Ottavio Casini
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Sono nato a Roma nel 1961. L’idea di scrivere nacque nella prima metà degli Anni Novanta, durante un periodo di forzata inattività.
Finora, mi sono occupato di racconti. Da settembre 2024, rientrato da un viaggio in Olanda, ho cominciato a scrivere poesie. Non lo avevo mai fatto, in 63 anni. Nemmeno ci avevo mai provato, in verità.
Non so se l’Olanda c’entri qualcosa.
Rispetto a un racconto, una poesia, richiedendo un tempo di composizione assai inferiore, almeno per me, consente di mantenere un certo stato d’animo per tutta la durata della stesura.
È la prima volta che partecipo al Premio Letterario Lagunando.
Ha già partecipato a:
Hotel Principi d’Acaja
«Benvenuta e bentornata tra noi, Madame Chatillon!», esclama Monsieur Giacchero, andandole incontro con solenne cordialità e facendole il baciamano, quasi che si tratti di una vecchia amica di famiglia alla quale, benché amica, si deve un certo riguardo. «E’ un vero piacere rivederla. Mi auguro che stia bene e che il suo soggiorno qui risulterà agreable come sempre. Ho provveduto a lasciarle libera la solita stanza, arredata nella maniera che predilige… lei mi capisce. Quando ci ha cortesemente contattato per confermare, la camera era già a sua disposizione, anche se avevamo ricevuto altre telefonate».
A un cenno di Monsieur Giacchero, un ragazzo di una ventina d’anni, perfettamente sbarbato, fino a quel momento sull’attenti e un po’ in disparte, avanza di qualche passo.
«Luca, per favore, vuoi occuparti tu del bagaglio della Signora Chatillon?».
Avvolto in una immacolata divisa con lo stemma dell’albergo all’altezza del cuore, eseguendo un gesto tanto corretto quanto essenziale, sicuramente provato e riprovato fino a pochi minuti prima sotto lo sguardo giudice di Monsieur Giacchero, Luca afferra il manico del trolley dell’ospite.
«Luca, questa è la scheda. Mi raccomando, Luca, come ti ho detto, Madame Chatillon è una delle nostre migliori clienti».
«Non si preoccupi, capo. Cioè, mi scusi, volevo dire: Signor Giacchero».
Il giovane arrossisce, mentre il “capo”, come l’ha inavvertitamente chiamato, lo fulmina con un’occhiataccia.
Succede a ogni arrivo, considera Madame Chatillon. Il fattorino, chiunque sia, tende a commettere qualche gaffe.
Monsieur Giacchero è fissato per la perfezione. A partire dalla maniacale cura che riversa sui propri baffetti neri, due triangoli rettangoli perfettamente simmetrici e appena separati da una lieve linea di epidermide, che scende verticalmente dal naso e va a incrociare il labbro superiore proprio al centro. La giacca stiratissima. I bottoni di metallo e la targhetta con le lettere GRG, luccicanti come l’oro. Le scarpe lucide. Nemmeno un capello fuori posto. Gli oggetti tipici del banco della reception, ciascuno in una posizione ben precisa, come a voler rappresentare una scenografia. La massima discrezione nel trattare con la clientela, qualunque cosa succeda, senza porre né porsi domande. Tutto deve essere sempre in ordine, nella forma e nelle parole. “Questa è una città di stampo internazionale, siamo vicini al cuore dell’Europa, così come europea e internazionale è la nostra clientela. Siamo moderni, perché il progresso procede e non aspetta, e siamo tradizionalisti, perché teniamo molto a fare le cose come si facevano una volta, con professionalità e giudizio in un ambiente confortevole e protettivo. Perciò, oltre a saper parlare l’inglese, dobbiamo esibire un buon francese e un italiano impeccabile”.
Appena ridisceso, Luca troverà, ad aspettarlo, una bella rampogna. Prima di ripartire, sarà bene regalargli una buona mancia.
Il Commendator Gian Roberto Giacchero, papà dell’attuale proprietario dell’Hotel Principi d’Acaja - Gian Roberto pure lui -, pur meticolosissimo, non raggiungeva le paranoie del figlio. E, da quanto la Signora Chatillon ricorda, nemmeno il Conte Gian Roberto, fondatore dell’albergo nel lontano 1940, padre del commendatore e nonno di Monsieur Giacchero. Un uomo scrupoloso, tutto d’un pezzo, “in stile piemontese”, però capace di battute in perfetto humour anglosassone.
