Vai ai contenuti
Concorso Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa inedita
Salta menù
Marta Reder
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Nata a Belluno da genitori polacchi in data 27/07/2007, attualmente frequenta il quarto anno al Liceo Galilei-Tiziano (Belluno), indirizzo classico.
Pratica sport, si dedica a varie attività parrocchiali e ama trascorrere il tempo libero all’aria aperta.
Coltiva le grandi passioni della lettura e della scrittura.
Ha partecipato a vari concorsi letterari, conseguendo alcuni premi.
Ha già partecipato a:
Il folle volo di un io



Un risveglio tranquillo in una mattina come tante altre. Refoli di brezza frizzantina giocano a rincorrersi tra i miei capelli e a insinuarsi tra le pieghe del mio scialle, mentre cammino a passo svelto. La consueta fretta, tuttavia, non mi impedisce di saziarmi delle montagne, silenziose fedeli compagne; assonnate, si nascondono dietro veli di nuvole sottilissime che verranno disperse dai primi raggi esuberanti del sole. Saluto le mie possenti amiche con familiarità e discrezione, accarezzando con lo sguardo i loro fianchi rivestiti dei morbidi verdi di una primavera ancora timida. Sorrido ai passerotti vivaci, che al mio arrivo si sollevano dall’asfalto in un frullio concitato di ali. L’incanto di questi minuti, preludio puro e intatto di una giornata ancora avvolta nell’ignoto, svanisce non appena metto piede sull’autobus, affollato come sempre. La mancanza di spazio, il brusio, il traffico mi riportano a una realtà che talvolta non sento di abitare pienamente. Immaginare che in ogni persona si celi un frammento incontaminato di cielo mi conforta, facendomi sentire meno sola.
Qualche decina di minuti dopo mi trovo in classe, seduta al mio posto ad aspettare l’arrivo dei miei compagni. Assorta nella lettura, a stento mi accorgo che l’aula non è più vuota. Le mie compagne, impegnate in una discussione, non rispondono al mio saluto, ma non vi do un gran peso e riprendo a leggere. Dopo pochi minuti i banchi sono stati riempiti, la campanella è già suonata. Nessuno mi ha ancora rivolto la parola, probabilmente per via della mia espressione assonnata e per questo forse poco incoraggiante.
- Speriamo che si sia dimenticata dell’interrogazione… - sussurro alla mia compagna di banco, mentre l’insegnante fa il suo ingresso in aula. La mia compagna mi ignora, assorbita dal frenetico ripasso dell’ultimo minuto. La prof la chiama, smentendo le mie aspettative. La mia compagna si alza tremando, attraversa il mio banco inconsistente e raggiunge la cattedra.

Il cuore in gola, la testa vorticante e il fiato corto, mi guardo intorno, con la sensazione che le pareti si stiano avvicinando fino a schiacciarmi. Mi tasto le braccia e le gambe, impulsivamente sferro un pugno sul banco. Nessuna reazione da parte della classe. L’interrogazione è cominciata e gli altri compagni, per oggi salvi, si dedicano alle più svariate attività ricreative, mentre la prof finge di non vederli. Non è possibile, non è possibile… Con grande disappunto sento gli occhi riempirsi di lacrime. Raddrizzo la schiena e prendo un respiro profondo. Non è possibile.
- Ehi… - do un colpetto sulla spalla della compagna davanti. – Mi senti? – alzo la voce. La compagna sembra non percepire nulla.
- Mi sentite?!- mi trema la voce. Senza pensare mi alzo e comincio ad attraversare l’aula a passi svelti. Gli sguardi dei miei compagni sono rivolti ai quaderni sui quali stanno svolgendo i compiti di un’altra materia o ai bigliettini che si stanno scrivendo. La prof continua imperterrita a interrogare, la vittima a rispondere. La saetta di un terribile presentimento squarcia la matassa delle mille voci che si rincorrono ronzando nella mia mente. Talvolta mi sono chiesta cosa succederebbe se ogni desiderio inespresso, ogni pensiero, ogni frase pronunciata dentro di sé diventasse reale. Ho sempre provato un profondo sollievo di fronte all’impossibilità di questa eventualità, tuttavia di tanto in tanto mi sono soffermata a congetturare le possibili conseguenze di tale potere. Ma non può succedere. Non può. Vorrei credere che sia un incubo della mia sfrenata fantasia, eppure in me sento risuonare una spaventosa certezza: è la realtà. Non so dimostrarlo, ma è così. Perché proprio in un oggi come tutti gli altri? Perché proprio a me? Come è potuto accadere un simile fatto? Il tono delle domande che ormai non ho più remore di porre gridando non è sbalordito, non è impaurito, non è disperato. È rassegnato. È questo ad atterrirmi più di ogni altra cosa. Perché comprendo con grandissima lucidità quel che è successo. Il mio desiderio di scomparire si è avverato.

