Luigino Vador
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Pubblicazioni: 36 romanzi - 127 racconti -
Riconoscimenti:
In concorsi letterari in Italia e all’estero, ha ottenuto oltre milleduecento riconoscimenti.
Nel 2008 ha avuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il riconoscimento per l’opera “Opzione Italiani!” sull’Esodo Istriano-Giuliano-Dalmata.
Nel 2017 il riconoscimento dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’opera “Senza Ritorno” che ha raccolto anche altri 57 premi.
Ha già partecipato alla edizione:
RESISTERE!
1
L’ambientamento in fabbrica, nel 1965, per me al primo lavoro dopo conseguito il diploma e, in un ambiente che non conoscevo, mi aveva costretto ad adattarmi a quella che è la vita e i rapporti umani all’interno di una grande fabbrica.
La prima cosa che destò attenzione ed anche un po’ di ilarità, fu la mia abitudine a dire sempre “Comandi!” a tutte le domande che mi venivano fatte o per assentire ad una direttiva da mettere in pratica.
Quel “Comandi” con le dovute maniere mi era stato imposto in casa quando qualcuno mi chiamava, per motivo di assenso e disponibilità ad eseguire qualsiasi ordine mi venisse dato e da allora lo avevo adottato con tale convinzione che lo declamavo continuamente. Per gli altri del reparto dove lavoravo, era una parola che si usava solo nelle caserme, ma per me era normale usarla e restò tale, anche perché, pur avessi provato ad eliminarla dal mio lessico, non c’ero riuscito.
Il secondo motivo che destò attenzione era la mia provenienza da fuori provincia. Il fiume Tagliamento che divideva le due province era uno spartiacque molto importante che, specialmente per i più anziani, che divideva due mondi assolutamente diversi e spesso in contrasto per motivi storici e culturali e non era cosa da poco.
Mi piaceva il mio lavoro che avevo scelto di fare con passione e interesse per imparare sempre nuove soluzioni tecniche che si imponevano per ottenere dei risultati migliori in tempi più brevi.
I nuovi progetti aziendali in una fase di boom economico, venivano sfornati dai progettisti a ritmi sempre più frequenti per soddisfare le molteplici richieste che arrivavano in azienda dai mercati emergenti. Bisognava correre contro il tempo escogitando nuovi metodi e soluzioni all’avanguardia; praticamente era imperativo fare efficienza in tutti i settori e per noi, che eravamo i realizzatori del primo prototipo, era essenziale che fornissimo il primo esemplare nel tempo più breve in modo che poi i tecnici potessero fare tutte le prove di verifica.
Mi piaceva talmente il mio lavoro perché era lo sbocco naturale degli studi che avevo fatto, che riuscivo a stare concentrato su quello che dovevo fare, senza nessuna fatica; anzi era una fida che facevo contro me stesso ogni giorno, per riuscire a trovare soluzioni che mi per mettessero di essere sempre più efficiente. Le ore di lavoro passavano talmente veloci che alla sera mi pareva impossibile che fosse già trascorsa tutta la giornata e, durante il rientro a casa, analizzavo quanto avevo fatto durante la giornata e spesso, riflettendo con attenzione, trovavo che qualcosa avrei potuto realizzarla meglio, così mettevo bene in mente come all’indomani avrei proseguito il lavoro adottando quelle migliorie.
Insomma ero innamorato del mio lavoro ed era stimolante dover escogitare sempre nove soluzioni tanto che questo mi faceva sentire felice ed elettrizzato, quando per rispettare le scadenze dovevo fermarmi a lavorare la sera fino a tardi ed anche il sabato, la domenica e le ferie. Capivo che l’azienda aveva bisogno del mio contributo e questo era sufficiente affinché lo facessi con gioia, ed era un sentimento condiviso da tutto il personale del reparto.
Il ’68 con le sue problematiche mise lo scompiglio al sistema che si era consolidato. Le varie sigle sindacali, spesso in contrapposizione tra loro, erano completamente concentrate a prendere potere in fabbrica, a qualsiasi costo.
Ero completamente contrario alle loro prerogative di creare danni all’Azienda per forzare le loro richieste. In fabbrica ormai comandavano i delegati sindacali, che, a loro piacere, prendevano tutti i pretesti, spesso infondati, se non addirittura inventati appositamente, per dichiarare scioperi spontanei a macchia di leopardo, tanto da bloccare così l’intero processo produttivo. Gli operai, anche se contrari sottostavano a questo inaudito comportamento, ma siccome chi era contrario come me, veniva preso di mira con ritorsioni di varia natura, alla fine accettavano senza ribattere, per evitare guai maggiori.
Solo un anziano operaio era del mio parere e mi venne in soccorso, invitandomi a lasciar perdere. Io ero diventato il suo responsabile, ma lui non lo faceva per questo, ma perché non accettava le prevaricazioni. Nei momenti di pausa, quando lavoravamo uno a fianco dell’altro, mi aveva confidato che durante il periodo fascista, per non accettare i soprusi e le violenze del regime, aveva preferito emigrare in Svizzera e ci era rimasto fino a quando, a fine conflitto, il titolare della fabbrica lo aveva richiamato a lavorare per lui, consapevole della sua esperienza e dirittura morale.
«Tanto non capirebbero! Sono dei poveretti che non sanno fare altro. Prima dovrebbero studiare questi!» diceva mostrando i suoi libri dei filosofi Platone, Socrate e Aristotele, che continuamente rileggeva ogni giorno nei momenti di pausa e lo proclamava a apertamente a voce alta in modo che tutti lo sentissero e la stima che godeva da tutti, metteva in discussione fortemente l’operato prevaricatorio del sindacato.
Questa tensione imprevista venne a aumentare le difficoltà di concentrarsi sul lavoro. Mi era improvvisamente venuto più oneroso controllare tutte queste problematiche che non il lavoro per cui mi trovavo in fabbrica.
Poi un giorno, senza nessun preavviso, mentre camminavo per il reparto a controllare il lavoro, ecco che tutto comincia a girarmi intorno. Ho la brutta sensazione di venire inghiottito da un vortice che mi porta dentro un buco nero. Il pavimento sembra un mare in burrasca che ondeggia prima lento, poi brusco, impedendomi di camminare.
Mi sento svenire, ma faccio appello a tutte le mie forze per resistere. Mi avrebbe dato fastidio fare la figura del pero che cade a terra davanti a tutti. Dov’era finito quel ragazzo forte che diceva sempre “Comandi!” per dimostrare la sua completa disponibilità ed efficienza? Avrebbero subito detto tutti!
