Silvia Righetto
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Sono nata al Lido di Venezia e risiedo dal 2010 a Cavallino Treporti. Appassionata di libri da sempre (ancora non sapevo leggere e già adoravo passare le mie piccole dita sulle copertine dei libri di casa) e lettrice accanita, ho scoperto più di recente la gioia di esprimermi attraverso la scrittura.
Frequento un corso di scrittura a Milano e amo in particolare le storie mitologiche e i personaggi tratti dalla vita quotidiana, perché tutti noi siamo soggetti interessanti per un romanzo. Mi piace che i miei personaggi esprimano opinioni profonde, che possono essere in antitesi tra loro perché di fronte al sentimento non esiste giusto o sbagliato ma solo un intimo vissuto
Ha già partecipato a:
Un sabato qualunque
“Non mi sembra la giornata adatta per andare a correre in spiaggia.”
“Per un paio di nuvolette grigie e un filo di vento?”
“Almeno non fare il bagno oggi, con questo tempo il mare sarà agitato.”
Mi avvicino ad Alberto, l’espressione furba lascia intendere le mie intenzioni. In piedi tra la finestra e il letto, si sta abbottonando la camicia; lo abbraccio schiacciando il mio petto al suo e appoggio le labbra tiepide sul collo che odora di bagnoschiuma al pino, poi salgo con la lingua fino all’orecchio.
“Se non vai al lavoro possiamo fare l’amore tutta la mattina e rinuncio molto volentieri alla spiaggia” gli sussurro per provocarlo.
“Hmm… non ti è bastato prima? Sei una porcellina…”
Lo bacio ancora, con dolcezza, e comincio a disfare il lavoro appena concluso, stuzzicandolo col tocco lieve dei polpastrelli a ogni bottone che libero. I suoi mormorii sono un invito a continuare. Lo spingo sul letto e mi sdraio su di lui: immerge le mani calde nei miei capelli e mi prende la testa in quel modo che trovo tanto eccitante, mettendo i pollici sotto le tempie e tirando leggermente gli zigomi; mi fissa carico di desiderio e mi bacia con passione. Struscio l’inguine sopra i suoi pantaloni gonfi e i mormorii diventano gemiti. Una pressione leggera ma decisa e mi stende al suo fianco, afferra con foga l’interno della coscia e massaggia affondando le dita nella carne, sale accarezzandomi in mezzo alle gambe, si infila sotto la maglietta e, come se stesse spalmando un olio tiepido e setoso sulla mia pancia, avanza e si intrufola sollevando il bordo inferiore del costume, si riempie la mano col mio seno e stuzzica il capezzolo tra le dita.
Avverto un’intensa scia di piacere partire dalla testa e arrivare al pube, eseguendo volteggi e capriole quando passa per la pancia.
“Devo essere dal cliente tra mezz’ora” sbuffa, lanciando un’occhiata alla sveglia sul comodino, il palmo ancora colmo.
“Allora alzati che vado in spiaggia” lo pungolo, provocatoria, spingendolo via con una mano e trattenendolo per il fianco con l’altra.
“Ferma là!” Sgrana gli occhi, i suoi bellissimi occhi verdi. “Una sveltina si può fare. Dove vuoi che vada in questo stato?” Sorride malizioso, facendomi sentire il desiderio che preme sotto i jeans.
“Guardi, un traffico pazzesco… Eh sì, d’estate qui è sempre così… Ma si figuri, anzi le chiedo scusa perché avrei dovuto prevederlo e uscire prima… Mah, penso una mezz’oretta… Perfetto, e mi scusi ancora…” adduce banali giustificazioni al cliente intanto che sistema la camicia nei pantaloni. Con il labbro inferiore proteso in uno sproporzionato broncio, mi lancia sguardi di disapprovazione e scuote la testa perché sto tirando su le mutandine e i pantaloncini.
“Dai che usciamo insieme” lo invito appena finisce la chiamata.
Mi rotolo sul letto per scendere dal lato opposto: una tappa al bagno prima di uscire, lego i capelli in una coda alta sgambettando in calzini fino al salotto, aggancio sulla schiena il marsupio portacellulare e butto un occhio al messaggio che ho sentito suonare quando facevo pipì.
Muoviti!
“Cosa fai, mi mandi i messaggi?”
“Ahahah, dai muoviti!” ridacchia Alberto, allacciando le scarpe.
Metto il telefono nel marsupio e inforco gli occhiali da sole mentre mi avvio alla porta d’ingresso, chiudo a doppia mandata e infilo le New Balance assumendo una posa studiata per portare avanti il gioco erotico, assoluto protagonista della nostra mattinata insieme.
“Non ti guardo neanche, muoviti! Ti aspetto giù.” La pacca sul sedere che mi affibbia prima di scendere le scale tradisce la volontà espressa a parole. Sogghigno divertita, calzo la scarpa sinistra e lo raggiungo in giardino; lascio le chiavi nel vaso del cactus e usciamo.
Browningia qualcosa: così si chiama il cactus. È l’unica pianta di cui ricordi il nome (va be’, a parte rosa, violetta, girasole e margherita), perché quando la fiorista me l’ha detto sono scoppiata a ridere e le ho risposto che avere un ninja, e per di più marrone, davanti al portone era più sicuro di un antifurto.