Non esisto. Non esisto più. Sono stata cancellata dalla tela della realtà dalla pennellata bianca di una mano sconosciuta. Percepisco ancora il mio corpo, sento il battito accelerato del mio cuore, i suoni, i profumi, le persone intorno a me, ma loro non sentono, non vedono me. Ho riflettuto spesso anche sull’eventualità di non essere mai nata. Il mondo sarebbe completamente diverso se mancasse anche una sola esistenza. Quante infinite combinazioni di probabilità, incognite, scelte, strade intraprese a un bivio, un passo mosso in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma sta succedendo qualcosa di diverso. Come se, semplicemente, la mia sagoma fosse stata ritagliata da un foglio e il buco fosse stato abilmente tappato. E all’improvviso mi rendo conto di voler riconquistare quello spazio che è stato tutto mio per anni.
In passato ho cercato di modificare qualche tratto scomodo di me, ma la mina della mia matita si spezzava sempre al contatto con una carta di marmo. Sono stata tentata di cancellarmi, ma la mia mano è sempre stata frenata da un irritante moto di compassione e tenerezza nei confronti di quella piccola figurina disegnata. Ho provato a fingere di non riconoscere quel disegno e di appropriarmi di un’altra sagoma, ma i miei tentativi sono risultati goffi e fallimentari. Ho chiuso gli occhi, sperando che al mio sguardo si presentasse un’immagine nuova, migliore. Ho sperato che una nuova mano smussasse i tratti troppo spigolosi e con segni esperti aggiungesse profondità e colore al mio disegno. Ho sognato miriadi di combinazioni di forme e colori danzare nell’aria come frammenti di uno specchio lasciato cadere, ho esplorato infiniti luoghi inesistenti, ho solcato oceani di possibilità su una barchetta di carta, mi sono tuffata tra le pagine vibranti di un libro ancora da scrivere… E d’un tratto mi sono trovata bloccata sul fondo di un bicchiere di illusioni, immobilizzata da un intrico di parole spezzate e petali di rose sfiorite. Mi sono scagliata contro le pareti di vetro della mia prigione, attraverso le quali potevo scorgere il mondo scorrere senza di me. Mi sono dibattuta tra i mille fili che si attorcigliavano su di me come serpenti maligni, sentendo a ogni sforzo l’energia defluire dal mio corpo e abbandonarmi. Mi sono accasciata, sostenuta dalle mie catene come una marionetta, inerte. Dall’esterno mi giungevano suoni ovattati: risate gorgoglianti, frasi fruscianti, tintinnii di brindisi, canzoni. Sono stata prosciugata dalle mie lacrime e tradita dalla mia voce. E proprio quando, accorgendomi di non sentire più nulla, stavo per scivolare irreversibilmente nell’oblio, un impulso anonimo mi ha spinta ancora una volta contro la parete. Il vetro si è incrinato e ha ceduto, i fili si sono spezzati. E sono precipitata.