Facendo appello a tutte le forze raggiunsi l’infermeria e il medico dopo la visita confermò quello che aveva immaginato; avevo avuto un collasso nervoso ma di poco conto.
«Tre giorni di riposo e tornerai a posto!» Concluse.
2
Ma il vortice era sempre dinanzi a me; ad ogni passo mi pareva di caderci dentro. Mi faceva paura questa sensazione che mi toglieva la serenità e provavo sollievo solo a stare a letto al buio. Diversi esami clinici non evidenziarono nessuna alterazione in atto, ma questa sensazione di cadere dentro il vortice, pian piano mi tolse il desiderio e la volontà del lavoro che consideravo la cosa più importante.
Fui così costretto a riempirmi di medicinali per riprendere il lavoro e ad eliminare le situazioni che mi procuravano ansia perché erano il preludio all’arrivo della crisi, con l’apparire del vortice, che mi costringeva a fuggire da dove mi trovavo per rifugiarmi in una situazione che mi riportava alla tranquillità.
Cominciai così ad eliminare tutte le situazioni con presenza di persone, amici, parenti, la chiesa, le banche, gli autobus, i bar, cinema, gli ospedali, i treni e tutte quelle situazioni che mi provocavano la sensazione di essere rinchiuso senza una via d’uscita a portata di mano.
Dovetti anche rinunciare a guidare l’auto, perché mentre guidavo, specialmente quando ero in coda ad uno stop o a un semaforo, improvvisamente venivo assalito dalla sensazione che, essendo in una condizione che mi vincolava, mi avrebbe colpito la crisi; cominciavo a tremare e sudare e tutto mi si annebbiava la vista. Per questo l’azienda acconsentì ad assegnarmi un autista per le visite alle aziende esterne della fabbrica che producevano dei manufatti per la nostra attività che ormai non era più in grado di produrre in proprio per il volume di lavoro che era nel frattempo era aumentato in modo esponenziale.
Ero riuscito comunque a stabilizzare la situazione, ricucendo il mio cerchio di azione individuale e trascorrendo tutti i fine settimana a letto nel buio per cercare di smaltire la tensione accumulata e smaltire un po’ le cariche di medicinali sempre più forti che assumevo per essere in condizioni di riprendere il lavoro il lunedì, conscio che questa situazione che mi aveva colpito, che rifiutavo di considerarla una malattia, aveva sacrificato anche molto la mia famiglia che, vedendomi in che stato mi ero ridotto, si era dovuta sacrificare a modificare le condizioni di vita per cercare di aiutarmi.
Fu proprio durante uno di questi fine settimana che, questo pensiero che si era consolidato fortemente in me, chiuso nel buio della mia camera, mi procurò un sogno particolare.
3
Mi ero sdoppiato in due persone perfettamente identiche fisicamente tra loro, solo che uno era nelle condizioni mentali in cui mi ero appena coricato, mentre l’altra era come ero prima che questo malanno mi colpisse.
I due si erano seduti uno di fronte l’altro e cominciarono a discutere, rinfacciandosi le colpe e i meriti che ognuno vantava per giustificarsi e/o per incolpare l’altro.
«Ma non vedi come ti sei ridotto!» mi aggredì con tono impetuoso e con uno sguardo arrabbiato che non ammetteva repliche di nessun genere e continuò con lo stesso tono e cattiveria:
«Dov’è finita la tua boria di dire sempre a tutti ed in ogni circostanza “Comandi!” e di metterti a disposizione di tutti? Non ti sembra che sia giunta l’ora di smetterla di compatirti e tornare quello che eri da subito? La tua famiglia te la sei scordata? Sta soffrendo e il tuo egoismo l’ha reclusa come se fosse un’estranea! Devi smetterla! Devi svegliarti dal torpore che ti sei cucito addosso come una seconda pelle e prendere in mamo la situazione della tua vita e della famiglia!»
Le sue parole mi avevamo messo al tappeto! Colpito a freddo, ero caduto a terra senza un minimo cenno di difesa. Non avevo difese o giustificazioni da opporre. In ginocchio, avevo solo accennato ad alzare la testa per incontrare il suo sguardo che non era migliorato per lo sfogo che aveva fatto, e aveva ripreso con tanta veemenza che avrei voluto solo supplicare:
«Abbi pietà! Sono inerme e indifeso.»
«Nessuna pietà per chi vuole il suo male! Alzati e difenditi! Oppure dimmi subito” Comandi!” e riprendi il tuo ruolo! È finito da un pezzo il tempo delle commiserazioni!»
Non mi aveva lasciato un solo attimo di pausa per riprendermi dalle pesanti accuse che mi gettava addosso come fango, che continuò imperterrito a flagellarmi:
«Ma ti sei mai visto come sei cambiato! Sembri uno zombi! Sei l’ombra di te stesso. Dove sono finite tutte le tue certezze i tuoi “Comandi!” di cui ti vantavi ed eri fiero che tutti ti additavano come esempio di coerenza? Dai! Alzati e fammi vedere se sei capace di tornare quello che eri come me o se sei un uomo fallito! Fammi vedere chi sei veramente! Muoviti! Dimmi “Comandi!” e riprendi il tuo ruolo. Avanti dimmi “Comandi!” Avanti dimmi “Comandi!” Avanti dimmi “Comandi!” …»
«Basta hai ragione! Comandi! Comandi! Comandi! Comani!» urlai in ginocchio con tuttala voce che riuscivo ad emettere. Urlavo e piangevo tutta la disperazione che mi aveva tirato fuori dall’anima.
Arrivò trafelata mia moglie che dal giardino aveva sentito le mie grida.
Si mise in ginocchio dinnanzi ame; mi abbracciò stretto e a lungo come un bambino che ha fatto un brutto sogno.
«Ha ragione lui! Sono un egoista. Mi sono scordato di voi! Ho perso la bussola!» dissi agitato come non mai ed in preda ad una crisi che mi faceva tremare tutto il corpo.
«Lui chi ha ragione? Ragione di cosa? Ti sei sognato di un problema di lavoro? Ora cerca di calmarti, poi mi spiegherai».
«Lui mi ha parlato! Ha ragione lui!» ripresi. Volevo spiegarle bene la situazione, ma mi accorsi che non riuscivo.
«Lui mi ha parlato! Lui che sono io! Capisci? Ha ragione lui! Comandi! Comandi! Comandi! Devo ricordarmi che io sono “Comandi!”» e mi pareva di essere stato esplicito e chiaro.