Arriviamo alla fine della stradina in silenzio e ci diamo un bacio al volo.
“Resto dell’idea che non dovresti fare il bagno oggi.”
“È questione di un attimo: un tuffo, due bracciate e risalgo, giusto per rigenerarmi dopo la corsa. Poi vado a prendere Matilde.”
“Vai, e fa’ attenzione! A stasera” conclude, prima di schioccarmi le labbra sulla fronte.
La cosa che apprezzo di Alberto – una delle tante – è che mi dice sempre ciò che pensa senza imporre ragioni, rispetta le mie decisioni anche se vanno in direzione opposta ai suoi consigli, nonostante certe scelte mi portino dritta dritta a fare cavolate (e lui lo sa bene).
Dio, quanto amo quest’uomo!
“E ricordati che ti amo” dico a voce più alta perché si è già incamminato a destra con la postura un po’ storta per via del borsone pesante sulla spalla. Si deciderà mai a togliere tutte le cianfrusaglie accumulate lì dentro?
Prendo a sinistra e vado per la mia strada.
E neanche stavolta ha risposto anch’io. Quanto è passato da quando il suo eludere le risposte alle frasi d’amore mi dava ai nervi? È curioso, perché mi sembra fosse ieri e al contempo che sia trascorso un secolo. Figuriamoci dire ti amo per primo! Lo fa solo se ho appena fatto o detto una sciocchezza, come coi bambini nell’attimo in cui combinano qualcosa ma sono così graziosi che ridi e li abbracci. Io invece ho la mania – ormai è diventata un’abitudine – di voler lasciar cadere sempre una bella parola ogni volta che saluto le persone, perché non posso sapere se avrò un’altra occasione per rivederle e dire loro quanto gli voglio bene, come gli dona quel taglio, che è stato un piacere incontrarle o anche un semplice grazie: in ogni caso una bella parola può raddrizzare la giornata di chi la dice e di chi la riceve.
Cammino a passo sostenuto per scaldarmi.
L’aria è frizzante e le nuvole nascondono il sole; un sollievo dopo la canicola degli ultimi due mesi. Alberto non ha tutti i torti: lì in fondo si vedono delle nubi minacciose. Come si chiamavano? Le avevo studiate a scuola… Ora non mi viene. Oh, lo so, adesso diventerà un pensiero persistente.
Dovrei tornare indietro? O magari corro sulla ciclabile e poi rientro a casa. Ma si tratta del mio momento, il sabato mattina è per me: Matilde, la nostra piccola bimba terremoto, si ferma a dormire dalla nonna e io ne approfitto. Invece di crogiolarmi nel letto fino a tardi, mi sveglio prestissimo apposta per fare jogging sulla spiaggia e una nuotata al largo; dopo è sufficiente una manciata di minuti per asciugarmi alla buona e arrivo a casa prima dell’invasione dei bagnanti. E ce ne saranno anche oggi, senza dubbio: i veri appassionati non si lasciano intimidire dal tempo storto. Una volta rincasata: doccia fresca, colazione e sono pronta a imbottigliarmi nel traffico estivo per andarla a prendere; e guai a sgarrare l’orario! Ha cinque anni, non sa leggere l’orologio ma si accorge se tardo.
Dai, è deciso! Proseguo come da programma, faccio solo un bagno più breve, come ho promesso ad Alberto.
Cumulonembi e nembostrati, ecco come si chiamano le nubi che portano maltempo! Qual era la differenza tra i due? Boh!
I negozi sono ancora chiusi, c’è una tale pace intorno. Solo il bar di Vittorio è già aperto. E che profumino di croissant caldi… Sì, perché, sembra assurdo ma l’intensità e lo spessore dell’odore rivelano la freschezza del prodotto: e questi, ci giurerei, sono appena sfornati. Che paradosso: se sono freschi, allora sono caldi. Certo, a stomaco vuoto è una tentazione fortissima, senti che brontolio! Nel dialogo tra naso e stomaco si intromette anche la bocca esprimendo il proprio gradimento con un aumento della salivazione.
Che scema! Potevo mettere due soldi nel marsupio e fare colazione qua, al ritorno.
Nel pomeriggio vengo con Matilde e prendiamo un gelato!
…
Equilibristi in bilico sul fine settimana
E sulle immagini di sempre nei discorsi e nei pensieri
Dilaga anacronistica la musica di ieri
…
La musica che esce dal bar di Vittorio avvolge allegramente, senza invadere con prepotenza, il segmento della via qui di fronte. Ha un andamento swing trascinante e mi ritrovo a tenere il ritmo con la testa e le spalle. Anche il passo ha cambiato cadenza.
“Marta.”
“Ciao, Silvia” ricambia lei alzando la testa dai tavolini esterni che sta pulendo.
“La piccola?”
“Dalla nonna. Più tardi la prendo. Ci sei a pomeriggio se veniamo per un gelato?”
“Attacco alle quattro.”
“Perfetto. A dopo.”
Solleva lo straccio per salutarmi e ricambio con una strizzata d’occhio.
