Paolo Cattolico
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Dirigente marketing in una multinazionale, scrive poesie e racconti da alcuni anni. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in vari concorsi.
Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (“Segnaposti”) con Armando Editore nel 2024.
La Regola 39
Comunicazione Esterna
A: John Crochton
Da: Detenuto 475, Paul Lavacro
Infermeria della Prigione di Stato
20 luglio 2028
Caro John,
scusa se ti scrivo così, dal niente. Si tratta del mio testamento, e ho poco tempo.
Devo anzitutto specificare che questa comunicazione, non essendo diretta al mio avvocato, non beneficerà della Regola 39 e potrà quindi venire ispezionata. Spero davvero che non ti dispiaccia.
Sono malato, John. Sto dettando queste righe all’infermiere, così gentile, perché non riesco più a stare alzato. Lui digita il testo, e lo stamperà. Poi mi solleverà per firmare.
Ti ho sempre portato via tutto, lo so. Ti ho detto mille volte che sarei cambiato, di credermi di darmi tempo, ancora un aiutino, e ti ho rubato tutto quello che ho potuto. Adesso non lo rifarei. Allora avevo qualcosa di strano; non provavo niente, per gente come te, che mi aiutava. Non provavo riconoscenza o cose simili. Vai a sapere.
Ricordo quando sembrava che tu ti fossi ammalato seriamente, e io avevo finto quel pentimento, quella parvenza di amicizia, che tanto ti aveva scaldato il cuore. In realtà era solo per starti vicino e rubarti tutto quello che potevo. Infatti me ne andai, appena fu chiaro che stavi guarendo. perché i medici avevano agito in tempo.
Eh sì, ero strano. Non riuscivo a vedere in nessuno, per quanto buono, per quanto amico e intenzionato ad aiutarmi, un essere umano. Per me eravate tutti, mah, forzieri, casse continue, chiamali come vuoi. Sorgenti di denaro. Niente altro.
Sentivo la gente parlare di amore e mi dicevo che era una roba da ricchi, come chi apprezza certi quadri o certe musiche raffinate; ma solo se ha la pancia piena. Io mi sentivo basilare, terra terra, e di queste cose non avevo bisogno.
Rubai a tanti altri, come a te. Rubai ai sacerdoti, fingendo di credere a quello che dicevano, abbastanza perché mi dessero fiducia. Rubai alle donne, che seducevo con la mia aria da cane bastonato. Dovunque si potesse.
Poi tutto cambiò, quando mi beccarono. Ero ormai un assassino. Per un incidente, in realtà. Ma non mi lamentai della sentenza. Pena capitale, e pochi giorni dopo ero al braccio della morte da cui ti scrivo, e dove risiedo da ormai sei anni.
Sei anni. Beh, devo confessarti: è stato il periodo più facile della mia vita.
Non dovevo più fingere. Ero un duro tra i duri. Qui tutti si approfittavano degli altri… alla fine era quasi meglio così, specie per gente come me, che queste cose dell’educazione non le aveva mai capite.
Vigeva la legge del momento, del tutto e subito. Ma, in un certo modo, vigeva anche un certo rispetto. Dopotutto eravamo tutti alla fine del giro, e non c’era nulla da dimostrare.
Poi successe qualcosa: mi offrii volontario per alcuni esperimenti sociologici, o psicologici, non so bene come chiamarli. Ed è di questo che volevo dirti brevemente.
*
Il primo esperimento fu strano. Dalla cella, mi trasferirono in un capannone con altri condannati. Ciascuno di noi aveva una sua “area”, una porzione di pavimento, con dei pannelli movibili, al posto dei muri. Le “stanze” così delimitate non avevano porta. Ognuno poteva andare dovunque.
Beh, presto capimmo che era meglio per tutti che ognuno restasse nel suo spazio e chiedesse permesso, prima di entrare in quello di un altro. Non per qualche strana regola di educazione, ma per pura convenienza pratica. Detto così sembra una banalità, ma fu lì che realizzai che, se io avessi rispettato lo spazio degli altri, avrei avuto una specie di diritto naturale ad avere il mio stesso spazio rispettato… non davvero una grande scoperta ma, per chi si era solo sentito dire queste cose, senza mai capirle appieno, lo fu.
All’epoca iniziai a ripensare a te. Al fatto che tu chiedessi permesso, per entrare nella mia stanza, quando mi ospitavi a casa tua, dove io non pensavo ad altro che sottrarti questo o quell’altro oggetto di valore.
Ci pensai molto.
Ora lascio che l’infermiere si riposi un po’, e riposo anch’io. Una piccola pausa.