Lei mi abbracciò di nuovo stretto e piangemmo assieme a lungo, sciogliendo tutte le lacrime che negli ultimi anni avevamo evitato di versare per non affrontare il problema che mi era capitato e lei aveva sopportato senza costrizioni per non turbarmi ulteriormente, sperando arrivasse il momento che lo avremmo affrontato assieme.
Ora quel momento, in quell’abbraccio, era finalmente arrivato a conferma di quello che avevano previsto i medici, che dovevo toccare il fondo e fare i conti con me stesso prima di risalire, ciò che invece io rifiutavo di credere che ero ammalato.
4
Così cominciai a riprendere l’abitudine di dire “Comandi! e “Luiéme” così avevo deciso di chiamarlo, era contento. Ogni sera facevamo il resoconto di come era andata la giornata e “Luiéme”, per nulla magnanimo nella valutazione, mi dava il suo voto e mi ricordava sempre che, come avevamo tra noi pattuito, non mi avrebbe mai regalato neanche un centesimo di punto.
«Devi guadagnarteli i punti tu stesso ogni giorno sul campo, come lo sai fare se vuoi» ripeteva continuamente. Poco tempo dopo una azienda di lavorazioni meccaniche mi propose di andare a fare il direttore e accettai immediatamente. Volevo ricominciare daccapo e mi fece bene. Quella novità mi riempi di novo entusiasmo e la mia situazione migliorò immediatamente.
Essere da solo al comando mi riempiva di problematiche da affrontare quotidianamente e mi accorsi che era quello che volevo fare e che avevo perso nella gerarchia piramidale della fabbrica che, naturalmente per necessità spezzettava le responsabilità, mentre la fabbrica piccola mi aveva riportato a quelle che erano le mie condizioni idali di lavorare, specialmente perché mi potevo occupare in prima persona anche delle problematiche finanziarie, specialità che avevo con ottimi risultati, ma sempre con un lavoro di squadra, mentre ora potevo finalmente occuparmene in prima persona.
L’ingegnere che aveva temporaneamente ricoperto il mio ruolo prima che arrivassi, mi relazionò sulla situazione in atto, che secondo le sue parole non era florida come asserivano i proprietari, decisamente precaria ed aveva concluso:
«La sera, quando vado a letto, prima di addormentarmi dico sempre una preghiera per questa azienda, che è il frutto di tanto lavoro da parte dei proprietari, ex bravi operai, che però non hanno avuto e non hanno attualmente conoscenze manageriali appropriate su come espandere l’attività.»
Era stato eloquente più di tante parole dei proprietari che avevano solo esaltato la loro azienda.
Le problematiche esposte non mi impaurirono affatto, anche se adottai l’accorgimento dell’ingegnere, recitando anch’io la sera una preghiera per l’azienda, oltre all’incontro quotidiano di relazione, con “Luiéme” che mi aiutava ad andare avanti.
Sviluppai un programma completo di cosa si doveva fare per salvare prima di tutto l’azienda, proponendo una serie di interventi organizzativi e una politica aziendale di sviluppo per il futuro a cui tutti dovevano sottostare, per evitare che l’azienda in poco tempo fallisse.
I soci proprietari accettarono la proposta e specialmente il personale ne fu entusiasta. Nei mesi successivi la situazione migliorò notevolmente, grazie ai finanziamenti che ero riuscito a procurare da un pool di banche. Anche in questa nuova attività il mio “Comandi!” si era inserito in modo straordinario e molti lo avevano adottato, per ringraziarmi della stima che infondevo a loro, considerandoli miei indispensabili collaboratori, dove tutti avevano messo al primo posto la salvezza dell’azienda e di tutti i posti di lavoro. Furono poi gli stessi proprietari a pubblicizzare il mio lavoro orgogliosi di quanto ero riuscito a fare, tanto che nel giro di un anno diversi fornitori, mi chiesero di andare a fare la medesima “cura” nelle loro fabbriche.
5
La proposta non potevo lasciarla cadere nel vuoto; ero orgoglioso del mio lavoro e assicurato i titolari e le maestranze che sarei rimasto loro consulente, accettai il nuovo lavoro.
La dimensione della nuova azienda era cinque volte maggiore di quella che avevo lasciato, ma questo non era un problema; il vero problema era la differenza di intenti tra i soci, tanti e in disaccordo su come proseguire. Da una parte i soci finanziatori cercavano utili a ristoro dei loro finanziamenti, dall’altra parte si voleva invece ampliare l’attività, gestita fino ad allora, assumendo altro personale per i nuovi lavori, credendo che questo fosse un viatico per le banche a concedere prestiti senza garanzia reali.
Capii che ero stato forse imprudente ad accettare senza un colloquio profondo e chiarificatore delle loro posizioni, di cui non avevano fatto cenno.
Emerse il problema quando, analizzato i bilanci, convocai una riunione per metterli al corrente che la situazione non era florida come loro asserivano che erano in pieno sviluppo e per questo dovevano assumere sempre nuovo personale, ma era disastrosa perché squilibrata economicamente e male organizzata come sistema produttivo, infatti i bilanci evidenziavano negli ultimi anni un aumento vertiginoso dei costi che avevano prodotto solo perdite a causa della cattiva organizzazione del sistema produttivo aziendale.
Le ultime iniziative messe in opera dai soci operatori, per dimostrare che quanto io asserivo che non era vero, continuando ad assumere personale al posto di investire in macchinari moderni e automatici che abbisognavano di pochissimo personale e potevano operare a ciclo continuo, portarono al collasso l’indebitamento aziendale nei confronti delle banche, comprese le linee di credito che ero riuscito ad ottenere da istituti bancari alternativi a quelli già impegnati e fu il fallimento.
Chiamato in giudizio dai soci, presentai, a mia discolpa, il piano che già avevo a suo tempo, presentato ai soci e alle banche. Il giudice, annullata la richiesta dei soci, mi nominò tutore dei beni aziendali, invitandomi a presentare presto una proposta di soluzione per salvare quanti più posti di lavoro fosse possibile.
Confortato dal risultato del Tribunale, mi misi al lavoro, creando una cooperativa con gli operai e con l’accordo dei sindacati per la riduzione del sessanta per cento del personale privilegiando i carichi di famiglia, professionalità e anzianità aziendale.
Il personale in esubero fu messo in cassa integrazione in attesa di avviare la prima fase della ristrutturazione e poi gradualmente farli in parte rientrare acquisendo nuove commesse.