Ma l’ho già sentita ‘sta canzone. Provo a seguire il cantante a mezza voce balbettando paraparaparapa. Cavoli, la so, la so… Paraparapa
Due netturbini scendono dal minicompattatore.
Paraparapa
“Ciao, Silvia.” La voce profonda di uno dei due richiama la mia attenzione.
“Ehi, Loris.”
“Vieni a bere un caffè?”
“Sto andando a correre. Saluta Diana e dille che la chiamo in settimana per un aperitivo.”
“Sarà fatto.”
“Grazie.”
…
Mi rende tollerabile perfino la gastrite
E in questo sabato qualunque
…
“…sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato. L’amore…” (La notte! Non era l’amore?) “è un dirigibile che ci porta viaaa, lontaaanooo…” Ecco cos’era! Con le ultime note della strofa ho recuperato la canzone e mi sono agganciata canticchiando il ritornello.
Ma chi la cantava? No, va be’, non ci provo neppure, sono sicura che non è alla mia portata. Era più facile con i cumulonembi e nembostrati. C’è da dire che è la colonna sonora perfetta per la corsa del sabato mattina. Azzeccatissima!, rifletto lasciando indietro l’aroma dei croissant e l’eco della voce di… No, niente non mi viene.
Devo tornare però, a coro. Mi manca cantare in gruppo, le prove fino a tarda sera, tutto quel trucco e parrucco per gli spettacoli, il palco… Sì, devo pensarci sul serio.
Supero l’ingresso del parco vuoto e inizio a correre. Sento subito la sensazione di leggerezza delle prime falcate.
Ah no, non è vuoto, c’è un tizio col cane! Noto di sfuggita, mentre oltrepasso la ringhiera che separa l’area giochi dal via vai pericoloso per i bambini.
Sulle strisce pedonali butto un occhio e poi procedo spedita, non ci sono auto. Incrocio un signore che fa Nordic Walking, avrà sui settant’anni: tanto di cappello! Chissà se anch’io sarò così arzilla e scattante. Ammiro la tenacia di certe persone, riescono a conservare l’entusiasmo per tutto a qualsiasi età, credo siano quelle che non hanno mai perso il loro animo bambino, che ancora sanno dire ooh e spalancano gli occhi davanti alle primule che annunciano la primavera e alle vie illuminate sopra i banchi dei mercatini natalizi. Secondo i miei amici io sarei proprio così, quindi tra trent’anni potrei essere la vispa signora che fa jogging e lascia indietro i ventenni sul monopattino.
Alziamo contemporaneamente la mano come gesto di saluto, la sua si porta dietro il bastone sportivo e due dita spuntano dall’impugnatura come nel segno di vittoria – il suo braccio è ancora bello tonico, caspita! Mi coinvolge in un sorriso bianchissimo. Sorride col mento proteso in avanti, sorridono gli occhi, il collo, la fronte, il braccio sollevato: tutto il corpo di quest’uomo sorride. Wow!
Travolta da tale energia continuo a sorridere persino ora che l’ho superato. E sto ancora sorridendo quando noto un altro jogger mattiniero sul lato opposto del marciapiede; giovane e figo stavolta. Il classico biondo ramato col capello folto e mosso, alto e atletico, con buone probabilità un tedesco in vacanza al campeggio. Mi volto, ancora con l’espressione serena ed ebete stampata dall’incontro precedente, e lascio cadere lo sguardo sul sedere di questo pezzo da novanta: i pantaloncini da corsa aderenti blu elettrico mettono in evidenza un bel paio di glutei squadrati e muscolosi.
“Manfred, Liebling, warte auf mich!”
Guardala lì, la stangona bionda, come richiama all’ordine il suo uomo. Cosa gli avrà mai detto? Io il tedesco non lo so. Forse Manfred, c’è una che ti guarda il culo! Manfred si volta e corre sul posto per aspettarla, così faccio caso che pure davanti è ben attrezzato.
Me la rido sotto i baffi e proseguo per la mia strada.
Mi trovo a riflettere sul fatto che chi corre con le cuffie si perde attimi di vita dal sapore di sit-com o di vignetta della Settimana Enigmistica, oltre a tanto altro. Io non le porto quasi mai, preferisco osservarmi intorno, sentire i rumori, il cambiamento del respiro e smarrirmi nelle mie elucubrazioni. Lo sto facendo anche ora. Lo faccio in continuazione. Distratta dalle cuffie mi sarei potuta perdere i saluti di Marta e Loris, i lati B e A del tedesco e la voce squillante e gutturale (come sia possibile produrre nello stesso istante due suoni opposti per me resta un mistero di quella lingua) della parente di Alica Schmidt.
Il telefono, però, lo porto sempre: dopo la volta in cui mi sono sentita male correndo non lo dimentico più.
Ma guarda ‘sto pazzo! Un SUV nero esce dal cancello del campeggio e svolta come se esistesse solo lui nell’universo: senza rallentare, senza guardare; va bene che a quest’ora la via è deserta, ma la volta che lo dai per scontato è spesso quella dove ci scappa l’incidente. Un minuto prima e prendeva in pieno Alica la stangona.