*
Ci fu una seconda cosa che fecero, dopo averci dato quelle celle senza porta. Ci portarono dei gatti. Mi diedero un micio. Mio. Femmina. La chiamai Saetta. Allora incominciavo a stare male, coi sintomi di quello che ora mi sta portando via.
Saetta era cieca. La portavo con me ovunque, nel perimetro dell’hangar dove erano le celle, in mensa, nel cortile per le ore d’aria. Dormiva con me. Quando me la affidarono era nata da poco, e per lei dormire con me è stato sempre naturale.
Una notte, ricordo, stavo malissimo, sudavo, avevo la febbre.
Lei passò tutta la notte a leccarmi il viso. A farmi le fusa.
Io le passavo spesso una mano sotto la gola, oppure due dita sopra la testa… aveva molti modi di manifestarmi il suo affetto, compreso mordicchiarmi.
Un’altra volta, per andare a fare delle lastre, qui in infermeria, dovetti lasciarla in cella. Durante la visita feci pensieri orribili, ebbi paura di perderla. Temetti che fosse caduta al piano di sotto, che qualcuno dei nuovi arrivati la rubasse, non so.
Avevo il cuore che batteva, per la prima volta da quando ero adolescente, batteva per un altro essere vivente.
Durante il tempo della visita lei era rimasta sul letto, nel suo angolino. Quando tornai, sentì la mia presenza, dai passi o dall’odore, mentre mi avvicinavo alla cella. Iniziò a miagolare. Quando rientrai e la vidi… le feste. Le leccate. La sua testa contro la mia guancia.
Così capii che, dopo il rispetto per gli altri, ora era l’amore a fare ingresso nella mia vita. Mi accorsi di avere bisogno di lei.
Pensai a te, allora, all’amore che davi a tutti.
*
Le mie condizioni si sono molto aggravate, con l’inverno. La diagnosi è arrivata, pacata e inesorabile, il mese scorso. Mi resta molto poco da vivere, forse sei o sette giorni. Per un bizzarro scherzo del destino, è arrivato anche l’ordine di eseguire la sentenza capitale, il primo del mese prossimo. Vedremo chi dei due vince.
Ed ecco le mie ultime volontà, caro amico, permettimi di chiamarti così.
Vorrei lasciarti Saetta, e che tu ti prendessi cura di lei.
La Direzione del carcere è d’accordo.
Se ti va bene. Te la porteranno, il giorno in cui me ne andrò. O potrai venire a prenderla.
È abituata al calore e alla vicinanza di un esser umano. Non conosce gatti maschi… qui in galera avevamo solo femmine. Quindi probabilmente troverà l’amore. Avrà dei figli… avrà certo bisogno di aiuto
Ricordo che avevi i gatti, in casa. E la tua oca, Gilda.
Faresti di me un uomo felice se accettassi Saetta nella tua famiglia.
Lei è qui con me ora. Sonnecchia, mentre, con molte pause, finisco di dettare la lettera a questo buon uomo.
Ti prego di perdonarmi per non aver mai capito che si può amare senza voler nulla in cambio. Ti lascio tutto il mio amore, racchiuso in questo batuffolone di pelo, vispo e affettuoso.
Ti benedico,
Paul
Egregio sig. Crochton,
sono Albert, l’infermiere che ha assistito, nei suoi ultimi giorni Paul, autore di questa lettera. Mi permetto di aggiungere qualche parola.
Dopo il consenso, da lei accordatoci al telefono, a ricevere il gatto, gli abbiamo comunicato la notizia, e ne era felicissimo. Le sue condizioni sono poi improvvisamente peggiorate e il giorno successivo è entrato in coma, spegnendosi circa ventiquattr’ore dopo. Il gatto gli è rimasto sempre vicino.
So che lei verrà a prenderlo questo pomeriggio. Paul mi ha lasciato alcuni altri oggetti per lei. Dei disegni, delle cose che scriveva. Li ho raccolti in un plico, che le verrà consegnato insieme alla gabbietta.
Per quanto sappia di quali crimini si sia macchiato, devo dire che Paul è stato sempre un detenuto modello, silenzioso e riflessivo, pronto a dare una mano a chiunque.
Quando vedo cose simili, mi chiedo sempre che cosa ci sia di sbagliato, nel nostro sistema, se bastano poi una porta aperta e un gattino cieco a cambiare così radicalmente una persona.
Come avrebbe detto lui, vai a sapere.
Albert K.– Badge 35627
Infermeria della Prigione di Stato
14 luglio 2018
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