Ruggero Dittadi
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Laureato in biologia, ha svolto l’attività di ricercatore e dirigente di Laboratorio Analisi a Venezia e Mestre per alcuni decenni. Ha diretto strutture operative, collaborato alla stesura di linee guida e ha pubblicato oltre 150 articoli scientifici. Da poco in pensione, pur mantenendo un ruolo nell’ambito scientifico nazionale, si dedica anche ad altre attività, fra cui la storia e la narrativa.
Ha già partecipato a:
Presentazione
Tutto comincia con un ricordo d’infanzia: una storia raccontata dal nonno, che narra di una fuga avventurosa sui tetti di Venezia e di un misterioso incontro con un mondo nascosto, popolato da anime dimenticate, ciascuna con una storia da raccontare.
Tra queste, spicca quella che parla di un antico trattato di astronomia, redatto nel IX secolo da un sapiente di origini persiane, colmo di scoperte straordinarie e pericolose.
Inizia così un viaggio a ritroso nel tempo, con il trattato al centro della scena, attraverso epoche e personaggi che lo custodiscono o lo inseguono: l’umanista rinascimentale che lo ritrova e lo nasconde dietro un codice cifrato, il frate lacerato tra fede e conoscenza, il paleografo ottocentesco che ne intuisce l’esistenza, la studiosa siriana che riesce a decifrare il codice ma non potrà rivelare il nascondiglio.
Più recentemente, due professori veneziani -uno dei quali discendente del mentore della studiosa, anch’egli coinvolto nella ricerca- vengono contattati da un enigmatico collezionista e riportati sulle tracce del trattato.
Ma ancora una volta, la verità si sottrae.
Il racconto iniziale ritorna infine, come un’eco, e il cerchio si chiude su un finale aperto.
La narrazione, intrecciando personaggi storici realmente esistiti e vicende immaginarie, si muove su un doppio binario: accanto alla trama fantastica resta sempre aperta la porta alla razionalità.
Perché alcune verità si lasciano solo sfiorare.
La fragile ricerca di una verità sfuggente
I
Venezia, a essere un acrobata, la potresti girare anche camminando sui tetti.
Certo, un acrobata bravo, uno specialista di parkour. Però, forse, ce la faresti.
Come in altri centri storici di stampo medievale, le case sono tutte addossate, e molte calli e canali risultano abbastanza stretti da poter essere superati con un salto. Perfino passare da Citra a Ultra, da una all’altra delle due parti della città separate dal Canal Grande, sarebbe teoricamente possibile. Il Ponte di Rialto ha ai lati due righe di negozi coperti, quindi, in fondo, c’è un tetto anche là.
Proprio di camminare per Venezia in bilico sopra le case qualche volta fantasticavo, quando da bambino mi mettevo seduto sulla soglia della finestra, coi piedi fuori a penzoloni, a guardare la distesa di tetti intorno a dove abitavo. All’epoca stavo in una grande mansarda, al quarto piano (che per Venezia è già una discreta altezza). La sera si dormiva in una stanza nell’appartamento sotto, abitato dai miei nonni. Ma durante il giorno casa mia era quella mansarda, dove si mangiava, io giocavo e mio padre, che non aveva ancora avviato il suo negozio, riparava gli orologi in un angolo attrezzato.
E sui tetti, bucati delle corti interne e tagliati dalle fessure delle calli, laggiù in fondo spiccava un grande abbaino, che si apriva direttamente fra i coppi rossastri di una casa distante. O meglio, non si apriva, perché le grandi balconate, annerite dal fumo e dalle intemperie, erano sempre chiuse.
Dopo qualche anno mio padre prese in affitto un appartamento al secondo piano dello stesso stabile. Era comodo, avevamo sempre i nonni vicini, e la mansarda divenne una stanza da disbrigo, dove, quando salivo a trovarli, ogni tanto potevo ancora andare a curiosare tra le vecchie cose di famiglia.
L’abbaino era sempre là, e lo guardavo con ancora più interesse dopo il racconto che un giorno il nonno mi fece.
Venezia, 1967
Ero nel suo studio, dove qualche volta mi fermavo, e da più piccolo mi divertivo a imitarlo facendo finta di “fare i conti”, sul retro di vecchi volantini elettorali del Partito Comunista su cui c’era scritto un curioso “VOTA PAJETTA”, o qualche altro personaggio che vedevi nelle Tribune Elettorali (io ero un grande tifoso del Partito Comunista, alle elezioni eravamo in alta classifica, ma poi la Democrazia Cristiana finiva sempre per vincere). Lui era appena andato in pensione, ma si occupava ancora di contabilità e, come si è potuto intuire, militava ancora per il partito.