Fu necessario fare un forte investimento per dotare l’azienda di macchinari efficienti di ultima generazione con alta efficienza per aumentare la produttività a ciclo continuo a bassi costi per proporre ai nuovi clienti prodotti di alta qualità a prezzi competitivi.
Bastarono sei mesi per capire che avevamo intrapreso la strada giusta. Gli operatori, divenuti soci, che assieme a me avevano garantito impegnando il loro TFR per il finanziamento per i nuovi macchinari, furono entusiasti del cambiamento. Eravamo diventati una delle prime aziende che producevano con un sistema qualità efficiente e certificato e questo ci permise di cominciare a far rientrare i primi operai che erano rimasti in cassa integrazione.
Come spesso accade, questo buon risultato innestò una reazione violenta dei precedenti soci nei miei confronti.
Volevano vendicarsi perché, secondo loro, li avevo fatti fallire e dovetti andare ancora a difendermi in Tribunale. Ancora una volta il Giudice, analizzato le carte che avevo presentato, alla prima udienza mi chiamò per primo e disse al cancelliere:
«Perché ha fatto comparire questa persona?»
Poi rivolto a me, aggiunse: «Lei vada pure a continuare il suo lavoro. Ha ampiamente dimostrato che non c’entra niente con il fallimento e ha la mia piena fiducia.»
Era una vittoria, ma anche l’inizio di una durissima battaglia denigratoria dei soci nei miei confronti, insoddisfatti dalla sentenza che dimostrava la loro incapacità a condurre l’azienda.
6
Cominciò così una lotta contro l’invisibile. Alla mattina mentre mi recavo in fabbrica, per strada cominciai a trovare delle scritte sui muri delle case che costeggiavano la strada che io ogni giorno percorrevo. Frasi offensive e denigratorie nei miei confronti, con tanto di nome e cognome, che iniziarono la lenta e inesorabile demolizione della mia già fragile resistenza.
Richiamai “Luieme”, pregandolo di aiutarmi ancora una volta. Non volevo mettere sul graticolo la mia famiglia, cercando di lasciarla il più possibile fuori da questa triste storia.
Ogni giorno le frasi divennero più indecenti e provocatorie; chiesi allora ai miei più fidati collaboratori di aiutarmi, andando a cancellarle di primo mattino, all’inizio del primo turno delle ora cinque, con del colore bianco, sia nelle case del paese che transitavo che nei muri della fabbrica, fotografandole perché rimanessero le prove per una possibile denuncia. Dopo un po’ di tempo però si stancarono e mi lasciarono solo. Non indagai, se avevano ricevuto delle pressioni dai loro precedenti datori di lavoro; avevo altro cui pensare.
Cercai l’aiuto dei carabinieri, ma anche se avevo raccolto tante foto delle scritte che ormai avevano ricoperto tutti i muri esterni perimetrali dei capannoni della fabbrica. Mi sentii dire che senza una denuncia precisa con i nomi dei sospetti, non potevano fare altro, trattandosi di denuncia contro ignoti, che di far allungare il tragitto della pattuglia notturna, facendola passare anche davanti la fabbrica e che avrebbero tenuto sotto osservazione il comportamento dei soci, che anche loro ritenevano, per il momento, i più accreditati come possibili sospetti su quanto avveniva.
Quando anche gli operatori che lavoravano nei turni di notte mi dissero che loro non si accorgevano di quanto avvenisse, coperti dal rumore dei macchinari, mi vidi costretto ad assumere un investigatore privato per tentare di cogliere qualcuno sul fatto mentre facevano le scritte sui muri. Anche se nessuno era al corrente che avevo assunto un investigatore, stranamente le scritte cessarono, ma iniziarono degli attacchi veri e propri all’azienda per sabotare gli impianti.
Il periodo più pericoloso era nei fine settimana, quando la fabbrica rimaneva isolata dalle 22 del sabato notte e fino alle 5 del lunedì mattina.
Decido allora di assumere ufficialmente un vigilante che restasse presente all’interno della fabbrica durante la chiusura di fine settimana. Il primo fine settimana andò tutto liscio, il secondo successe il finimondo!
Erano le 3 del lunedì mattina quando il vigilante mi chiamò allarmato e spaventato di quanto era appena successo: un attacco in grande scala messo in atto solo per danneggiare l’attività.
Tutte le finestre della fabbrica erano state rotte con il lancio di sassi di cui era cosparso il pavimento interno e trafugati alcuni strumenti di controllo della produzione, senza dei quali non si poteva produrre.
7
Dopo alcuni giorni, da una telefonata di un amico fidato, fui informato che l’avvocato che mi difendeva, dai miei soci che avevano dato vita ad un ricorso avverso il primo grado di giudizio, faceva il doppio gioco riferendo ai soci, in quel momento miei avversari, la linea di difesa che avevo con lui preparato, proponendo loro le opportune contromosse contro di me.
Scattai in auto e, senza preavviso, entrai furibondo nel palazzo dove c‘era lo studio di avvocati associati. D’impeto entrai e, senza dare giustificazioni, mi diressi al suo studio, oltrepassando le due soglie di difesa e riservatezza che aveva, con prima l’ufficio della segretaria e poi quello della sua assistente nell’anticamera del suo studio.
Alla mia entrata nel suo ufficio, vedendomi alterato, cosa assolutamente inusuale per me, aveva già capito tutto del perché della mia presenza; infatti, impacciato e balbettante, tentò di accennare una flebile difesa, con mezze parole biascicate senza senso, ma peggiorò la sua condizione riferendomi imbarazzato una notizia che, nel suo ruolo di mio difensore non poteva assolutamente conoscere e il fatto di enunciarla confermava in diretta il suo doppio gioco.
D’istinto, come un rapace infuriato, feci un balzo dalla sedia e scavalcato la scrivania che ci divideva, gli afferrai le dita delle sue mani con cui cercava di ripararsi il viso.
Cademmo a terra e, nella colluttazione, la rabbia per quello che avevo subito, mi aveva impresso una forza nelle mani che in quel momento avrei piegato quelle dita come fossero di gomma. Me ne quando per un attimo lasciai la presa per riprendere fiato. Il suo dito indice della mano destra alzata, penzolava immobile a livello del palmo.
Non mi bastava.
