesi cosa ne pensasse di Carl Lewis e se fosse anche lui dell’idea che era il nuovo Owens.
Mi disse che Owens era stato unico e anche Carl Lewis lo sarebbe stato, ma solo il tempo avrebbe deciso come sarebbe stato ricordato.
Dopo gli dissi che era arrivato il momento di chiudere l’intervista, così mi feci accompagnare alla porta e ci si salutò.
Per un po’ continuai a ripensare a quello che mi aveva detto.
Eulace Peacock era stato un campione?
Per me lo era stato, anche se il tempo aveva decretato che ci si dovesse dimenticare di lui.
Era pur sempre arrivato al record mondiale un anno prima di Owens e solo la presenza di un vento eccessivo aveva stabilito che quel record non dovesse essere riportato in nessun albo, ma non era per questo il motivo per cui lo ritenevo un campione.
Lo era, perché era riuscito a superare gli ostacoli che aveva dovuto affrontare, accettando che ci potessero essere e trovando la forza per andare oltre e anche se non era più riuscito a vincere un campionato nazionale nel salto in lungo o sui cento metri,
Anche Owens aveva affrontato i suoi ostacoli e forse quelli che aveva trovato sul suo cammino Eulace Peacock erano solo stati più difficili da superare.
Mentre pensavo a tutto questo, mi ritrovai nuovamente nella piazza dove era la Philipse Manor Hall.
Mi fermai davanti al cancello d’accesso e lentamente mi guardai attorno, poi lo feci più velocemente e ancora più velocemente e questo mi dette una leggera vertigine, come fosse stato il passare del tempo a trasmettermela.
Quell’edificio doveva esser stato sicuramente il più imponente di quel luogo quando fu edificato, tanto che la sua sagoma era probabilmente la prima cosa che le persone riuscivano a percepire di Yonkers quando ci si avvicinavano, mentre ora sembrava scomparire fra i palazzi che lo circondavano, inerme di fronte al trascorrere del tempo.
Lo guardai ancora una volta e mi guardai nuovamente attorno, come se non mi potessi sottrarre dall’attrazione di quella vertigine.
Infine, mi avviai verso l’auto.
Dal punto in cui avevo lasciata si sentiva il rumore delle acque del fiume Hudson.
Decisi di attraversare la strada, superai il sottopasso della ferrovia, che in quel tratto è sopraelevata, e lo osservai.
In quel tratto è decisamente molto ampio, tanto che credo arrivi quasi ad un miglio di larghezza. Poi, dopo che è arrivato a toccare New York, si restringe, come se cercasse d’incunearsi fra gli enormi grattacieli che dominano Manhattan, per poi disperdersi inglobando Ellis Island e le altre isole che formano la baia interna.
Quella mattina scorreva placido e l’osservai per qualche minuto prima di tornarmene verso l’auto.
Eulace Peacock era stato un grande atleta e ciò che lo aveva penalizzato era stato solamente il fatto che avesse vissuto nel momento in cui un altro, che gareggiava nelle sue stesse specialità, aveva fatto qualcosa di eccezionale.
Si può pensare che possa essere solo la fortuna a decidere il futuro o sostenere che ognuno ha il proprio destino e che quello di Jesse Owens dovesse avere a che fare con la gloria, che ne porterà il ricordo lontano nel tempo, ma non è solo questo che rimarrà di lui, perché come il fiume che trasporta con sé tutto ciò che trova per la sua strada, anche il ricordo di Jesse Owens porterà con sé persone e storie che non saranno dimenticate e di queste ne farà sicuramente parte anche Eulace Peacock, che per il breve corso di un’estate era stato l’uomo più veloce del mondo, più veloce anche di chi lo sarà per sempre nel nostro immaginario.