Non era il suo momento. A mio avviso anche la morte, come tutto ciò che succede nella vita, dipende da noi, ne siamo noi i responsabili. Non credo al caso. Homo faber fortunae suae è una specie di mantra per me, impronto il mio agire su tale premessa. E vale anche per la morte.
Non saprei dire se abbiamo una data di scadenza riportata nel DNA; ripenso a immagini scioccanti, come il camion della Basko sul ponte Morandi a pochi metri dal baratro mentre gli altri mezzi sprofondano nel vuoto, e propendo per il sì: è possibile che dentro di noi sia riportata la data di inizio e fine. Però il come morire sostengo dipenda dalla nostra volontà.
Non espongo a chiunque il mio punto di vista perché la morte è un tema delicato e ognuno ha il proprio vissuto: chi ha perso qualcuno in circostanze tragiche, magari un familiare giovane per una malattia lunga e dolorosa, potrebbe adontarsi o, peggio, soffrire a causa delle mie parole, pur trattandosi solo di una riflessione personale. È sempre stato un pensiero latente in me, come un bruco che diventa crisalide e nel silenzio buio del bozzolo si trasforma; allo stesso modo questo sentimento sulla morte si è formato nella pancia ed è strisciato fino al cuore dove ha costruito il suo bozzolo, per prendere forma e mostrarsi quando fosse stato pronto. È stato il film The rain man che ha permesso alla farfalla di rompere la cuticola e volare. Raymond non vuole prendere l’aereo e sebbene il fratello Charlie lo tranquillizzi spiegando che è il mezzo più sicuro e gli proponga altre compagnie tra cui optare, lui niente; elenca una serie di disastri aerei e sceglie di viaggiare in auto, nonostante l’elevato numero di incidenti stradali. Dunque, poniamo che per quel giorno ci fosse scritta la data di scadenza di Raymond: lui avrebbe scelto come morire, cioè sulla terraferma e non per aria.
“Ma che ca…!” brontolo a mezza voce, saltando le feci mollate qui in mezzo al marciapiede.
Quando avevo il cane la tiravo su la cacca, cavoli! Quant’era dolce e paziente la mia Kira, con la maschera marrone sul muso ormai ricco di peletti bianchi…
A cosa pensavo prima dell’azione atletica anti-pestamento? Ehm… Ah, il come morire! Lo so che è una convinzione poco popolare e che non trova molto seguito, ma ci ho ragionato parecchio, non è una teoria campata in aria. E se anche fosse tutto sbagliato, non lo scoprirò ancora per un bel pezzo, suppongo. Nel frattempo è un’intuizione che rende la morte non solo un evento da non temere, ma mi permette di riconoscerla come un avvenimento addirittura bello: si muore da che mondo è mondo, è naturale, si dice perfino passare a miglior vita (mah!, credo sia un’espressione inventata per allontanare la paura del vuoto e del nulla); non ci sarebbe la nascita senza la morte, non ci impegneremmo a crescere se fossimo eterni, non ameremmo con lo stesso trasporto se fossimo immortali. Gli dei greci, quei mattacchioni che facevano e disfacevano a loro piacimento dall’alto dell’Olimpo, erano convinti fosse un limite la caducità dell’essere umano, eppure a ben vedere chi di loro ha fatto percorsi strabilianti e coraggiosi come Danae, Arianna, Edipo, Achille? Direi di più: solo quando sono entrati a stretto contatto con gli umani – perché travolti dall’odio o dall’amore – hanno mostrato un lieve cambiamento, una sottile evoluzione: come la gelosa e vendicativa Afrodite che cede al sentimento sincero tra Amore e Psiche e acconsente alle loro nozze, o Ade e Persefone che provano pietà per l’innamorato Orfeo al punto da concedergli di riportare Euridice tra i vivi.
Ci risiamo, le solite divagazioni sui miti greci: è proprio una fissazione, la mia! Se non li metto in mezzo come il prezzemolo non sono contenta.
Allora, Silvia, prima di raggiungere il parcheggio laggiù prova a tirare fuori un’altra similitudine senza coinvolgere la mitologia. Vediamo un po’… Mannaggia… Trovata! Gli uomini sono come i protagonisti di un romanzo che compiono un percorso evolutivo dall’inizio alla fine, gli immortali come i personaggi che aiutano il protagonista o gli mettono i bastoni fra le ruote ma il più delle volte la loro personalità resta immutata nel corso dell’opera.
E a me, piacerebbe conoscere la data di scadenza? Impiegherei i miei giorni in maniera più produttiva se fossi consapevole di quanti ne restano? Le volte in cui ci rifletto mi rispondo di sì, vorrei saperlo e userei meglio ogni istante a disposizione: per chissà quale ragione, sembra non sia possibile farlo se non avendo il tempo contato. Però quando una mia ex collega, Eleonora, ha chiesto a me e Valentina, l’altra collega, come sceglieremmo di morire se ci fosse data l’opportunità, ho risposto senza indugi che aspirerei a salvare la vita a qualcuno. Un obiettivo tanto elevato, mi rendo conto, cozza con la premessa: infatti, avrei lo stesso il coraggio di salvare una vita consapevole che stroncherei la mia? Ci si butta nel pericolo con temerarietà: l’incoscienza che ci porta a giocare il tutto per tutto verrebbe schiacciata dalla certezza del risultato.