Mi alzai di scatto per sferragli un altro attacco, ma, al suo urlo lancinante di dolore, accorsero le due segretarie impaurite, mentre anche lui cercava di rimettersi in piedi e di darsi un contegno:
«Sono scivolato accidentalmente e mi sono rotto un dito, portatemi in ospedale per favore» pregò le due signore, allarmate di quanto era accaduto e, mentre con delle garze gli fasciavano la mano, gli urlai, con il mio dito indice avvicinato al suo viso, fino a toccargli il mento:
«Vattene da questa città e non fatti più vedere in giro, altrimenti se ti vedo ancora, ti denuncerò immediatamente all’ordine degli avvocati che, per quello che mi hai fatto, ti radieranno dall’Albo, così avrai finito di fare l’infame che sei!»
Li lasciai lì interdetti e me ne andai. In quel momento non mi interessava niente cosa poteva succedere!
Con mio grande stupore, già all’indomani cominciarono ad arrivare delle telefonate da imprenditori che non conoscevo direttamente se non per la loro attività e qualche riunione presso gli organi degli industriali della zona e tutti mi espressero i loro complimenti per aver contribuito a far sloggiare dalla città quel losco individuo che pure a loro aveva già combinato, come capii, degli inganni da doppiogiochista, proponendosi di risolvere le controversie.
Tutti si dissero anche da subito, se casomai fossero state necessario, le prove di quanto avevano subito.
Non mi parve vero, avere qualcuno che mi poteva aiutare a resistere a tutto quanto di negativo mi stava capitando.
Dopo un mese dallo scontro con l’avvocato, andai nel suo ormai ex ufficio a ritirare le carte della difesa che avevo preparato e mi informarono che l’avvocato si era trasferito in un’altra città.
8
Intanto le intimidazioni telefoniche registrate nella segreteria o annunciate in diretta erano un supplizio da affrontare ogni notte.
Era un prezzo da pagare? Forse si pensai, ma una sera il tono delle minacce si elevò di pericolosità.
“Ricordati che hai un figlio!” Recitava il messaggio.
Non potevo assolutamente ignorarlo e per di più dovevo fare tutto all’oscuro di moglie e figlio.
Non fu facile assolvere anche questo terribile pensiero che mi affliggeva mente e cuore, ma dovevo resistere. Abbandonare era come ammettere che loro avevano ragione e questo non potevo permetterlo.
I miei vari tentativi di richiesta di aiuto alle forze dell’ordine si infrangevano come sempre dinanzi alla domanda di fornire dei possibili nomi di chi mi stava minacciando, con il rischio, che una volta che venissero a saperlo, ero convinto che avrebbero scatenato l’inferno.
Quelle poche ore per notte che riuscivo un po’ a dormire, sempre in allerta dell’arrivo di una telefonata minatoria, non riuscivano a farmi recuperare la tensione di cosa stavo vivendo e il mio fisico, cominciava a darmi chiari segni che stavo crollando.
Sognavo che avevo il mondo contro e non riuscivo a trovare la scappatoia per uscire da quell’inferno che, giorno dopo giorno, mi stava inghiottendo.
9
Non era facile e spontaneo assolvere agli innumerevoli compiti che riguardano la conduzione di una azienda, sommati a quanto mi stava succedendo di vere persecuzioni a livello personale e familiare.
Un giorno stavo viaggiando in direzione della città per delle incombenze da valutare con il nostro commercialista, seguendo alla radio la musica appena accennata di una sinfonia che non conoscevo, ma che mi faceva ricordare momenti di fanciullezza lontana, così dolci e coinvolgenti da lasciarmi finalmente la mente libera.
Automaticamente presi a seguire l’auto che mi precedeva, assorto nei pensieri gioiosi che la mente mi proponeva e il tempo intanto trascorreva lieve senza intoppi assillanti.
I chilometri procedevano e desideravo che non finissero, per non perdere quella sensazione strana ma bella che stavo vivendo.
Non dire da quanto tempo effettivamente questa sensazione mi aveva colpito, fatto sta, che a un certo punto svoltai a destra e parcheggiai l’auto davanti ad un Santuario.
Mi sentivo strano, come se qualcuno si fosse impadronito della mia volontà e mi stesse guidando. Quasi barcollando, un passo dietro l’altro mi trovai dinanzi ad una porta di legno, in una della cappelle laterali del santuario, con scritto sopra “Frate Tarcisio”.
Mi parve come se qualcuno mi volesse buttare dentro oltre quella porta, con tale forza da costringermi a fare quattro passi prima di riuscire a fermarmi, davanti ad un inginocchiatoio, dietro il quale, sedeva un frate su una sedia, intento a leggere un grosso libro.
«Ti aspettavo!» disse tranquillo, accennando un ampio sorriso.
«Non capisco!» Risposi, quasi spaventato di quanto fino ad allora mi era successo.
«Non preoccuparti di quanto è successo. Qualcuno che ti vuole bene, ha permesso questo. Ora rilassati, stringiamoci le mie mani e raccontami quello che vuoi.»
Tentai di far uscire una prima parola, ma il collo era chiuso dall’emozione e dal fatto che non capivo cosa mi stava accadendo.
Appoggiai le mani, una sopra l’altra sull’inginocchiatoio e sopra ci deposi la testa, mentre copiose mi scendevano, senza controllo grosse lacrime a lavare le mani e scendevano a terra.
Lui appoggiò le sue mani sopra la mia testa e si mise a pregare a voce alta, e contemporaneamente iniziò a piangere, manifestando una sofferenza tale che mi penetrava nel corpo rilassandomi piano piano, fino a quando sfinito ero entrato, in una condizione d’incoscienza, ma allo stesso tempo di serenità che non avevo mai provato.
Queste preghiere che io non conoscevo, durarono per parecchio tempo.
Frate Tarcisio le terminò di recitarle proprio contemporaneamente al mio recupero totale della condizione di ansia e stress che mi aveva assalito quando ero arrivato al suo cospetto e avevo incrociato il suo sguardo così penetrante, dinanzi al quale non avevo avuto la forza di resistere e mi ero sentito come annientare tutto, la volontà e le forze, concedendomi solo la possibilità del pianto.
Quando ero entrato nel suo confessionale, tutto mi pareva scuro, avvolto in una fitta nebbia che annullava le forme intorno, alterando la realtà. Ora invece tutto mi appariva, sereno, limpido. Le forme e tutto l’ambiente, avevano riacquistato la loro naturale presenza e solennità in quel santuario intitolato alla Madonna.
Avevamo ripreso la medesima condizione di quando ci eravamo trovati uno di fronte l’altro, al momento del mio arrivo. Io mi sentivo stranamente sereno, come non mai. Avevo desiderio di sorridere, anche se mi pareva di non esserne più capace.