«Madame Chatillon, Luca l’accompagnerà fino alla camera. Naturalmente, se avrà bisogno di qualcosa, non dovrà fare altro che alzare il telefono e comporre lo zero. Siamo a sua completa disposizione, giorno e notte. Lei, qui da noi, è una regina. Anzi, mi perdoni, la Regina».
La signora Chatillon ringrazia e segue Luca verso l’ascensore.
«Ah, Madame, dimenticavo!». La voce del Giacchero li raggiunge alle spalle. «Sono proprio imperdonabile! Volevo dirle che potrà lasciarmi il documento più tardi, con comodo. La solita burocrazia, purtroppo. La informo, infine, che il resto non è cambiato: serviamo la colazione a partire dalle ore sette, mentre per il pranzo e la cena può usufruire delle nostre convenzioni con alcuni dei migliori ristoranti della città!».
E giù un bell’inchino.
Il Notaio Anselmo Ambrogio De Stefanis ripiega con cura il giornale e si mette a guardare fuori. La campagna gli scorre rapida davanti agli occhi e non c’è il tempo di inquadrare i dettagli. A tratti, le pupille colgono la targa di una stazione di transito e, d’istinto, le restano puntate addosso in un vano tentativo di lettura, fino a quando non sparisce dal finestrino. Un infinitesimo di secondo, faticoso per la vista e spiacevole per lo stomaco.
Gli ricorda la volta in cui, al Luna Park dell’Eur, per accontentare il terzo figlio, Nicola, che altrimenti non la finiva più, fece il suo primo, e ultimo, giro sui cosiddetti “seggiolini”. Una giostra che ruotava vorticosamente su sé stessa come una trottola e dei seggiolini appesi, ciascuno, con una catena. La forza centrifuga li spingeva verso l’esterno. Una sensazione disgustosa, soprattutto quando il seggiolino si voltava e lo costringeva a ruotare girato di spalle. Peggio del mal d’auto di quand’era bambino.
In fondo alla carrozza, il display descrive il percorso. Non riesce a leggere i nomi delle località attraversate, ma sa che giungerà a destinazione alle 13:05. Invece è bene in evidenza, a caratteri grandi, la velocità del treno. Ecco, in quel momento fila a 249 chilometri all’ora. 249. Niente male. E che precisione. Da notaio, gli verrebbe da dire.
Fissa lo schermo, aspettandosi di vedere le cifre scattare sul 250, come se fosse un orologio digitale.
Scorrono i secondi. Sempre 2, 4 e 9.
Eppure, basterebbe veramente poco. Che ci vuole a passare da 249 km/h a 250? Il chilometro mancante rappresenta un inestetismo, una crepa che gli procura un certo fastidio. Che sta facendo il macchinista?
Decide di aiutarlo.
Si contrae sul sedile, come quando decolla in aereo, e socchiude gli occhi. Col piede destro spinge un invisibile acceleratore.
Trascorrono i minuti. Sempre 249.
Stringe i pugni, aspettandosi che l’impulso scorra lungo l’immaginario sistema nervoso del convoglio e raggiunga la cabina di guida.
“Forza, maledizione! Dacci dentro. Nel sito c’è scritto che questo treno tocca i 250 chilometri all’ora. 250, non 249, capito?”.
Il messaggio arriva a destinazione. 250, finalmente!
Sorride.
Stacca il piede dall’immaginario acceleratore e torna a guardare fuori.
Ha un po’ di fiatone.
Seduto di fronte a lui, sull’altra fila, il signore in doppiopetto alza gli occhi dal libro che sta leggendo da quando sono partiti. I Fratelli Karamazov. Però, pensa il Notaio De Stefanis.
Abbassa le palpebre, vedendosi disteso sopra un materassino, a galla sul mare calmo, e lascia andare il proprio corpo.
Si porta le mani in grembo per tastarsi il polso, senza farlo notare. L’ultima volta, il viaggiatore accanto a lui, un isterico medico cardiologo, lo costrinse a sdraiarsi sul pavimento del vagone per visitarlo.
Da allora, nel prenotare i viaggi in agenzia, chiede sempre che il posto assegnato, in Prima Classe, sia nella fila singola.
Il battito è regolare.
Dovrebbe dormire un po’ per non arrivare stanco.
Congedato il timido Luca con un biglietto da venti euro e con la promessa di qualcosa di più sostanzioso a breve, la Contessa Marianne Dominique Chatillon si guarda intorno e si compiace. Con un po’ di cautela, stira le braccia in fuori.