Per qualche interminabile minuto cerco di convincermi a proseguire a recitare la mia parte di copione. Ascolto l’interrogazione, bisbiglio alle mie compagne come se potessero sentirmi, bevo un po’ d’acqua, mi stiracchio, scribacchio distrattamente qualche frase. Finché a un tratto semplicemente obbedisco all’istinto più naturale e spontaneo che abbia mai percepito. Mi alzo dal mio posto, esco dall’aula e lascio la scuola. Comincio a correre in mezzo alla strada, gioendo della mia invisibilità. Le macchine mi sfrecciano accanto, alcune mi attraversano, mentre accelero e supero edifici, negozi, incroci, case, alberi, passanti. Spicco un balzo nel vuoto e squarcio il copione.

Il sole è stato oscurato dall’inchiostro delle parole che ho fatto scoppiare. La mia corsa si è trasformata in un’eterna caduta nel nero nulla. Il fischio dell’aria mi perfora la mente, le stelle mi graffiano con le loro gelide punte. Scivolo nell’oscurità vellutata e non provo niente. Per la prima volta la mia anima è uno specchio d’acqua perfettamente immobile. Precipito, sentendo di perdere progressivamente corporeità. Spalanco le braccia come un uccello in volo, beandomi della sensazione di non dover più essere. Chiudo gli occhi, sostituendo il buio al buio e sprofondo in una dolce incoscienza.

Il mio idillio viene bruscamente interrotto da un atterraggio inaspettato. Avrei voluto non fermarmi più, ma è successo. Getto intorno occhiate stupite. Non è decisamente quel che mi sarei aspettata. Mi trovo in cima a una lunghissima scalinata sospesa in una penombra crepuscolare, i cui gradini si perdono nell’ombra. Ai miei piedi una lanterna di notevoli dimensioni sembra spronarmi con il pulsare irrequieto della sua fiammella. La sollevo a fatica e, alla sua luce tremula e sfumata, noto che i gradini della scalinata sono ingombri dei più svariati oggetti: vecchi tomi, orologi di ogni epoca, calzini spaiati, abiti da sera sgualciti, gioielli impolverati, calamai, cellulari con lo schermo rotto, libri di scuola, stoviglie sbeccate, fogli appallottolati, cornici vuote, cocci di ceramica, calamite… La montagna di oggetti si confonde nell’oscurità. Mi volto, ma dietro di me non scorgo altro che buio. Non mi resta che proseguire. Tenendo la lanterna con due mani, inizio la mia discesa. Avanzo con cautela, per paura di inciampare e cadere nel vuoto. Ventisette, ventotto… Ottantadue… Centosedici… Perdo il conto degli scalini. Sospiro esasperata e appoggio la lanterna per far riposare le braccia. Non avrà mai fine questo vagare? Sono tentata di tornare indietro, ma che cosa potrei fare, dove andare? Tutto quel che conoscevo si è dissolto come i sogni all’alba. Mi siedo sul poco spazio disponibile e serro le palpebre, nella speranza di annullarmi com’è avvenuto prima. Il silenzio immobile sembra deridere i miei sforzi. Mi rialzo, afferro la lanterna e riprendo frustrata la discesa. Aumento il passo con rabbia, incurante dei gingilli che calpesto e dei cumuli che bloccano la strada. Scavalco oggetti indistinti con balzi sempre più arditi, appesantita dalla lanterna. Sto correndo, i gradini si fondono con la massa di quel che resta degli uomini. La testa mi gira, ma continuo la discesa, come se dovessi dimostrare che io no, non soccomberò a questo assurdo gioco che mi vede prigioniera di me stessa. Non riesco più ad arrestare la mia corsa. Ecco, la mia esistenza si è spogliata degli ornamenti illusori con i quali la rivestivo e ha raggiunto la sua vera essenza: quella di una folle caduta verso il nulla. Inciampo su un grande orso peluche, scivolo su una cravatta e perdo l’equilibrio. La lanterna si infrange al contatto con gli scalini, la fiammella ondeggia e si spegne. Precipito nel vuoto.