Non era un gran chiacchierone, il nonno. Avrebbe avuto tanto da raccontare, ma preferiva godersi la sua pipa e fare i suoi “conti”. Anche quando raccontava, non dava mai gran peso alle sue storie, minimizzava.
Quel pomeriggio però, lo vedevo sfaccendato, in piedi davanti agli scaffali a scorrere con sguardo distratto i libri, con la pipa spenta fra le mani. E così cominciai a chiedergli proprio di quei tetti che avevo osservato giusto qualche ora prima, e di quel grande abbaino. Credevo se la sarebbe cavata con qualche rapida notizia, o qualche suo “no me ricordo…”.
Invece mi guardò fisso, e facendo un ampio gesto con la mano esordì con un «te gò mai contà …?»
E cominciò appunto a raccontare.
Venezia, novembre 1944
La fuga
Il 27 settembre 1944 un gruppo di nazifascisti aveva fatto irruzione nella sede veneziana delle Assicurazioni Generali, dove ritenevano funzionasse, non del tutto a torto, una sede aziendale del Comitato di Liberazione. Dopo una lunga perquisizione, non trovarono nulla di significativo, ma ventisei fra dirigenti e impiegati furono comunque arrestati. Fra questi c’era anche il nonno, che lavorava là. Vennero trattenuti in carcere, dove fortunatamente se la cavarono con degli interrogatori, conditi magari da qualche sonoro schiaffone. Solo Angelo Furian, un commesso, che faceva parte della Brigata “Biancotto”, fu individuato e portato a Verona, dove resistette eroicamente ai pestaggi. Dopo un paio di mesi fu deportato in un campo sul Brennero, dove restò fino alla Liberazione. Nemmeno per gli altri, però, la situazione poteva dirsi tranquilla. In quei mesi, anche senza vere prove di un coinvolgimento politico i prigionieri venivano rilasciati con difficoltà, rappresentando ottimi “ostaggi” per eventuali rappresaglie. Per una serie di circostanze propizie invece la polizia nazista alla fine si disinteressò della cosa, e dopo una quarantina di giorni i repubblichini li liberarono.
Ma dopo qualche settimana ci fu una serie di arresti, e in una di quelle notti una banda di fascisti armati arrivò anche sotto casa del nonno, urlando di aprire.
Era evidentemente emerso qualcosa a suo carico. In fondo, solo per il fatto che era iscritto al partito comunista da oltre vent’anni, era stato già un miracolo che fosse uscito dal carcere pochi giorni prima.
Il nonno si rifugiò sulla mansarda. Per salirci c’era nel salottino una porta di legno, dipinta esattamente come il resto del muro, a due colori, con perfino un quadretto attaccato al centro. Me la ricordo bene, sembrava quasi un passaggio segreto. Non certo invisibile, ve lo assicuro. Ai tempi della fuga, però, era tutto più nuovo: niente crepe o cerniere visibili. E poi quei fascisti erano una soldataglia grezza e violenta, non certo attenti poliziotti. Dopo aver sfondato la porta, perquisirono l’appartamento sommariamente, mettendolo a soqquadro senza però accorgersi di nulla.
Ma come saperlo prima? Il nonno non poteva rischiare di aspettare lassù.
L’abbaino
Apre allora la finestra, la riaccosta con attenzione e poi si avventura sui tetti. Cammina per qualche decina di metri, poi si acquatta dietro un grosso camino, con le finestre della mansarda in vista. Piccoletto e tarchiato com’è, non è certo l’acrobata di cui fantasticavo prima, e in verità non può fare molta altra strada senza rischiare di schiantarsi in basso sui masegni, la pavimentazione della calle.
Di fronte a lui si staglia quel grande abbaino che si vede dalle sue finestre. La luna illumina il portone, che è chiuso. O no? Non si capisce. Il nonno si avvicina, lo tasta, è solo accostato.
Tirando, una delle due ante si apre. Dentro il buio è fitto, ma bisogna rischiare. Richiude alla meglio, si ferma per abituarsi all’oscurità, procede a tentoni, incontra una scala di legno. Comincia prudentemente a scendere, un passo alla volta. Scende dieci gradini, venti, trenta, ma la scala non accenna a finire. Non ci sono porte sui pianerottoli, o almeno nell’oscurità non si intravedono. Il nonno è perplesso, ma anche incuriosito. ”Ormai dovrei essere arrivato al piano terra da un pezzo” si dice.
Finalmente, sulla destra, uno spiraglio di luce. Spinge la porta, che cede e si apre su una stanza debolmente illuminata. Si vedono due ampie poltrone imbottite. In una sta seduto un uomo piuttosto corpulento, di una certa età, in divisa da ufficiale della Prima Guerra Mondiale. Al nonno ricorda qualcuno, resta a guardarlo per qualche istante, ma è l’altro ad alzarsi e andare verso di lui sorridendo. «Bepi, allora sei arrivato!»...