Chiude gli occhi e inspira fin dove le permettono i polmoni, come se si trovasse sul crinale di una montagna e, dalla valle sottostante, punteggiata da milioni di fiori colorati e profumati, salisse un intenso effluvio.
L’ultima scalata di una montagna risale al… 2004, insieme a Umberto. Non una vera scalata, in realtà. Più che altro, un bel sentiero. Si partiva dai 1500 metri di altitudine del Rifugio… come si chiamava? Non lo ricorda. Il tedesco le è sempre rimasto ostico. Però ricorda di essere arrivata fino a… sì, a 2420 metri, secondo l’altimetro digitale di Umberto. Più avanti, il sentiero diventava nervoso e ripido, adatto a gambe allenate. Loro preferirono fermarsi lì.
Probabilmente, sarebbero riusciti a proseguire ancora un po’, diciamo fino ai 2500 metri, dove c’è una piazzola con alcuni tavoli, delle panche e, certamente, l’inevitabile famigliola intenta ad azzannare panini carichi di formaggi locali e speck.
Ma bisogna tenere sempre bene a mente un principio: se non si percorre un anello o un itinerario a tappe, a ogni metro di andata corrisponde un metro di ritorno. Dunque: se uno deve coprire un chilometro, in realtà sono due. Se si sale di centro metri, se ne dovranno affrontare altri cento per scendere.
La discesa è come un miraggio nel deserto. Quando ti rimetti lo zaino in spalla e ti prepari a tornare indietro, ti senti felice perché hai appena mangiato, perché hai raggiunto la tua meta e perché adesso il tragitto sarà in giù. Lo vivi come una specie di passerella-premio.
Solo che non hai fatto i conti con la realtà. Una lunga discesa è fastidiosa per le ginocchia. Dolorosa, a un certo punto, perché scendi col freno premuto per non prendere velocità, se no a valle ci torni a ruzzoloni.
Chi conosce la montagna lo sa. Eppure, ci può cascare. Nel 2004, ci cascò lei. Conosceva la realtà, ma era stanca e ci cascò.
Era arrivato il momento di ridimensionarsi.
Umberto l’appoggiò.
Con uno sbuffo simile a quello di una camera d’aria gonfia che viene bucata con un punteruolo, la porta si stacca dal proprio alloggiamento e si fa da parte. Gli scalini metallici si mettono in posizione. Accompagnato dagli annunci degli altoparlanti, il chiasso della stazione invade il vagone.
Primo della fila, il Notaio Anselmo Ambrogio De Stefanis afferra la propria valigia e fa per scendere, come sempre. Osserva giù. Esita. Il marciapiede gli sembra lontanissimo e i gradini della scaletta terribilmente alti e stretti.
Per sua fortuna, un treno non è un autobus o una metropolitana, e la stazione è “di testa”, nel senso che i binari finiscono lì, come la tratta, altrimenti quelli dietro lo avrebbero già travolto.
Si porta sul ciglio della carrozza. Stringe il mancorrente verticale con la mano libera. Gli sembra di essere un paracadutista timido al primo lancio. La banchina, intanto, si è riempita di passeggeri scesi dalle altre porte, ciascuno tirandosi dietro il proprio bagaglio, come tante formiche che trasportano le provviste verso il formicaio.
«Scusi, le serve aiuto?». Una voce giovane.
Il Notaio De Stefanis ha un sussulto. Vorrebbe reagire con orgoglio, girandosi e fissando fieramente negli occhi il colpevole.
Ma non c’è tempo per discutere.
«La ringrazio, ce la faccio», dice, voltandosi a metà. «Casomai può passarmi cortesemente la borsa?».
Con accortezza, tenendosi con entrambe le mani, smonta all’indietro.
Il ragazzo lo segue senza difficoltà, portandogli giù il bagaglio. Sguardo basso, il Notaio De Stefanis lo ringrazia.
E intanto riflette.
Marianne finisce di mettere a posto i vestiti e gli accessori nei vari cassetti e nell’armadio.
Le piace che ogni cosa sia in ordine, come a casa. Pazienza se poi, fra poco più di quarantott’ore, dovrà ripetere l’operazione all’inverso.