Di una cosa, però, sono sicura: vorrei morire sorridendo. Il mio sorriso sarà il lascito a chi mi vedrà, il ricordo perenne nelle loro menti, un monito a come affrontare la vita e l’ultima firma a sigla di ciò che sono stata. E tutto in un paio di labbra stiracchiate. Dicono che lo senti, il momento esatto in cui stai per morire: angeli o amici e parenti trapassati vengono a braccia tese per condurti… Dove? Se è così, se lo percepirò, allora stiracchierò le labbra e lascerò il mondo materiale con volto lieto. Anche il settantenne di prima saluterà tutti con la gioia disegnata in faccia, ci scommetto!
Ah! Spero inoltre che Alberto si ricordi di dare una grande festa, dove chi mi ha conosciuta chiacchieri raccontando aneddoti divertenti sul mio conto e chi non mi ha conosciuta possa scoprire chi ero ascoltando le figuracce che sono stata capace di seminare in vita. Gliel’ho fatto presente parecchie volte e glielo ripeterò ancora, perché so che altrimenti andrà nel dimenticatoio.
In mezzo a questi pensieri (come ci sono arrivata a pensare alla morte? Oh sì, il pazzo in SUV) raggiungo l’ingresso della spiaggia e oltrepasso le dune che ne delimitano l’interno. I cespugli vibrano e frusciano. Che faccia ha fatto Matilde il mese scorso quando, in questo punto, ci ha superate lo scoiattolo rosso saltellando agile e frettoloso! Era tutta eccitata, è andata avanti a parlarne per tre giorni, finché la zia Tosca le ha regalato il diario segreto e da lì si è impegnata a riempire le pagine vuote con linee e ondine; per non parlare della responsabilità delle chiavi che aprono il lucchetto! “Mamma, lo mostro solo a te dove le metto. Non dirlo a nessuno!” Ah, quanto ti amo scriccioletto…
Il calpestio ritmato dei miei passi sulle tavole di legno della passerella, che serpeggia fino all’altezza del chiosco ancora chiuso, accompagna le chiacchiere degli uccelli e il brontolio della risacca. Inspiro a fondo il benefico odore salmastro e mi spingo verso la battigia.
Eccoli, i primi granelli di sabbia nei calzini. Un tocco di imperfezione in un contesto perfetto. Difficili da ignorare, non ci ho mai fatto l’abitudine e non sono stata in grado di vederne un solo risvolto gradevole. Lo so che passo passo alla fine li tollero, ma il momento in cui si insinuano, silenziosi e molesti, mi aggroviglia sempre la bocca dello stomaco.
Continuo la corsa col sibilo del vento nelle orecchie.
A quest’ora la spiaggia è solo mia, dei gabbiani e del signore sulla ruspa. Lo scorgo, in lontananza. Da lì non mi può vedere se lo saluto; peccato, gli faccio sempre un cenno passandogli davanti quando è qui vicino.
La cresta delle onde brilla colpita da alcuni raggi di sole sfuggiti alle nuvole. Nonostante la minaccia del clima direi che non si sta male oggi.
Qualche schifezza per terra non manca mai: il sacchettino di salatini pieno dell’aria che lo gonfia e della sabbia che lo tiene ancorato al suolo, la bottiglietta di plastica che si agita a destra e a sinistra come una lancetta impazzita.
Ho percorso un buon pezzo, sto raggiungendo gli ombrelloni del campeggio successivo. Guardo l’ora: quaranta minuti fatti, mi restano gli ultimi venti per concludere l’allenamento.
Torno indietro per la strada appena percorsa, confondendo le impronte. Lo scricchiolio delle conchiglie mi accompagna ora che non sento più lo zufolio dell’aria.
Matilde le raccoglierebbe tutte, se potesse. La casa è invasa dalle conchiglie. Che poi, le porta e dopo non le degna più di uno sguardo. Si vede che il solo sceglierle le regala un’emozione speciale: scovare le forme particolari e i colori unici in mezzo a tanta vastità dev’essere esaltante; ma la vetta dell’entusiasmo la conquista quando individua le più piccole, quelle che quasi si perdono nel palmo della sua manina.
Con la coda dell’occhio scorgo un movimento in alto alla mia destra: un gabbiano, con le remiganti allineate, sta planando poco più indietro. Mi volto per osservarlo e procedo correndo a ritroso. Si presenta con quel verso che chiamano garrito ma a me sembra un pianto, zompetta sulla sabbia lasciando tanti triangolini al suo passaggio e allunga il collo verso il sacchetto di salatini, ci infila il becco e lo ritira insoddisfatto.
Mi raddrizzo e guardo avanti.
Avevo letto, non ricordo dove, che cocái, il termine che usiamo qui in Veneto per indicare i gabbiani, deriva proprio dal loro verso, e può essere usato sia per riferirsi al garrito sia all’uccello. L’ho trovata un’informazione curiosa quella volta ed è rimasta impressa.
Controllo di nuovo l’orologio. Come immaginavo, è scoccata l’ora; ormai conosco i punti in cui è il momento di svoltare o di finire la corsa.
