Maria Pia Zacchi
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Insegnante in pensione, prosegue nella sua attività di scrittrice.
Ha al suo novero diverse pubblicazioni, soprattutto romanzi.
Vive in mezzo a un bosco con suo marito Ettore e i suoi cani.
È figlia d'arte, suona il pianoforte, dipinge, si dedica al giardinaggio e alla cura degli animali, anche selvatici.
La contraddistingue una fede profonda in Gesù Cristo
Ha già partecipato alla edizione:
Sinossi
Il romanzo si rivolge a chi apprezza gli intrecci ad alta tensione, le storie d’amore, i conflitti interiori fra uomo e Dio, la violenza sulle donne e, in generale, i temi che fanno riflettere sulle problematiche dell’esistenza umana.
Si parte da una domanda sottintesa: e se un parente di una persona assassinata non ne accettasse l’uccisione e reagisse al di fuori dei soliti schemi?
Al prologo, scritto in prima persona, segue la vicenda narrata in terza. Siamo negli anni attorno al 2000, nella bellissima Genova saporosa di mare.
La famiglia Pardini, genitori e due figlie, Cleofe e Cecilia, vive una tranquilla esistenza fatta di onesto lavoro. Cleofe è impiegata (malvolentieri) presso lo scapolo avvocato Nogliasco ed è fidanzata con l’insulso Mino; Cecilia sogna di prendere il velo, ma ha uno spasimante, Beppe, un bravo ragazzo. Ama gli animali e quando una vicina di casa uccide a coltellate un cane ne rimane sconvolta, non concependo che si possa versare il sangue di un essere vivente. Ma esattamente un anno dopo ecco che sua sorella viene assassinata in modo altrettanto cruento nell’ufficio dove lavora.
Cecilia, sconvolta, si getta alla ricerca del colpevole, al punto da dimenticare affetti e lavoro. Beppe desidera sposarla e tenta di indurla a ragionare, ma lei arriva a mettere le mani addosso a Mino, principale sospettato dagli inquirenti, e a pedinare l’avvocato che, spalleggiato dalla madre e dalla portinaia Corinna, ha comportamenti sospetti.
La fede di Cecilia è soffocata da rabbia e depressione, dal desiderio spasmodico di scoprire la verità, dall’impossibilità di conciliare l’amore per Dio con la violenza subita da Cleofe.
Beppe crede che la soluzione sia sposarla e tanto insiste che lei accetta, ma con una clausola: sarà veramente sua moglie solo a delitto risolto.
Mentre inizia il primo processo contro Mino, una cui traccia di DNA è stata rinvenuta sulla camicetta di Cleofe, e mentre si percorrono piste alternative, il matrimonio si rivela un inferno e Beppe finisce col rifugiarsi nelle braccia di un’altra donna. Ne nasce un dramma in cui Cecilia comprende di amarlo. Tornano insieme, tra un susseguirsi di colpi di scena nelle indagini, l’intervento di un detective, la morte misteriosa di Corinna e il dono di un libro che tocca Cecilia nel profondo.
Di fronte al mistero della morte violenta e delle sue conseguenze, nell’impossibilità di scoprire il colpevole, l’incontro di Cecilia con una terribile malattia che assale i corpi senza speranza (la lebbra) le fa risolvere il conflitto interiore che la dilania e trovare una strada per sopportare il dolore senza lasciarsene distruggere.
Finalmente, riconquistata la fede, si abbandona all’amore di Beppe e ben presto gli annuncia di aspettare un bambino. La vita non è fatta solo di orrori, ma anche di miracoli meravigliosi. Basta aver occhi per vederli.
TEMPIO DI DIO
Un viaggio dentro l’assassinio
2
“Che cos’è il corpo alla fine? Una zavorra fonte di infiniti dolori e di transitori piaceri, un involucro deperibile che ci portiamo appresso più o meno consapevoli della sua funzione.”
“Ti do ragione riguardo ai dolori e ai piaceri. Il corpo è carne, per cui va soggetto a danni e lusinghe. Ma zavorra? Involucro? Proprio no. Il corpo è stato creato da Dio per avvolgere ed esaltare l’anima, per condurci verso la perfezione trascendente dove persino i muscoli e il sangue possono avere la santità necessaria al Paradiso. Il corpo è un luogo che ospita Nostro Signore e come tale va onorato e rispettato. Il corpo è tempio di Dio”. (MPZ)
Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. (I Cor 6,19)
Genova è Genova, non si può descrivere, non si deve. Genova la assorbi coi sensi, ti impregna dai pori della pelle, la fiuti, la senti, la ingurgiti cogli occhi. Genova è il porto, il porto è il viaggio, il viaggio è il mare, coi suoi orizzonti infiniti dai colori sgargianti. Genova è il blu del Mediterraneo e il giallo del sole, l’azzurro perfetto del cielo e il verde duro e spinoso dei monti. Genova è tenacia, sudore, dolore, forza, fatica. Genova è la sua gente che mugugna, che tace, che guarda, osserva e non dice.