All’interno della camera è tutto come sempre. Monsieur Giacchero sarà pure un “capo” con i dipendenti, specialmente se si chiamano Luca, ma gli va riconosciuta una smisurata capacità di assecondare perfettamente i desideri di ogni cliente, riuscendo, attraverso l’elogio - “Lei, qui da noi, è la Regina”-, a fargli credere di godere di un trattamento speciale rispetto agli altri.
L’arredamento non è cambiato negli anni. I Giacchero hanno avuto l’avvedutezza di mantenere lo stile, sostituendo ogni pezzo con un elemento uguale, a parte migliorie tecnologiche come il climatizzatore, il televisore ultrapiatto ad altissima definizione, la scheda magnetica per aprire e chiudere la porta, il collegamento wi-fi.
Sul tavolo, su un centro di seta bianca, c’è il vaso di cristallo con le cinque rose rosse fresche.
Il lampadario a gocce, che nelle case moderne sarebbe impensabile. Chi avrebbe il tempo di pulirlo?
E la moquette rosso bordeaux, morbida e profumata di lavato.
Il quadro alla parete del letto raffigura il mare di notte, con la luna che si specchia sull’acqua e crea una striscia argentea. Uno “scarabocchio”, per dirla con certi critici d’arte. Sai quanti ne trovi, a quattro soldi, nello scantinato di un rigattiere?
Ma lei l’ha sempre amato, fin dalla prima volta che dormì in quella stanza, perché la faceva tornare all’estate del ’49.
Pregò il Conte Gian Roberto di non rimuoverlo.
Il Conte Giacchero, “uomo di sani principi”, come si autodefiniva, la rassicurò.
Quella divenne “la loro” camera.
Il Notaio Anselmo Ambrogio De Stefanis volta l’angolo e scorge, finalmente, l’insegna dell’hotel sull’altro marciapiede.
E’ stato proprio un errore non schiacciare un sonnellino durante il viaggio.
Dodici mesi fa, tra Bologna e Milano, dormì per tutto il tempo. Al risveglio, ricollegati i fili e scolato un doppio caffè al vagone bar, si sentì un altro.
Scese dal treno senza farsi passare il bagaglio. E, lungo il tragitto, non fece che fissare i culi di signore e signorine! Voleva dire che stava proprio bene, perdio!
Nel giro di due ore, tornò tutto normale.
«Ma che piacere rivederla!», esclama Monsieur Giacchero, alzando gli occhi verso l’ingresso.
Un’esclamazione controllata, affinché il cliente si senta cullato dalla voce, non trafitto dalle urla. Non troppo declamata da suonare falsa, quindi, né monocorde da far sospettare noia o fastidio.
L’uomo esce da dietro il bancone e gli si fa incontro, esibendo un sorriso pomposo e tendendogli la mano con estrema cortesia.
«La stavamo aspettando, sa? Mi auguro che abbia fatto buon viaggio. Lei è sempre puntualissimo, il che, per noi, si somma al piacere di riaverla qui. Sembra ieri che l’abbiamo salutata, ed è già trascorso un altro anno, che, voglio sperare, sia stato per lei eccellente».
Monsieur Giacchero batte i palmi.
«Luca! Puoi venire qui, per favore?».
Il ragazzo in uniforme si avvicina.
«Luca, ti affido il Notaio De Stefanis, uno dei nostri più affezionati e affidabili clienti. Ti occuperai tu del bagaglio. La stanza è la solita».
Il giovane rimane interdetto. Teme di commettere un altro sbaglio.
«Mi scusi… Signor Giacchero, dove accompagno il signor notaio, esattamente?».
Il Giacchero lo fissa.
Il ragazzo socchiude gli occhi e s’irrigidisce, come se si aspettasse una sberla.
«Ah, già, hai ragione, Luca. Dimenticavo che lo scorso anno non c’eri. Stanza 317».
Stupito, Luca sta per ribattere, ma non è il caso.
«Non ho molto altro da aggiungere, per ora, se non che troverà tutto in ordine, come sempre», prosegue il Direttore. «Per il documento, possiamo tranquillamente espletare la pratica più tardi. Ora, suppongo, lei vorrà fare una meritata doccia. Ha sentito che clima?».
Le porte si chiudono. Luca preme il tasto numero 3 e fa partire l’ascensore. Lo sguardo è fisso davanti a sé.
I portabagagli degli alberghi di livello, pensa il Notaio De Stefanis, usano impersonalità perché questi sono gli ordini. Il cliente non deve mai sentirsi osservato. Nemmeno se è una cliente.