Percorro l’ultimo tratto fino alla diga camminando e respirando a fondo e comincio lo stretching portando un braccio dietro la testa e afferrando la mano con l’altro da sotto.
Cambio braccio.
Ora di nuovo respiri a fondo. L’aria fresca, dall’odore intenso, brucia quasi le narici mentre inspiro e sul mio corpo il contrasto col sudore fa venire i primi brividi.
Raggiungo lo scoglio, il mio scoglio visto che mi fermo sempre qua. È all’altezza perfetta per fare gli allungamenti delle gambe e piatto sopra per lasciarci i vestiti. L’ho individuato il primo sabato di aprile in cui ho cominciato la routine delle corse in spiaggia e l’ho adottato.
Inizio, dunque, con gli esercizi per le gambe, poi, come al solito, passo al collo e, infine, alla torsione della colonna. Inarco la schiena e colgo dei raggi che scovano un varco tra due nuvoloni. Mi rimetto dritta e noto che colpiscono il mare proprio sulla striscia in cui mi immergo di solito. Lo prendo come un invito.
Mi siedo godendo di quel piacevole dolore che i muscoli trasmettono dopo uno sforzo fisico. Il fresco della roccia dura passa attraverso la stoffa. Armeggio con le stringhe.
Squilla il telefono nel marsupio. X-Files, la suoneria personalizzata per le chiamate di mia mamma. Rispondo senza pensarci su, non vorrei avesse delle difficoltà con Matilde.
“Sì, mamma?” sbuffo nel telefono. Potrebbe essere il respiro pesante che si sta calmando dopo la corsa, oppure il mio abituale tentativo di autocontrollo che applico ogni volta in cui devo parlare con lei: butto fuori l’aria per calmare il sistema nervoso e avere un tono almeno apparentemente rilassato. Ora non saprei a quale delle due categorie assegnare questo sbuffo. “Passamela!” Sbatto le scarpe per scacciare i malefici granellini di sabbia, sfilo i calzini e li rovescio con lo stesso proposito, poi li appallottolo dentro le scarpe. “Amore mio… Cosa succede?... Un brutto sogno? Me lo vuoi raccontare?... Era proprio enorme, allora!... E l’hai affrontato da sola? Non avevo dubbi che fossi in grado!... Pure!... Be’, se Spirit è venuto a prenderti allora sarà finito bene… Al galoppo? Ma quindi andavate super veloci!... Addirittura senza sella?... Sì tesoro, dimmi… Io? Ho appena finito di correre e dopo vengo a prenderti. Fai colazione, accompagni la nonna al supermercato e poi ci vediamo… Quando la lancetta grossa è sul numero undici, uno e uno, e la lancetta sottile è sul dodici, uno e due, io sarò da te… Ah, il papà ha preparato il pasticcio che ti piace tanto… Amore, mi hai spaccato il timpano! Serviva gridare così forte?... Eh be’, se sei felice allora grida… Certo, ce lo mangiamo a pranzo. Me lo mandi un bacio?... Che bacio grande! A dopo, stellina. Ti amo.”
Chiudo la telefonata. Mia mamma è l’unica persona a cui non riesco a dire nulla di carino nell’accomiatarci. Nel nostro difficile rapporto d’amore conflittuale certe espressioni sono sbiadite nel tempo fino a sgretolarsi e ora non saprei proprio dove andarle a ripescare. Un po’ mi spiace, ma è la nostra normalità; una triste normalità dato che la parola sdegnosa o il tono astioso sappiamo sempre dove recuperarlo.
Un’ispirazione si accende come una scintilla e richiamo mia mamma. “… No, è tutto a posto. Sono sicura che tu questa la sai: come si chiama il tizio che canta Un sabato qualunque?... Sergio Caputo” esulto togliendomi questo tarlo, “Cavoli!... Ah, Un sabato italiano, non qualunque?... Se lo dici tu… Niente, l’avevo sentita e non ricordavo chi la cantasse. Perfetto. A dopo. Ciao.”
Riprendo a spogliarmi. Fa più fresco di prima, ma sarà perché sono rimasta qui ferma all’aria col sudore addosso.
La striscia di mare non è più segnata dal sole, è tornata cupa sotto il cielo chiuso che assomiglia a un grande coperchio grigio striato.
Sfilo i pantaloncini e la maglietta e lascio tutto, come sempre, in disordine sullo scoglio. Sgancio il marsupio, ci infilo dentro il cellulare e gli occhiali e lo poggio sopra il mucchietto. Un angolo di stoffa rosa della maglietta sbuca da sotto il marsupio e accenna un dondolio, come un piedino che tiene il ritmo di una musica dalla cadenza irregolare, forse jazz, o la linguetta di un gatto che si abbevera da una ciotola invisibile.
Con tre balzi scendo e lascio che la sabbia fresca sollevata dall’aria mi solletichi fino alle caviglie. Poi cammino verso il bagnasciuga e intanto sciolgo i capelli e assicuro l’elastico al polso. I ricci mi accarezzano la schiena dandomi i brividi e le folate sollevano i ciuffi più corti davanti: li recupero e li porto dietro le orecchie, ma si liberano e riprendono a sventolare sopra la testa come se avessi una corona. O forse l’aureola? Lo dico sempre che sono una santa.