È una città dove il lavoro è amato di per se stesso, dove chi si mette in mostra è guardato con sospetto, mentre tutti praticano il low profil, il muoversi ed agire come se si avesse il freno a mano perennemente tirato, come se una parola o un gesto di troppo esponessero ad un crollo sociale, perché qui non si ha tempo per il superfluo, né per l’inutile. Qui si deve soltanto sgobbare e conservare, immagazzinare e soppesare, ma mai gridando o sventolando chissà quale bandiera, sempre e soltanto stando zitti e un po’ imbronciati, ché non accada di sprecare un sorriso quando non ne vale la pena. Questa è Zena, bellissima e generosa, checché se ne dica, piena di coraggio e combattiva come poche al mondo, pregna di un’umanità e di una fede che tanto ancora hanno da insegnare. E’la Genova che amo, capace di silenziosa sofferenza e fatica, ma pronta ad aprirsi come fa l’ostrica quando ti dona la perla: improvvisa e spontanea.
Sotto casa nostra, proprio all’angolo col Vicolo Corto, è incastonata una delle tante nicchie con la Madonnina che ornano i palazzi della Superba. Si tratta di un altorilievo del Seicento o ancor più antico, con secoli di polvere incrostati sopra e il faccino dolce della Vergine reclinato sul Bimbo che tiene fra le braccia. Questa per me è Genova.
Peccato che non l’abbia detto a mia sorella. Tante cose non le ho mai detto. Troppe. Non passa giorno che non pensi ‘dovevo dirle questo’ oppure ‘dovevo raccontarle quest’altro’. Ormai non le dirò più niente, non di persona almeno. Mia sorella l’hanno ammazzata e nessuno me la ridarà più. Trascorrerò gli anni a cercare di guardare avanti, ma so che di punto in bianco nella mia testa scoppierà quella frase: “Dovevo dirle che…”. E il pensiero si contorcerà sterile dentro il mio cervello e lì si divertirà a dilaniarmi, crudele, inutile, poiché lei è morta, morta ammazzata, e indietro non si torna. Punto.
Morta.
Non di malattia, curata e vegliata, pur nello strazio, pregando e sperando.
Non per un incidente da maledire, l’auto che sbanda, un errore di manovra, un automobilista ubriaco, assurdo, incredulità, la pioggia.
Non per suicidio: cosa non abbiamo fatto per te? Cosa si poteva fare?
Non per fatalità: un fulmine, uno scivolone, una tegola…
No.
No.
No.
Mia sorella è stata assassinata ed io l’ho vista, immersa nel suo sangue, il petto che ancora si sollevava, l’espressione quieta dell’ineluttabile divenuto realtà, inerme e innocente perché perita di morte violenta e questo cancella tutto ed urla al cielo il lamento di Abele. Morire così è un’altra storia, una storia diversa da tutto. Morire così sconvolge chi resta, oltre ogni dire. Un trauma che incide con una ferita atroce i visceri e che non guarisce più. Mai più.
La vigilia di San Lorenzo.
La casa dei loro genitori è rimasta la stessa nel tempo. Una casa senza età, dai muri di un colore indefinito, forse giallo ocra, forse un accenno di rosa vinaccia che traspare in qualche crepa dell’intonaco precedente. Un vicolo, anzi un carruggio: le finestre di fronte che rivelano tutto e il balconcino che quasi entra nell’intimità della famiglia vicina. Due gerani rossi col sottovaso ricavato da una scatola di latta, il cavo per stendere. Dentro, la cucina piccolina con le pentole appese in fila a quelle vecchie griglie di legno che usavano prima della guerra, due camere da letto, una per mamma e papà e una per le due sorelle, un bagno dalle piastrelle celesti, il salotto buono con la tv, le poltroncine e un tavolo rotondo coperto dal pizzo all’uncinetto in cui eccellevano le antiche donne di famiglia. L’ingresso? Tre metri quadrati col pavimento alla ligure, tanto bello; l’appendiabiti ricoperto di velluto cremisi e una specchiera dalla cornice di gesso dorato. Casa loro. Una casa che, se le sorelle si fossero sposate, sarebbe rimasta nel cuore, memoria della gioventù. Invece Cleofe è morta e Cecilia non è riuscita ad ‘elaborare il lutto’, come dicono gli psicologi. Cecilia è incazzata nera, come dicono giù al bar. Cecilia ha smesso di vivere, come dice lei stessa.
Ma si può elaborare la violenza?
Cecilia Pardini si è fermata all’età di 24 anni, quel 9 di agosto in cui Cleofe Pardini ha visto spenta la propria vita a 23. E un anno esatto prima, la loro esistenza aveva subito la prima scossa premonitrice, solo che non lo sapevano.
In Vicolo Corto vivevano parecchie persone e parecchi animali. Lasciando stare i topi di fogna, che abbondavano, e gli scarafaggi e le zanzare e le mosche – tutta fauna normale in una grande città di mare – ci stavano anche un buon numero di cani, gatti e canarini, questi appesi alle finestre in minuscole gabbiette colorate. I cani, in particolare, erano la passione di Cecilia. Conosceva tutti quelli del rione e tutti seguiva con affetto e persino apprensione se ne intuiva i problemi.
Penava molto per Tara, un misto border collie e qualcos’altro, bianca, che abitava con la scià Rosetta da qualche anno e menava un’esistenza per nulla consona ad una cagnolona della sua stazza, esuberante...