Frate Tarcisio capì anche questo particolare e mi disse:
«Rilassati! Il peggio è passato! Ora vai sereno! Anche se non mi vedrai, devi sapere che io ti seguirò e pregherò per te. Prega anche tu e ricordati ogni tanto dei suggerimenti che ti dava tua madre!»
Mi prese la testa tra le sue mani, mi diede un bacio in testa e una benedizione.
«Ora vai sereno e sorridi!»
Uscito dal confessionale, la chiesa si era completamente illuminata dal sole al tramonto che filtrava dalle vetrate ad ovest e una lama di luce rossastra colpiva proprio l’effige della Madonna posta sull’altare.
Era una coincidenza o la divina conclusione di quanto avevo vissuto?
Non tentai una risposta. Mi avvicinai all’altare e inginocchiato sui gradini che dividono la navata dal presbiterio, dissi una preghiera con tutta la gioia e il ringraziamento per la pace che avevo recuperato.
Poi uscii e andai a casa felice come non mai a donare questa serenità alla famiglia che da tanto tempo non c’era più.
10
Feci installare, all’insaputa di tutti, una telecamera all’interno della cabina elettrica, distante venti metri dalla fabbrica, per osservare chi faceva gli attentati durante le notti e scoprii che era un dipendente, assoldato dai soci, per sua ammissione. Con un accordo sindacale, visto la registrazione video, venne licenziato in tronco evitandogli la denuncia penale.
Una sera d’inverno verso le ore venti, all’ennesima telefonata mi sentii sicuro di riconoscere la voce: alzai la cornetta e lo chiamai per nome.
Lui trasalì e d’istinto disse:
«Si sono io e ti voglio ammazzare! Perché hai distrutto la mia azienda!»
«Bene risposi! Sono pronto, perché questa cosa dobbiamo finirla! Dove sei ora che ti raggiungo?»
«In fabbrica!»
«Bene! Dammi solo il tempo di arrivare!»
Le mie parole avevano intanto terrorizzato mia moglie e mio figlio:
«Dobbiamo essere forti! Solo così risolveremo questo problema per sempre!»
Ci abbracciammo stretti piangendo.
Una telefonata a Giuseppe, un amico fidato, per informarlo di cosa stavamo per fare e siamo partiti.
Strada facendo spontaneamente abbiamo recitato un rosario.
Parcheggiai l’auto fuori dal cancello della fabbrica, sotto un lampione della illuminazione stradale. Un bacio a moglie e sereni e, se non fossi tornato dopo mezz’ora che chiamassero Giuseppe, che sarebbe intervenuto. Lui era al corrente di tutto e gli avevo dato disposizioni e testimonianze.
Nei pochi passi che mi dividevano dall’ingresso, come un fulmine mi arrivò in testa un pensiero che mamma era solito ricordarmi, convinta nella sua fede e certa che un principio sano da insegnarmi:
“Ama specialmente i tuoi nemici, e se qualche impedimento non ti permette di guardarlo negli occhi per dirglielo, prega Dio, affinché intervenga in suo soccorso, illuminandogli la mente e aprendo il suo cuore!”.
Bussai alla porta e venne lui, Stefano ad aprire, come mi aspettavo. Era uno dei soci, discreto tecnico, ma senza la minima cognizione di gestione amministrativa e controllo dei costi. Fautore e mandante di tutto quello che mi era fino ad allora stato capitato, dal momento che il Tribunale aveva decretato il loro fallimento.
Tagliai corto:
«Eccomi sono qui! Ora ammazzami pure come mi hai minacciato. Questa storia deve finire oggi!»
Seguì un lungo elenco di Stefano dei fatti successi, che avevano portato al fallimento. Tagliai corto ancora:
«Sai bene che quando i tuoi soci mi chiamarono per cercare una soluzione allo stato di insolvenza in cui si trovava l’azienda feci l’impossibile per trovarvi un finanziamento che arrivò, ma non bastò ad evitare che i creditori facessero ingiunzione di fallimento al Tribunale. Il resto della storia vera, non delle chiacchiere, tu la conosci molto bene, come la persecuzione a me rivolta. Il mio intervento fu solo di rispondere, come direttore al Tribunale, preoccupato di verificare se almeno una parte dei lavoratori si potesse in qualche modo salvare, come ho fatto, su autorizzazione dello stesso Tribunale che ha approvato la mia relazione. Questo è tutto!»
Ci fu una lunga pausa di silenzio. Avevo risposto alla sua domanda guardandolo dritto negli occhi. Poi lui aveva abbassato lo sguardo seguendo il movimento che faceva con la mano destra, roteando la pistola in cerchio sul tavolo che ci divideva, facendo perno sul suo indice.
Attesi a lungo una sua risposta. Poi cercai di sbloccare la situazione:
«Stefano io sono disposto a dimenticare tutto, a patto che cessino immediatamente tutte le intimidazioni di ogni genere contro di me e la mia famiglia» e allungai la mano verso di lui, come offerta di condivisione.
Ancora silenzio. Io restai con la mano tesa. Lui dopo alcuni lunghi minuti, smise di ruotare la pistola sul tavolo, alzò la testa, incrociò il mio sguardo”
«Va bene» sussurrò con voce sommessa, quasi facesse fatica a parlare.
Ci stringemmo istintivamente le mani e ci salutammo.
Raggiunsi di corsa la mia auto e, nel ritorno, ringraziammo il cielo che aveva senz’altro tenuto presente le nostre suppliche, forse anche con l’ausilio dell’intercessione della fede di mamma.
11
Una pausa di serenità, mi permise di dedicarmi completamente alle problematiche della fabbrica e riprendere il programma che avevo pattuito e sottoscritto con il Tribunale per il futuro dell’azienda. Visitai per prime le aziende che già mi conoscevano ed i risultati furono subito entusiastici.
La storia che avevo vissuto, puntualmente raccontata dai giornali li aveva pienamente convinti del mio operato che si aggiungeva alla stima personale e garanzia supplementare nei miei confronti.
Le soluzioni innovative che avevo sperimentato con risultati positivi e proposte per migliorare i loro prodotti, furono la chiave che aprì la strada per l’avvio di una collaborazione così importante che ci offrì la possibilità di richiamare al lavoro diverse donne che al momento della crisi conclamata, erano state poste in cassa integrazione.
Questa svolta era stata possibile grazie all’investimento di nuovi macchinari automatici che erano in grado di produrre una quantità tre colte superiore e con una maggiore qualità garantita in modo assoluto dai nuovi macchinari, che per la loro potenzialità produttiva permisero un rientro anticipato dell’investimento.