Speravo di potermi abbandonare all’abbraccio letale del nulla, ma sento che questa volta non sarà possibile. Sarebbe troppo semplice. L’infinito che mi circonda assume toni più chiari, attraversando l’intero universo dei colori possibili, fino a raggiungere il bianco di una giornata piatta. Immediatamente sento lo stomaco contrarsi sotto una morsa ferrea. Le orecchie mi ronzano di echi sovrapposti di voci remote. Decine di idiomi mi sfiorano con sussurri o mi schiaffeggiano con aspre grida. Fitti strati di quel che ricorda la nebbia celano labbra che pronunciano esclamazioni, suppliche, preghiere, richieste d’aiuto, ingiurie; di tanto in tanto riesco a intravedere per un istante lo stralcio di una mano, di un occhio, di una ciocca di capelli, di una gamba. Non appena mi allungo per afferrare una traccia di umanità in questo mare di nulla, spariscono. Le voci, sempre più forti, si fondono in un unisono che mi fa tremare. Non somiglia ad alcun linguaggio che io possa conoscere, ma in qualche modo comprendo il loro messaggio. Mi stanno accusando. Nessuno ha mai chiesto loro che cosa desiderassero, nessuno si è mai curato delle loro esistenze. Sono voci di persone nate e svanite, semplicemente cancellate. Da cosa, da chi? Sono trafitta da ringhi rancorosi, da lamenti gonfi di pianto, dalle domande stupite di coloro a cui non è neppure stata concessa la possibilità di conoscere una vita degna di tale nome e che tendono le mani verso il dono mai scartato che è stato loro sottratto. Mi fondo con il dolore di queste voci, lo accolgo e lo sento sferrare i suoi colpi. Non riesco a sopportarlo. Cosa posso fare per loro? Come accettare tutto questo, come rassegnarsi? Dai miei occhi scende un pianto di fuoco e di piombo, di polvere e di sangue, di violenza e di abbandono. Le mie lacrime diventano quelle di tutte le persone che non hanno potuto liberarle. Ed ecco che torno a sentire quel soffuso mormorio. È distante, ma c’è. Sempre più forte, sempre più distinto, sempre più vivo torna il battito del mio cuore.
Precipito ancora, ma questa è la caduta di Adamo che diventa uomo.

- … Molto bene, puoi tornare al tuo posto -. L’interrogazione è terminata. La classe è costretta a risvegliarsi. Lancio occhiate spaesate intorno a me. I miei compagni aprono i quaderni sospirando e cominciano a seguire la spiegazione. Senza comprendere alcunché, li imito. E mentre meccanicamente ascolto, annuisco, prendo appunti, sento che la mia penna mi sta guidando in una direzione del tutto inedita. Non so se il mio viaggio abbia avuto realmente luogo; potrebbe essere stato il delirio di una mente molto suggestionabile, ma voglio credere che sia stato molto, molto più di questo. Cos’ho visto? Tutto e niente. Chi ho incontrato? Nessuno, me stessa, tutti.
Inizio a scrivere e sento la mia anima confluire nell’inchiostro che scivola leggiadro sulla carta e che, parola dopo parola, costruisce un lunghissimo, infinito ponte.      