Mi fermo sulla riva, dove le onde si infrangono e tornano indietro lasciando bollicine di schiuma bianca a circoscrivere la mia posizione. Un po’ infreddolita mi strofino le spalle in un intimo abbraccio; la pelle è umida e appiccicaticcia.
Respiro ancora, a pieni polmoni, l’odore del mare che tanto amo. Penso che non ho mai vissuto lontana dal mare: sono nata al Lido di Venezia e vedevo la spiaggia dal balcone, sono cresciuta trascorrendo le estati in Salento nella casa nativa di mia mamma tuffandomi da scogli enormi in un mare senza eguali, e sono venuta a vivere a Ca’ Savio dove posso raggiungere la spiaggia di corsa o in bici.
Sono qui, ferma e indecisa, i piedi che affondano nella sabbia scura e bagnata a ogni risacca.
In effetti il mare è agitato, forse è meglio non fare il bagno oggi.
Ma se non lo faccio devo aspettare una settimana: siamo a fine agosto, non è detto che sabato prossimo il clima sia dalla mia parte.
Come per rispondere ai miei dubbi spunta un raggio timido e forma un cerchio di luce tra due onde.
Ma sì, penso, da bambina ci giocavo coi cavalloni.
Scatto. I boccoli danzano sulle spalle e salto i frangenti a uno a uno; mi sento vent’anni in meno. Questa sensazione è la conferma di cui avevo bisogno: ho fatto bene a concedermi l’occasione.
Sono convinta e procedo. Ora l’acqua lambisce le cosce ed è difficile saltare. Mi tuffo e avanzo sotto la superficie, non senza fatica per via dei flutti; poi proseguo a bracciate mantenendo la fila di gavitelli bianchi alla mia destra e la diga a sinistra. Meglio non allontanarsi troppo. Ho promesso prudenza anche ad Alberto, e comunque non devo sottovalutare la situazione.
Questa corsa contro le onde è tanto stancante quanto rigenerante.
Mi fermo per riprendere fiato e riposare i muscoli. Cerco il fondale, non ci arrivo. Alla mia destra le boe non ci sono più. Ho superato il limite che avevo stabilito: la riva è una riga lontana, troppo.
Un principio di preoccupazione sale dallo stomaco e mi chiude la gola.
Non so se sia una percezione distorta dovuta alla stanchezza e all’ansia, ma mi pare che il mare si sia ingrossato, il vento alzato e nessun raggio di sole trovi più spazio tra le nubi.
Forse non avrei dovuto fare il bagno oggi.
Prendo un bel respiro per calmare i battiti del cuore e prepararmi a tornare indietro. Stavolta il moto ondoso mi aiuterà e questo mi rinfranca.
Riprendo le bracciate ma mi rendo presto conto che la corrente non mi accompagna, la riva non si avvicina: mi sto muovendo sul posto. Non mi capacito; continuo a nuotare e nel frattempo l’agitazione sale, l’ansito è sempre più rapido, gli schizzi mi obbligano a sbattere gli occhi mentre con orrore osservo di nuovo la riva lì, distante.
Un dolore lancinante al polpaccio mi colpisce all’improvviso. Cerco di afferrarmi la gamba. Cosa mi sta succedendo?
Mi guardo intorno per cercare un sostegno.
Un sostegno? Sono in mezzo al mare e non ci tocco.
Un’onda mi colpisce da dietro.
Mi avvolge. Grazie al cielo non mi sommerge.
I capelli in bocca. Voglio sputarli; boccheggio.
Il dolore è fortissimo. È come se qualcuno mi stesse torturando. C’è un mostro dentro che sta facendo della mia gamba quello che vuole; è fuori dal mio controllo.
Mi scuote.
Devo raggiungere la boa. Mi pare che sia di là.
Merda, dove sono?
Un’altra onda mi schiaffeggia e mi spinge sotto.
Il mostro mi tiene sul fondo.
Aria, Dio! Sto scoppiando.
Il polpaccio fa malissimo, sembra che debba lacerarsi da un momento all’altro, esplodere.
Le braccia si agitano per tornare in superficie.
Mi divincolo, spasimo.
Ci sono quasi, la mano è già fuori dall’acqua, sento il vento freddo sulla pelle bagnata.
Sii veloce, Silvia: inspira e trova la boa.
Riemergo, ma il mostro nel mio polpaccio mi ritira giù con la sua presa insistente, violenta.
L’aria era troppo poca. Un breve respiro affannoso. Non mi basta, i miei polmoni ne vogliono ancora.
Dio, dammi aria!
Da che parte è la riva?
Lascia la mia gamba, ti prego!
Non si vede un cazzo.
Il rumore dei flutti è un frastuono, rimbomba come un tamburo nella mia testa.
Se resto ferma forse torno a galla. Ma la gamba si muove, il mostro non mi molla.
Vedo la superficie. Un altro sforzo con le braccia e potrò prendere fiato.
Fa male, porca puttana! Lo vorrei urlare.
È troppo forte, non ce la faccio.
Ho bisogno di respirare. Dio, tirami su!
Dai che ci sono: di nuovo sento la brezza sulla mano e cerco qualcosa a cui aggrapparmi.