Un unico neo venne a turbare quel bel periodo di serenità.
12
Un giorno d’estate, al mio arrivo di prima mattina in fabbrica, una situazione inattesa e alquanto significativa della motivazione che l’aveva provocata, mi lasciò di promo acchito meravigliato ma subito dopo anche molto, molto preoccupato.
Diverse mezzi della polizia e carabinieri, avevano circondato le due fabbriche attigue l’una all’altra, dove in una operavamo io, assieme ai dipendenti-soci e, nell’altra, Stefano con i suoi soci e qualche dipendente donna, che negli ultimi tempi avevano assunto.
I poliziotti si erano dislocati perimetralmente, con le armi spianate, per controllare che nessuno potesse uscire dagli stabilimenti circondati.
Mi intimarono di parcheggiare nel piazzale antistante, di mostrare i documenti, e di attendere il responso che avrebbe il comandante della pattuglia che già si trovava all’interno dello stabilimento dove solitamente lavorava Stefano.
Trascorso qualche minuto, ritornò indietro il poliziotto assieme al comandante che aveva in mano i miei documenti, che mi salutò cordialmente riconsegnandomi i documenti, con il monito, di entrare pure in fabbrica, ma con l’ordine di non far uscire nessuno.
Salutai gentilmente, ma non accennai che da un paio di anni ci conoscevamo, a causa delle mie note disavventure con Stefano e i loro soci, che mi avevano costretto a recarmi nella loro caserma a chiedere aiuto.
Sicuramente anche lui mi aveva senz’altro riconosciuto, ma come me, aveva deciso, che non era quello il momento di rinvangare quanto era successo.
Dal mio ufficio avevo una visuale completa di tutto lo spazio antistante le due fabbriche e, poco dopo, erano arrivate altre due auto civili scortate da due motociclette dei carabinieri e, tutti gli occupanti delle due auto erano velocemente entrati all’interno dei capannoni di Stefano.
Trascorsero un paio d’ore senza nessun ulteriore novità, poi improvvisamente uscirono dai capannoni due file parallele di carabinieri che tenevano al centro Stefano in manette e con la giacca posta sopra la testa nel tentativo di non farsi vedere.
Il comandante, quando tutti si erano allontanati, venne nel mio ufficio.
«Buongiorno!» disse con un tono di soddisfazione nei miei riguardi, fissandomi diritto negli occhi.
«Il tempo sistema le cose!» aggiunse, appoggiando la sua mano sulla mia spalla, con un accenno di sorriso.
«Comandante, quanta sofferenza, quanta cattiveria e quanto dolore, io e la mia famiglia abbiamo dovuto subire.»
«Lo so molto bene. Ma mi creda, spesso la burocrazia ci impedisce di agire come vorremmo. Comunque ora stia tranquillo. Anch’io sono felice che questa triste storia sia finita bene per lei» disse appoggiando un’altra volta la sua mano in gesto di comprensione.
Ci salutammo con una forte e sincera stratta di mano ed un sorriso reciproco di soddisfazione.
Non seguii più il caso e non volli mai rispondere ai tanti che mi chiedevano notizie! Per me era tutto finito, per sempre.
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La ritrovata serenità mi diede il tempo e la determinazione di cercare e analizzare, anche nel dettaglio, tutte le piccole cose che non funzionavano perfettamente.
Ricevevo periodicamente dai capi turno, tutti maschi, tante osservazioni di cosa, secondo loro, non funzionava a dovere e di come si potevano risolvere i problemi.
Nell’accurato lavoro di analisi, coinvolsi anche alcune donne che svolgevano il loro lavoro sulle macchine automatiche, compiendo il medesimo lavoro dei capiturno, ai quali in più rispetto alle donne, dovevano solo firmare i cartellini della qualità, indicando il numero del lotto e la data di produzione in due copie, di cui , una seguiva il prodotto dal cliente e uno veniva archiviato per conoscere la storia di ogni particolare meccanico che veniva prodotto, nel pieno rispetto delle regole della qualità.
Le donne convocate, alla mia proposta di nominarle capiturno al posto dei loro colleghi maschi, si dissero disposte immediatamente succedere nella mansione da subito, senza nessun problema.
Le problematiche cessarono immediatamente e si riuscì ad aumentare efficienza e produzione, con le capo turno donne, che da quel giorno divennero sempre sorridenti nel salutarmi quando le incontravo nei giri che quotidianamente, facevo nei reparti.
Ebbi la certezza che la serenità avesse migliorato i rapporti di tutti i dipendenti all’interno della fabbrica, quando un dipendente che avevamo dovuto assumere un giovane ingegnere perché perseguitato politico aveva dovuto fuggire dal Madagascar e approdato in Italia era in attesa che la situazione migliorasse al suo paese di origine per rientrare ed era in attesa di ricevere i documenti.
Parlava bene la lingua italiana e conosceva il disegno meccanico. Gli venne assegnato in un primo tempo un lavoro semplice e ripetitivo in modo che si ambientasse.
Dopo un po’ di tempo mi accorsi che seguiva i miei movimenti in fabbrica e quando incrociava il mio sguardo, sprizzava felicità da tutti i pori, tanto che i suoi splendidi denti bianchi che mostrava in tutta la sua totalità, sembravano un piccolo faro acceso in quell’angolo, un po’ buio dove era posta la sua attrezzatura di lavoro.
«Buongiorno direttore!» che continuava a pronunciare di continuo, fino a quando non ricambiavo il suo saluto: «Buongiorno Tommy, grazie!»
Il personale gli aveva attribuito questo nome facile da pronunciare, usando un po’ di lettere del suo cognome vero, impronunciabili, composte un misto di poche vocali ed una sfilza di consonanti, pronunciate con un suono gutturale inimitabile.
Alla fine lo avevano “battezzato” “Tommy” e lui ne era rimasto entusiasta. Quando gli passavo accanto per il corridoio che divideva gli spazi delle lavorazioni meccaniche, da quelle adibite al transito dei muletti che prelevavano il materiale finito, da spedire, e riportavano, accanto ai macchinari, quello grezzo da lavorare, lui si metteva all’erta in modo e seguiva i miei spostamenti, fino a quando io mi sentivo in dovere di fermarmi accanto a lui per scambiare qualche parola.