Come quella volta che salirono in due, in un hotel di Venezia, un po’ di anni fa. L’altra era una donna molto bella e sensuale, sulla quarantina. Lui non fece che mirarle le tette. Il ragazzo dei bagagli, invece, benché poco più che ventenne, non la degnò di uno sguardo. Magari, nella testa gli era scoppiato un uragano, ma non lo dava a vedere. Professionalmente perfetto.
Luca appare uno alle prime armi. Non dev’essere molto tempo che lavora al Principi d’Acaja. Un anno fa, c’era un Luca, ma non si trattava di lui. Perciò, bisogna essere comprensivi.
E dargli una mancia appena possibile.
*
Il Signor Guglielmo legge la lista delle portate e digita i tasti corrispondenti sul display. Quale Maître della Maison de l’Ile ormai da quindici anni, è autorizzato a valersi di una certa indipendenza. Normalmente, non prevede sconti. D’altronde, nessuno gliene chiede, in quanto la clientela non è di quelle che se la passano male.
Stasera, però, farà un’eccezione.
Il Notaio non si può definire un habitué classico. Non vive a Torino e lo si vede solo due o tre sere all’anno, sempre nello stesso periodo e sempre in compagnia della stessa donna, misteriosa e taciturna, che parla con un accento straniero. Da tantissimi anni, a quanto pare. Questa sera gli ha citato il Signor Victor, storico Maître del locale, uno che ha servito addirittura l’Avvocato. C’è ancora la foto in sala, datata 1970.
Lui, a quei tempi, era giovane, idealista e sognava di diventare cantante lirico. All’accademia conobbe Lucia. Una passione travolgente, tanto da trascurare le lezioni per potersi amare in ogni momento.
Finché la realtà prese il sopravvento. Lucia sposò un noto chirurgo e mise su famiglia. Dovrebbe essere nonna. Lui lasciò la lirica, per la quale non possedeva un talento immenso, e cercò una strada. Ora è l’apprezzatissimo Maître della Maison de l’Ile. E Lucia è sempre nel suo cuore.
Al Notaio e alla signora non farà un vero sconto, che potrebbe essere mal interpretato, bensì offrirà i due dessert e i due caffè, facendolo passare come un omaggio alla fedeltà.
Perché stasera, nell’osservare i loro sguardi e i loro gesti, così lontani da quelli di due anziani coniugi abitudinari, ha fiutato qualcosa. Non sa spiegarsi perché solo stasera, dopo tanti anni. Sa solo che è stato un odore improvviso, forte e penetrante, mentre Lucia arde più che mai nel suo cuore.
I dessert e i caffè saranno un riconoscimento agli amori che resistono a tutto.
Compreso il suo.
La Contessa Marianne Dominique Chatillon e il Notaio Anselmo Ambrogio De Stefanis camminano sottobraccio sul Lungopò. L’aria è mite, il passo incerto.
«Non so se riusciremo ancora a vederci», sussurra Marianne, stringendosi a lui.
Ambrogio non risponde. L’ha pensato anch’egli. Questa potrebbe essere l’ultima sera del loro ultimo incontro.
Sente di essere diventato vulnerabile. Giorno dopo giorno. Oggi più di ieri e domani lo sarà più di oggi. Lo ha capito anche da come è mutato l’atteggiamento dei suoi figli. Papà sta’ attento a questo, papà sta’ attento a quello, papà non ti affaticare, papà non mangiare troppo, papà hai fatto le analisi, papà ti sei ricordato le medicine? E ci si mettono anche i nipoti! Nonno non fare quello, nonno non fare quell’altro, nonno copriti, nonno siediti, nonno riposati. Attenzioni che equivalgono a tanti piccoli colpetti che sembrano indirizzarti verso la fossa.
Solo Olga lo ha lasciato in pace. Se n’è andata troppo presto, Olga, con i suoi occhi tristi, i suoi silenzi e i biondi capelli.
Olga è stata sfortunata. Venuta in Italia per cercare una nuova vita, la trovò con lui.
Trent’anni di matrimonio. Tre figli.
Ogni fine settimana la va a trovare e le porta dei fiori freschi. Gli si riempiono gli occhi di lacrime nel fissarne il volto, nella foto. Ci parla e cerca di spiegarle.
Cerca di spiegarle che lei è stata sua moglie.
Che l’ha amata.
Insieme a lei affrontò un lungo e difficile tragitto fino a una piccola cittadina di quella che era l’Unione Sovietica per incontrare i suoi genitori. A proprie spese li fece venire a Roma per partecipare alle nozze dell’unica figlia.