Che stupidaggine.
Sopra di me la linea mossa del pelo dell’acqua sembra promettermi luce e salvezza, se solo mi impegno in un ultimo, immane sforzo.
Ah, sì, grazie! Un suono grottesco, una vocale aspirata, esce dalla mia gola mentre divoro l’aria. Lo sento e mi spaventa, è un verso bestiale.
Il mostro mi tira di nuovo verso il basso e un’altra onda gli dà man forte, frustandomi e spingendomi dall’alto.
Mi scuotono. Mi schiacciano.
Mi brucia la gola, quel getto mi è entrato dentro.
Mi brucia il naso.
Devo tossire.
Non sento le braccia. Neanche l’altra gamba.
No, le sento, sono stanche, non ce la faccio più. Vorrei riposarmi solo un attimo.
Dio, ti supplico, portami a riva!
Vengo sballottata. Il mio corpo fluttua come un’alga, incapace di reagire. Sto danzando. Magari è Dio che mi porta in salvo?
Aria! Voglio aria!
Vedo il cielo, si fa beffe di me.
Dai, Silvia, forza con le braccia. Scalcia con la gamba libera.
Questo dolore è insopportabile, vorrei staccarmi la gamba.
Non ce la posso fare.
Potessi tagliarmela.
Se solo ci fosse qualcosa la taglierei, la squarterei.
Voglio piangere. Forse sto già piangendo, gli occhi mi bruciano.
Voglio gridare.
Voglio respirare.
Sento il mio cuore. È possibile? Lo sento battere nelle orecchie.
Sono tanto stanca. Il mostro continua a torturarmi la gamba.
Gli occhi bruciano e pesano.
Dove sono? Sto andando a riva?
Non si capisce niente qui sotto.
Il suono ovattato che mi circonda sembra abbracciarmi. Mi avvolge. Mi piace. Mi calma.
C’è silenzio.
Poi, fulmineo, come una lingua di fuoco che entra dalla bocca e si intrufola giù per la gola, un incendio mi divampa dentro. Spalanco gli occhi, una luce mi acceca; sento il petto squarciarsi.
Ca’ Savio, rinvenuto un corpo senza vita in spiaggia.
Donna deceduta per annegamento.
Ieri mattina intorno alle ore 8:00 l’addetto alle operazioni di pulizia del tratto di litorale che comprende l’area antistante i campeggi di Ca’ Savio ha rinvenuto il cadavere di una donna sulla spiaggia. Alla guida della ruspa ha notato un corpo riverso in acqua ed è corso a verificare. Ha allertato la Polizia e i sanitari del 118 i quali, dopo aver provato a eseguire le manovre di rianimazione, non hanno potuto fare altro che constatare il decesso.
Sul posto sono accorse le autorità di pubblica sicurezza, l’ambulanza e il sindaco. La Polizia e la Guardia Costiera hanno lavorato al fine di ricostruire la dinamica dei fatti, ma è risultato immediatamente chiaro che la donna si sarebbe spinta in alto mare nonostante le correnti avverse, avrebbe avuto un malore e sarebbe morta per annegamento. A riprova delle ipotesi avanzate ci sono gli effetti personali reperiti su uno scoglio vicino. Poche ore dopo il cadavere è stato rimosso e caricato sull’ambulanza che è uscita dalla spiaggia sotto gli occhi sconcertati dei responsabili del chiosco, dei bagnini e dei primi bagnanti che erano stati bloccati dagli agenti all’altezza del nastro di delimitazione bianco e rosso. L’esito dell’autopsia del medico legale renderà noto nelle prossime ore se la teoria della morte per annegamento è confermata.
“Ho capito subito che si trattava di una persona. Sono corso per vedere se aveva bisogno di aiuto ma non si muoveva. Ho riconosciuto la signora: la vedevo spesso correre in spiaggia il sabato mattina e mi faceva un cenno di saluto con la mano. Sono ancora sconvolto.” Queste le prime parole fornite dall’operatore che ha trovato il corpo.
“È da irresponsabili fare il bagno col mare così agitato” sostengono alcune persone dopo che l’ambulanza ha lasciato il lido. “Non si sa ancora chi sia. Che Dio l’accolga e che riposi in pace” è stato il sentimento dei più.
Nel pomeriggio della giornata di ieri è avvenuto il riconoscimento del cadavere che ha stabilito l’identità della donna. Si tratta di Silvia Righetto, di anni *, residente a Ca’ Savio. Lascia il compagno Alberto e la figlia Matilde di cinque anni straziati dal dolore. Al momento l’uomo non ha rilasciato nessuna testimonianza. Tutta la comunità è sotto shock, la donna era conosciuta e amata da molti. “Una tragedia” è tutto ciò che chiunque riesce a riferire, con gli occhi velati di lacrime.
Circolano voci riguardo a un incontro che il compagno della donna organizzerà per ricordarla in un clima disteso e familiare.
Le parole colte dalle conversazioni degli agenti lasciano intendere che il cadavere aveva il volto deformato e la bocca contorta dallo strazio patito negli ultimi attimi di vita.
Di seguito le foto dell’intervento delle autorità e il carico in ambulanza della salma avvolta nel telo bianco.