In uno di questi brevi incontri, sottovoce mi disse che a lui restava del tempo libero tra un ciclo di lavorazione e il successivo e mi pregava di aggiungergli qualche impegno perché fosse occupato continuamente, e aveva aggiunto:
«Direttore! Ho bisogno di non pensare, altrimenti sprofondo nella malinconia della mia famiglia, fino a sentirmi male! Io, da quando lavoro in questo macchinario, adopero il tempo che mi resta a disposizione a pulire il macchinario, infatti potrà osservare che ho fatto emergere perfino la vernice di quando era nuova. Ma non mi basta. Ho bisogno di fare qualcosa che impegni la mia mente!»
Non potevo ignorare la sua supplica, fatta con gli occhi chiusi che trattenevano il pianto.
«Va bene Tommy! Ti farò aggiungere, a quanto fai ora, anche l’imballaggio dei particolari che ora lavori, così sicuramente avrai tutto il tuo tempo disponibile saturato. In più ti prometto che cercherò di informarmi con le autorità preposte se è possibile farti anticipare i documenti in modo che tu possa rientrare al tuo paese.»
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«Dai il meglio di te, e lavora, mettendo davanti il rispetto verso tutti, che siano più grandi o più piccoli, di te. I più grandi, ascoltali, i più piccoli, aiutali..., e fatti voler bene da tutti…».
Fin dall’uso della parola mi era stato insegnato questo concetto che racchiudeva la massima che governava non solo il mio nucleo familiare, ma inizialmente tutta la nostra famiglia patriarcale. Era un biglietto visita con cui la famiglia si presentava, ma non era sempre semplice applicarlo automaticamente in tutti i rapporti che la vita presentava dinanzi. Mamma l’aveva poi modificato, rendendolo più esplicito e togliendo d’un colpo tutti le possibili deroghe nell’applicazione, aggiungendo la frase:
“Ama specialmente i tuoi nemici, e se qualche impedimento non ti permette di guardarlo negli occhi per dirglielo, prega Dio, affinché intervenga in suo soccorso, illuminandogli la mente e aprendo il suo cuore!”.
Mamma era minuscola di statura e di parca di parole, ma era un gigante per la fede che aveva dentro di sé e il suo operato era un tutt’uno con il suo credo e ogni sua azione ne era sia la rappresentazione, sia il risultato evidente dell’efficacia della sua opera.
Pur con la presenza di un esempio così determinante che non delineava un semplice segno su cui indirizzare il mio cammino di crescita, ma un solco, un fossato gigantesco dal quale sembrava che argini così imponenti e solidi impedissero di prendere scorciatoie, mi succedeva di deviare verso qualche meta che ritenevo più piacevole. Mamma allora sfoderava tutta la sua infinita comprensione ed umanità materna nel riportarmi a riconsiderare l’errore e valutarne assieme gli effetti e, alla fine, era piacevole lasciarmi convincere dalle sue parole rassicuranti, dove il bene vince sempre sul male.
L’ambiente rurale di un minuscolo paesino di campagna era stato l’incubatrice dove il pensiero di mamma si era manifestato e cresciuto accompagnandomi nei primi anni di vita e per la durata delle scuole elementari. Poi questo insegnamento e il periodo straordinario di trasformazione della società con l’inizio del boom economico che iniziava alla metà degli anni ’50, cominciò a divenire più arduo da applicare, sotto l’influenza degli innumerevoli stimoli che il progresso aveva iniziato a manifestare, imponendo una visuale del mondo dove la ricerca di beni materiali e benefici economici personali, emergevano prepotenti, smantellando di colpo principi, tradizioni e concetti di vita semplice che fino ad allora avevano governato i rapporti umani in una società semplice come quella dei piccoli paesi rurali, dove l’economia prevalentemente agricola aveva fino ad allora privilegiato la condivisione di principi semplici che avevano guidato per secoli i rapporti umani.
La nostra famiglia che per la sua grandezza ed importanza che aveva avuto, ed aveva, cercò di resistere più a lungo possibile a questa spinta verso il progresso dirompente, fu, alla fine, quella che ne pagò lo scotto più pesante. Sembrava che il benessere accumulato potesse fare da salvaguardia verso lo smembramento che portava ad ottenere senz’altro una maggiore libertà personale dei singoli, a scapito della forza complessiva della famiglia unita, che divisa in quattro parti, non aveva più la capacità di primeggiare come quando era, per tutti, un esempio di forza data dalla compattezza di tutti i singoli.
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Mi sembrava fosse trascorso un attimo, da quando avevo iniziato il lavoro al termine degli studi.
Avevo rincorso con passione e orgoglio gli impegni che il lavoro presentava dinanzi; uno dopo l’altro erano volati trent’anni. Il caso o la fortuna mi aveva favorito, facendomi percorrere un itinerario lavorativo che mi aveva consentito di occuparmi di molte attività interessanti che avevano si necessitato del mio massimo impegno, ma che mi avevano consentito di accumulare una grande esperienza in tutti i settori importanti dell’azienda, dandomi la consapevolezza di sentirmi pronto per affrontare nuove esperienze all’esterno dell’azienda dove potevo mettere a frutto ciò che avevo imparato.
L’occasione si presentò presto. I titolari di un’azienda artigianale di medie dimensioni mi cercò per offrirmi di dirigere la loro fabbrica in espansione, nell’intento di trasformarla da una conduzione familiare ad una manageriale per affrontare il mercato con le dovute conoscenze e professionalità necessarie.
L’idea subito mi entusiasmò! Dov’ero ormai non avrei avuto altri sbocchi. L’azienda era diventata una multinazionale e lo sviluppo futuro sarebbe stato fatto nei paesi emergenti, dove il costo della manodopera era inferiore. La globalizzazione era iniziata ed i criteri economici dello sviluppo rispondevano a regole e principi commerciali che non tenevano più conto della realtà locale.
Mamma non c’era più, ma rispolverai di nuovo i principi che lei mi aveva fin da piccolo insegnato e pieno di buona volontà mi disposi a dare il meglio di me per la nuova attività.
Ora dopo tanto tempo tutto si è attenuato. L’atmosfera che respiro non alimenta più ragioni interessanti d’impegno, o motivazioni sufficienti a prendere iniziative, ma solo domande interminabili del perché certe cose sono accadute e altre invece no.
Tra queste quelle più insistenti riguardano l’impegno profuso e i risultati raggiunti: ne è valso la pena?
In ogni storia che si vive c’è sempre una parte irreale di noi che s’insinua tra le parole che scriviamo senza che ce ne accorgiamo e che senza la nostra volontà talvolta ne decida il percorso o una curva da imprimere anziché continuare a percorrere la strada diritta.