Diede loro modo di conoscere tutti e tre i nipoti e li vide commossi quando Pietro, Katia e Nicola si rivolsero loro in russo.
Tutto ciò grazie all’aiuto di importanti amicizie di famiglia.
Se tornasse indietro, rifarebbe tutto.
Ma ci sono altre cose, difficili da spiegare. Si possono solo capire.
Marianne è stato il primo amore della sua vita.
L’amore Primordiale.
E lo è ancora. Da quell’agosto del 1949, a Lignano, non ha mai smesso di amarla.
Un uomo può amare due donne, purché ognuna abbia il proprio spazio.
Marianne.
Dopo quell’estate, credette di averla persa per sempre. Si separarono tra fiumi di lacrime e cuori sbriciolati. La Svizzera era molto più lontana di quanto sia oggi e loro erano solo due studenti non ancora ventenni alle prese con un amore estivo. Si dissero questo, benché nessuno dei due lo credesse veramente. Avrebbero potuto scambiarsi gli indirizzi e scriversi, ma non lo vollero fare. O tutto o niente. L’Amore in senso assoluto.
Un anno dopo l’altro.
La vita che va avanti.
Una sera di fine luglio del 1969, quando il mondo aveva ancora negli occhi gli uomini che passeggiavano sulla Luna, arrivò una telefonata in casa del Notaio De Stefanis. Succedeva che il telefono squillasse mentre la famiglia era a tavola. Qualche cliente da calmare, disse Ambrogio. Essere interrotto durante la cena lo seccava un po’, tuttavia, essendo ancora un notaio in fase di crescita, doveva accettarlo.
Andò a rispondere.
Non riconobbe la voce femminile.
La sconosciuta gli domandò se si chiamava veramente Ambrogio Anselmo e se era nato il 9 dicembre del 1929. Uno strambo modo di presentarsi. “Chi è lei, scusi?”; “Non mi riconosci?”; “Dovrei?” domandò lui, cercando di ricordare le voci delle compagne dei tempi del liceo, convinto che fosse una di loro, nonostante la erre un po’ arrotondata.
«Sono Marianne».
Marianne si stringe ancora di più ad Ambrogio. Le cola una lacrima sulla guancia, che per fortuna è quella invisibile a lui.
Domani, alle 17, ripartirà per Losanna.
Tornerà da Umberto.
Tornerà a essere la Contessa Marianne Dominique Chatillon.
Umberto compirà novant’anni fra tre mesi e lei gli preparerà una festa memorabile, con molti invitati. Figli, nipoti, generi, nuore, amici vari, compresi quelli con i quali hanno condiviso la passione per il Bridge.
Sposando il Conte Umberto Federico de Masseney, nel giugno del 1953, sposò il Bridge. Temeva che il gioco le distruggesse il matrimonio, invece provocò l’effetto opposto, trasformandoli in una coppia formidabile. Le loro più belle nottate di passione coincisero con quelle successive alle finali, vinte o perse che fossero. Chantal, Margot, Roger e Nina furono concepiti così.
Una vita felice.
La notte di San Valentino del 1969, durante un torneo a Londra, languidamente avvolta nel lenzuolo dopo aver fatto furiosamente l’amore, le venne da pensare. Umberto era sotto la doccia.
Ambrogio.
Il suo primo, grande amore.
Ambrogio.
Come quei batteri che, pur presenti nell’organismo, se ne stanno buoni per anni, nel loro cantuccio, finché, senza un motivo apparente, diventano improvvisamente attivi, scatenando la malattia.
Un desiderio irrefrenabile di rivederlo. Vent’anni dopo.
Una gioia fisica vorace, violenta, al punto che, quando Umberto tornò, lei l’assalì, strappandogli l’accappatoio di dosso.
Non le fu difficile rintracciarlo, con un nome così. Il Notaio Ambrogio Anselmo De Stefanis. Chissà se era sposato e se aveva dei figli.
Decise di telefonargli il 31 luglio. Il loro primo bacio. La loro prima notte. La linea di non ritorno.
La segretaria le spiegò che il notaio era fuori per lavoro e che non sarebbe tornato allo studio. Se voleva parlarci, doveva chiamarlo a casa, intorno alle ventuno. Senza che lei glielo chiedesse, la signorina le diede il numero.
Tentennò.
Telefonargli a casa...
