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Concorso Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa inedita
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Lorenzo Ratisti
Lagunando 2025 > AUTORI 2025 > Narrativa 2025
Nato a Firenze nel 1973, laureato in Scienze Politiche, scrivo racconti brevi dal 2013.
Ho ottenuto importanti riconoscimenti in diversi concorsi letterari e pubblicazioni in raccolte antologiche.
Attualmente sto lavorando ad un racconto più lungo il cui finale farà da collante a tutti gli altri. Otto racconti che andranno a comporre la mia prima raccolta.

Ha già partecipato alla edizione:
IL FIUME IN CASA


1

Ricordo bene la mia città. Ci ho vissuto gli anni più belli della mia vita.
Nel quartiere dove sono cresciuto, non c’era angolo che non avessi esplorato con i miei amici.
Correvamo felici per le strade polverose impersonando feroci pirati, banditi dal grilletto facile, cavalieri erranti in cerca di belle dame da salvare.
Amavamo giocare nei boschi e nei prati che si estendevano a perdita d’occhio subito dietro le abitazioni periferiche. Quelle che chiamavamo “le cantine”.
Anche se il nostro passatempo preferito era dare calci ad uno sdrucito pallone, ogni giorno ci inventavamo qualcosa di nuovo. Le arrampicate sugli alberi, la ricerca di nascondigli segreti, i combattimenti di Kazumi, una nuova e letale arte marziale messa a punto dopo anni di duro allenamento.
Uno dei posti dove andavamo più spesso era il vecchio camion abbandonato, adibito un tempo al trasporto della paglia destinata agli allevamenti locali. Riccamente decorato e dai colori sgargianti fra cui predominavano il rosso, il verde ed il giallo, si raccontava che arrivasse dal lontano Pakistan. Dopo un grave incidente in cui si era ribaltato, essendo ormai troppo usurato per essere rimesso in funzione, era stato abbandonato proprio al centro di un’ampia radura, divenuta negli anni piena di bisce ed erbacce. Ci salivamo e diventavamo come per incanto i protagonisti di fantastiche avventure vissute all’altro capo del mondo, in luoghi affascinanti ma pericolosi, respirando a pieni polmoni i profumi del lontano Oriente. Se fossimo stati più grandi, ci saremmo andati anche di notte, quando si diceva che si aggirasse il fantasma di uno degli autisti rimasto ucciso nell’incidente. Era facile immaginarlo sotto i raggi del sole, madidi di sudore e rossi in faccia per lo stupore dell’infanzia. Più difficile sarebbe stato andarci davvero, con nient’altro che il fioco chiarore della luna a farci compagnia.
Quando, all’età di undici anni, vidi “il piede”, avevo da poco iniziato a frequentare la prima Media. Nei mesi precedenti mi era capitato spesso di chiedermi come sarebbe stato quel primo anno alla scuola Marconi. Ero convinto che il tempo dei giochi sarebbe finito e che sarei entrato nel mondo degli adulti.
Successe davvero, ma non per via della scuola.

2

L’ultima estate in cui potei vivere da bambino, fu così colma di gioia e spensieratezza da permettermi di accumularne una bella scorta per gli anni a venire.
Di mattina mia madre stava con me, ed ero talmente felice che qualche volta acconsentivo di buon grado ad aiutarla con dei piccoli lavoretti domestici. Nel pomeriggio invece, dovendo lavorare nel piccolo ufficio della stazione, mi portava da nonna Bruna e nonno Serafino, i quali, essendo ormai troppo vecchi e malati, avevano a loro volta bisogno dell’assistenza di un simpatica signora loro vicina di casa. Era l’infaticabile Marina, col suo sorriso smagliante e la sua folta chioma di ricci neri, da me ribattezzata la “tata dei nonni”, che in pratica si occupava di tutti e tre. Quando la situazione si faceva troppo difficile da gestire, ci venivano in soccorso le mamme dei miei amici, invitandomi a casa loro.
Io non potevo chiedere di meglio, mi adoravano e mi trattavano come un principe. Al tempo credevo lo facessero per compassione, vedendo in me un povero bambino sballottato da una casa all’altra, bisognoso di tanto affetto. Invece poi ho capito che per loro rappresentavo una sorta di talismano per i figli. Erano inconsciamente convinte che, stando in mia compagnia, avrebbero evitato pericoli e persone poco raccomandabili, rimanendo al sicuro da brutti incidenti. Non so come mai lo pensassero, ma quasi sicuramente aveva a che fare col mio segreto. Come se ne portassi sempre un po’ con me. Un’aura invisibile posata delicatamente sulle mie spalle come un antico foulard.
Il momento che amavo di più erano la merende. Seduti su lunghe panche di legno mangiavamo di gusto pane e marmellata, oppure i dolci che ci preparavano con tanto amore. A volte ci deliziavano pure con pane, zucchero e vino. Prima che l’ultima briciola si sciogliesse in bocca, eravamo già fuggiti mezzi ubriachi a fare le nostre scorribande, inseguiti dall’eco delle loro raccomandazioni.
A casa mia non sono mai venuti, e naturalmente ero contento così. Sapevo che il mio segreto non sarebbe stato in pericolo, ma temevo che avrebbero potuto diffondere una qualche forma di contagio.
Il sabato era perlopiù dedicato a mio padre, visto che durante la settimana lo vedevo pochissimo. Facevamo delle escursioni lungo i sentieri che si inerpicavano su monte San Saverio, andavamo a vedere le partite della squadra locale di calcio, passavamo lunghe ore a pescare, la sua grande passione. Aveva anche costruito una canna tutta per me, un cimelio ormai perduto, che pagherei chissà quanto pur di riavere. La cosa di lui che ricordo con più tenerezza sono le rughe, ogni anno più marcate, sul volto concentrato ma sorridente, grato per la bellezza di quei corsi d’acqua che, inondati dal sole del primo mattino, luccicavano d’oro.
Ogni domenica alle undici in punto entravamo nella chiesetta di San Cristoforo e lì rivedevo i miei amici, tutti più seri e ben vestiti. Mentre il prete parlava non ascoltavamo una sola parola, intenti come eravamo ad inviarci messaggi telepatici per organizzare i giochi dell’indomani. Ogni tanto qualcuno cadeva vittima delle prime occhiate furtive lanciate dalle bambine e cercava, riuscendoci raramente, di non arrossire troppo.
Nel pomeriggio, se non andavamo a trovare qualche amico o parente, facevamo delle lunghe passeggiate, durante le quali ci poteva capitare di rimanere in silenzio per intere mezz’ore. Ed io me le godevo appieno. Perché in certi momenti si poteva anche fare a meno delle parole. Eravamo felici di stare insieme, un sentimento tanto semplice quanto profondo, talvolta bisognoso di una propria quiete per manifestarsi nella sua autenticità.
Arrivati a sera iniziavo già a fremere nella speranza che mia madre, il mattino seguente, avesse da sbrigare qualche piccola commissione e mi lasciasse da solo in casa. Ero abbastanza grande e talvolta succedeva. Solo di giorno e mai per più di un’ora. Ma a me bastava. Era un tempo più che sufficiente per immergermi nel fiume.