Ti ricordi…




Un passero zampetta indisturbato in mezzo alla strada, sperando di trovare qualche briciola appetitosa. Deluso dalla vana ricerca, si solleva in volo nella primavera soleggiata. I raggi gentili illuminano le vie deserte, percorse di tanto in tanto da stormi di uccellini allegri. I fili d’erba nelle crepe dei marciapiedi, le strade asfaltate, gli edifici, gli alberi nei parchi, ogni cosa sembra volersi riempire di quell’aria balsamica donata dalla nuova stagione, mentre il cielo di un azzurro vivido pare una pennellata tracciata dalla mano di un artista soddisfatto. Crepitii e fruscii, scalpiccii e cinguettii, miagolii e latrati annunciano con il loro corteo l’arrivo di Flora. Tutto il resto tace.
                                                                                  *
Si alza dal letto e si stiracchia. Un raggio di luce infiltratosi nella stanza la invoglia a sollevare le persiane e a guardare fuori. Si avvicina alla finestra, ma a metà strada si blocca. Perché dovrebbe farlo…
In cucina incontra suo padre. Seduto in una posa rilassata, sfoglia un grosso volume, borbottando parole spezzate. A quella vista, divenutale ormai estranea, eppure così familiare, sente gli angoli della bocca tendersi verso l’alto. Che sensazione curiosa. Percependo la sua presenza, suo padre alza lo sguardo e la saluta con un cortese cenno del capo, come fosse una conoscente incontrata al supermercato. Lei ricambia meccanicamente e, perso di colpo l’appetito, torna in camera. Si siede alla scrivania, colta da un’inspiegabile inquietudine, come se avesse tralasciato un dettaglio piccolo ma fondamentale. Respira profondamente, riordinando i pensieri confusi. È stato bello rivedere papà. Negli ultimi tempi era il membro della famiglia più isolato. Sua madre si faceva viva più spesso, soprattutto perché, non avendo perso il suo senso pratico, si assicurava regolarmente che qualcuno effettuasse gli ordini di alimentari e contribuisse a mantenere pulito l’ambiente domestico. La presenza dei suoi fratelli si manifestava in improvvisi tonfi di oggetti caduti o esplosive e brevi liti. Tutto secondo la norma. Anche se, mentre riflette così, con i palmi premuti sul liscio ripiano della scrivania, per un attimo ha l’impressione che, in realtà, un tempo, le cose fossero diverse. Prima… Quando? Che cosa era diverso? Aggrotta le sopracciglia, ma il bagliore che ha attraversato la sua mente per un istante, quel lampo di coscienza, è sparito, fulmineo com’è arrivato. Batte i pugni sulla scrivania, frustrata. Non sopporta quella sensazione di impotenza. Accende la luce, ma questa sembra sbeffeggiare i suoi sforzi, così colpisce seccamente l’interruttore e ripiomba nella penombra. Che sta succedendo? Ha l’impressione di sentire per la prima volta quel cinguettio che di solito la infastidiva. Suo malgrado è affascinata da quel perforante suono della vita che si fa prepotentemente strada nella sua stanza. Rimane in ascolto per qualche minuto, il battito accelerato. Da quanto tempo non percepiva così distintamente le pulsazioni del suo cuore? Inspira profondamente, ma l’aria sembra essere stata risucchiata dal ciclone che si è abbattuto sulla sua vita, così, in una normale mattinata, mentre lei si trova esattamente al centro e osserva frastornata quel castello di carte che crolla. Ripercorre mentalmente la catena di avvenimenti che l’hanno condotta a questo punto, ma cosa mai è successo di tanto inedito? Si è svegliata nella sua camera buia e solitaria, come sempre. Non ha provato nulla di fronte a una nuova giornata, come sempre. Si è recata nella cucina deserta per aprire il frigorifero sempre pieno e mangiare la prima cosa trovata, come sempre. Ha incontrato suo padre, questa è stata la novità. Non si trovava faccia a faccia con una persona da… Tanto, tanto tempo. Da quando aveva smesso di frequentare il liceo, perché tutte le scuole erano state chiuse. Da quando aveva smesso di andare agli allenamenti di nuoto, perché tutte le associazioni sportive erano state chiuse. Da quando aveva smesso di uscire con le amiche, perché potevano scambiarsi messaggi e telefonate in ogni momento. Da quando aveva smesso di andare in bicicletta con i suoi fratelli, perché tutti loro erano stati assorbiti dalla nuova esistenza, sostituendola a quella precedente. Da quando aveva smesso di cucinare insieme a suo padre, perché ormai ordinavano ogni pasto a domicilio. Da quando aveva smesso di fare giardinaggio con sua madre, perché chi aveva più bisogno dei fiori? Da quando aveva smesso di vivere.