Si scambiano un tenero naso contro naso. Sono stanchi e decidono di tornare in albergo.
Sentimenti contrastanti.
Se si voltano indietro, vedono una storia d’amore lunghissima e bellissima. Se guardano avanti, è solo nebbia.
Marianne ha ragione. Improbabile ritrovarsi, fra dodici mesi, affrontando un viaggio di varie centinaia di chilometri.
Ed è diventato sempre più difficile inventare scuse per aggirare i controlli di figli e mariti.
Ripresi i contatti, l’idea fu subito quella di ritrovarsi a Lignano, per riscoprire gli stessi percorsi, ribaciarsi sulla stessa panchina.
Ma poi, valutata la complessità del viaggio, prevalse la scelta di una soluzione più ragionevole: Torino. Lui vi si recava spesso per lavoro; lei accompagnava Carlotta, la propria amica del cuore.
Un unico incontro.
Alla stazione, col treno di Marianne già in movimento verso la Svizzera, le loro mani si protesero e si strinsero. Ambrogio corse fino al termine della banchina per rimanere aggrappato a lei, che si sporgeva tutta dal finestrino, quasi a cadere giù. Nel momento in cui si sciolsero, gridarono “Ti amo!”.
Si sarebbero rivisti un'altra volta.
E poi un’altra.
E un’altra ancora.
*
Marianne conta dodici rintocchi.
Inizia l’ultimo giorno. Stavolta davvero.
Chissà se Ambrogio sta dormendo. Il respiro sembra regolare.
Gli volta la schiena. Le è sempre piaciuto farsi abbracciare da dietro. La fa sentire protetta.
E adesso?
Ha amato Umberto perché amava, riamata, Ambrogio. Anche nei venti anni di silenzio, lui c’era e le ha permesso di apprezzare tutto quello che ha avuto dalla vita, a cominciare da suo marito. Ecco perché non si sente in colpa.
E’ difficile da spiegare e far capire che tra Ambrogio e lei non c’è mai stato un rapporto carnale. Baci, abbracci, tenerezze… ma senza mai andare oltre per non infrangere la loro intima magia.
Tutto doveva rimanere come nell’estate del 1949.
Ambrogio conta dodici rintocchi.
Inizia l’ultimo giorno. Stavolta sul serio.
Ancora poche ore.
Ha un masso che gli schiaccia lo stomaco.
Chissà se Marianne sta dormendo. Il respiro sembra regolare.
Com’è cambiato il suo corpo in questi anni!
La donna che circonda con le proprie braccia molli è stata il suo motore. Tutto quello che ha fatto, nel lavoro come nella vita, ne è il frutto.
Impossibile spiegare di non aver mai tradito Olga. Ignora se lei, attraverso quegli occhi tristi, intuisse le ragioni dei suoi viaggi annuali a Torino.
E adesso?
Ha vissuto senza di lei dal 1949 al 1969. Ma era giovane, pieno di energia, e aveva accanto Olga. C’erano il lavoro, in fase di costruzione, e la famiglia in accrescimento. E forse un presagio, in fondo al cuore.
Il loro amore è stato e sarà Unico.
Come nell’estate del 1949.
*
«Signori, in carrozza, per favore».
La voce del controllore è cortese e ferma.
Il treno partirà alle ore 17, in perfetto orario. D’altra parte, un convoglio diretto in Svizzera non può che spaccare il secondo.
Marianne sorride alla battuta di Ambrogio. Non è cambiato. Quando è nervoso, nasconde l’ansia dietro l’umorismo.
Lei, invece, tace.
Vorrebbe dirgli ancora tante cose, come se anni e anni fossero stati insufficienti.
Vorrebbe piangere per sfogarsi ora e non rischiare di farlo in viaggio, da sola, o a casa, davanti a Umberto. A parte l’addio a Lignano, nel ’49, non ha mai pianto perché sapeva che si sarebbero ritrovati l’anno dopo, negli stessi giorni, nello stesso albergo.
Un minuto.
Soffiando aria, alcune porte si chiudono.
Sul marciapiede sono rimasti loro due, le mani ossute che si stringono.
C’è appena il tempo per l’ultimo, commosso bacio, poco più di uno sfioramento. Un abbraccio.
«Signori, prego, è ora».
Il controllore ha concesso tutto il tempo possibile. Non ricorda un addio così tenero fra due persone di quell’età. In genere, marito e moglie si scambiano un rapido bacetto e via.
«Ora va’».