Ha provato un’emozione, per la prima volta nella sua nuova esistenza.
Una stretta al petto, come se il suo cuore fosse compresso per il tentativo forzato di racchiuderlo in una scatola, la avverte che è tornata. Dopo mesi, lei è tornata. Non sa come sia accaduto. Non sa perché sia accaduto e perché proprio in quel momento. Ma è successo e non può più rischiare di perdere la vita che ha ritrovato. La sente, vivida e vibrante, mentre le scorre lungo il corpo e si irradia all’esterno, restituendo significato a ogni cosa.
Un’urgenza impellente la spinge ad aprire e a svuotare l’armadio e i cassetti. Annusando vestiti, solleticando pagine di libri, accarezzando fogli di diari e quaderni, sente i frammenti di sé stessa vorticare per ricomporre quella che era, quella che aveva dimenticato di essere. Ma le tessere di quel complesso mosaico sono legate da un collante nuovo, da una consapevolezza che prima non c’era o forse da una vita che, sopita negli abissi più inesplorati del suo animo, attendeva di venire alla luce. Oggi è rinata e le lacrime che le scorrono sulle guance connettono con il loro filo perlaceo la sua prima, biologica, inconsapevole nascita all’aurora di oggi. È venuta alla vita e deve aiutare gli altri a uscire dalle tenebre in cui si sono inconsapevolmente immersi, insetti morti adagiati sul fondo di un mare d’inchiostro.
Inconsapevolmente?
Le prime voci avevano cominciato a diffondersi ben prima delle notizie ufficiali. Ne discutevano i suoi vicini di casa, declamando chiassose opinioni attraverso la staccionata; a scuola i confronti con i compagni sfociavano in discussioni focose; a casa, nei negozi, per le strade, sui social, ovunque si sussurrava con titubanza o si rumoreggiava polemicamente. Non aveva capito subito, come anche, ne era certa, nemmeno la maggior parte di tutti quelli che, chi più civilmente chi meno, svisceravano l’argomento. L’unica certezza era che un cambiamento inedito nella storia dell’umanità si stava facendo spazio nelle loro vite, con suadente gentilezza o a gomitate spavalde. Un mutamento radicale della concezione stessa dell’uomo e del suo rapporto con il mondo, a detta del suo professore di filosofia. All’epoca non aveva dato molto peso a quelle parole: com’era possibile che un cambiamento di tale portata, quasi surreale, potesse avvenire in così poco tempo? O forse era già da anni insito nella società, un tarlo invisibile ma che, a volerlo ascoltare, tradiva la sua corrosiva presenza. E così, d’un tratto – o almeno così le era parso -, le scuole erano state chiuse.
… è stata presa la decisione ufficiale: i plessi scolastici, pubblici e privati, chiuderanno entro due settimane a partire dal presente comunicato. Non è possibile ignorare, ormai, che il tradizionale sistema d’istruzione, insieme alle sue modalità di trasmissione di nozioni e informazioni, è ormai antiquato e deve far fronte alle inevitabili trasformazioni introdotte dal progresso tecnologico. Si rende pertanto necessaria una revisione dell’intero sistema…
Gli stralci del servizio del telegiornale risuonano in lei con spaventosa chiarezza. La notizia, invece di provocare gioia, aveva sollevato un malinconico sbigottimento negli studenti, che di lì a due settimane avrebbero dovuto dimenticare quell’antiquato sistema che aveva influenzato gran parte delle loro vite.
Il primo periodo di reclusione era stato decisamente strano. Si sentiva ripetere in ogni canale d’informazione che la vita dei cittadini si sarebbe dovuta adattare ai cambiamenti sociali, culturali, economici, tecnologici per un futuro migliore. Non era stato chiarito in cosa consistesse. Si parlava di aumento del benessere individuale, di implemento delle piattaforme digitali, di sviluppo e modificazione delle relazioni sociali.
Solo ora si rende conto che tutto ciò sarebbe accaduto comunque: le istituzioni avevano semplicemente ufficializzato il trionfo dell’individualismo.
Ed ecco gli uomini, invischiati in un’inestricabile rete di isolamento, indifferenza, egoismo, ignoranza, falsità. L’umanità sta morendo. Ma forse c’è ancora la possibilità di sfondare gli schermi che rendono prigioniere le persone e di unire i fili delle loro storie, per riprendere quella meravigliosa trama che da secoli viene perpetuata.
Nuove lacrime di dolore e di risveglio, di fine e di principio, di limite e di eternità, di storia e di memoria.
Finalmente comprende ogni cosa.
Finalmente si ricorda di essere umana.

Torna ai contenuti