Le parole conclusive dalla bocca di Ambrogio.
Le mani si sciolgono.
Sostenuta dal controllore, senza voltarsi, Marianne sale gli scalini metallici, mentre la porta le si chiude alle spalle.
Raggiunta la poltrona, accanto al finestrino, vi si lascia cadere.
Intravede Ambrogio. Sarebbe stato meglio l’altro lato della vettura.
Chiude gli occhi cerchiati e pieni di lacrime.
I bip di qualche orologio digitale.
Le 17.
Uno strattone. Il treno parte. Un metro, due metri.
Ora può sollevare le palpebre e guardare fuori.
Non c’è Ambrogio che le corre accanto.
*
Voltato verso la finestra, il Notaio Ambrogio Anselmo De Stefanis conta dodici rintocchi.
Le pesanti tende di velluto non sono tirate e la stanza è rischiarata da una luminosa luna piena.
Aperta, su una sedia, la valigia, con i vestiti ben ordinati. Basterà infilarci il pigiama, le ciabatte, lo spazzolino e il dentifricio. Sullo schienale dell’altra seggiola, piegati, solo gli abiti da indossare.
Stringe gli occhi umidi e li riapre, con l’irragionevole speranza di rivederla accanto a sé. Ma ormai Marianne sarà arrivata e avrà trovato qualcuno dei figli ad attenderla, probabilmente Nina, l’ultima, con la quale c’è un rapporto particolare.
Ansimando, si distende supino. Non riesce più a mantenere a lungo una posizione. Le articolazioni protestano. Vorrebbe trovarsi in una di quelle navicelle spaziali prive di gravità e galleggiare dolcemente nell’aria.
E’ pervaso da un senso di distacco, come l’ultimo giorno di lavoro, quando lasciò lo studio a Pietro e a Katia.
La sua fortuna fu che il passaggio avvenne il 31 luglio. Poco più di due mesi, e avrebbe ritrovato Marianne.
Ripensa a Olga e alla sua espressione triste. E poi a Marianne. Le due donne della sua vita. Poi c’è Katia, che è nel pieno di tutto.
Si commuove.
Da qualche anno, si emoziona facilmente. Spesso quando le cose sono già successe. E’ come se il pensiero di ciò che lo ha commosso lo commuovesse più di ciò che lo ha commosso.
Riflessione astrusa.
Chissà come la tradurrebbe in francese Monsieur Giacchero.
Due rintocchi.
Stanco, il respiro affannoso, Ambrogio abbassa le palpebre.
Il treno delle cinque e cinquanta, sempre quello, per partire col buio e accogliere l’alba strada facendo.
Quattro rintocchi.
L’orologino digitale che tiene al polso inizia a suonare. Ambrogio porta il braccio sotto le coperte per attutirne il cicalino, fino a quando non smette.
Immagina Marianne che riposa. Ne ode quasi il respiro, al punto che allunga la mano sull’altra piazza, un gesto ripetuto infinite volte, stanotte.
Non ha chiuso occhio e si sente tutto indolenzito.
Tenta di sollevarsi, ma ricasca giù.
Una seconda volta. Niente.
I minuti corrono.
Si agita.
Riprova.
Contraendo i muscoli raggrinziti, supera il punto di immobilità e si siede, puntellandosi con le braccia per non ricadere indietro. Tira il fiatone. Il cuore batte veloce.
Sono trascorsi appena tre giorni dall’arrivo. Nello scendere dal treno, un giovane gli ha calato il bagaglio, ma il resto lo ha fatto da sé. Ora non è in grado neppure di mettere i piedi a terra.
Gli vengono le vertigini. Il letto ondeggia. Le braccia tremano per lo sforzo.
Si lascia precipitare sul cuscino.
Il fiato è corto.
Cinque rintocchi.
E’ sfinito, uno sfinimento sereno, leggero, come se uscisse dal proprio corpo.
Galleggia dolcemente all’interno della navicella priva di gravità.
Il treno delle cinque e cinquanta chiuderà le porte e si allontanerà verso Roma.
Senza di lui.
Adesso sta bene, sdraiato nel comodo letto che ha condiviso con Marianne dal 1969.
Pochi minuti e si assopirà.
Festeggiati i novant’anni di Umberto, Marianne lo raggiungerà.
Torneranno a stringersi le mani, come alla stazione di Porta Nuova.
Non ci vorrà molto.
Al Principi d’Acaja, gli addetti alle pulizie passano a partire dalle dieci.