3

Il fiume, il mio segreto, il mio rifugio.
Non è facile parlarne e riuscire ad estrapolarlo dai contorni di quella che sembra una fiaba. Solo io riuscivo a vederlo, eppure era lì, ogni giorno incessante, ogni giorno saturo di pura energia.
Il fiume Renna scendeva da Monte San Saverio e attraversava da cima a fondo la città.
Non solo, attraversava pure casa mia.
Proprio al centro di quella che chiamavo “Camerona”, l’ampia stanza degli ospiti divenuta col tempo il prezioso deposito di tutti i miei giochi, scorrevano placide le sue acque, così limpide che riuscivo a vederne ogni singolo granello del fondale ghiaioso. Da quello che ricordo c’è sempre stato. Penso addirittura che sia nato e cresciuto insieme a me. Ho imparato a conoscerlo a poco a poco, come si impara a parlare e a camminare.
Non l’ho mai raccontato a nessuno per paura che scomparisse.
Appena qualcuno entrava nella “Camerona”, o semplicemente si affacciava alla porta, diventava quasi del tutto invisibile, una specie di balbettante trasparenza che sfiorava, come la carezza di un tenero amante, chiunque ci camminasse sopra, rendendolo per un istante simile al fantasma di se stesso.
Non ho mai creduto di essere pazzo né di avere le allucinazioni, mi sentivo semplicemente privilegiato ad essere l’unico che riusciva a godere di una simile meraviglia.
Talvolta ho avuto il sospetto che i miei genitori ne conoscessero l’esistenza, ma facessero finta di non vederlo. Volevano che il fiume fosse il mio compagno di giochi per quando stavo da solo.

4

All’età di nove anni trovai per la prima volta il coraggio di immergermi.
Mia madre stava lavorando in giardino. Se avessi sentito il cancellino d’ingresso cigolare, sarei balzato immediatamente fuori, avrei indossando l’accappatoio e mi sarei precipitato in bagno, fingendo di essere appena uscito dalla vasca.
Non sapevo nuotare, ma ciò non rappresentava un problema, in quanto l’acqua, nei punti più alti, arrivava a malapena a lambirmi le spalle. Ciononostante, avevo sempre temuto che la corrente mi avrebbe strappato dai miei affetti e trasportato lontano, in un’altra città, dove sarei stato costretto a vivere da orfanello.
Una famiglia senza cuore mi avrebbe adottato con l’unico scopo di farmi lavorare nei campi da mattina a sera. Una paura irrazionale che tante volte mi aveva bloccato.
Ma non quel giorno.
Così mi spogliai e in un attimo fui dentro. L’acqua era gelida, impossibile da sopportare. Ero sicuro che sarei morto.
Strinsi i pugni ferendomi con le unghie i palmi delle mani, il volto cristallizzato in una smorfia di dolore. Per qualche secondo persi conoscenza. La mia mente ebbe una breve battuta d’arresto, perché non era pronta a tradurre in emozioni l’affresco sul quale frammenti di ricordi si intrecciavano fra loro, come alghe divenute le uniche abitanti di un mare immaginario.
Confuse visioni mi avvolsero come in un sogno prolungato da cui era impossibile svegliarsi. Non appena un briciolo di coscienza riuscì a fare capolino, decisi di urlare, incurante del fatto che mia madre sarebbe subito accorsa e mi avrebbe trovato sdraiato per terra, nudo e semi paralizzato.
Ma non riuscii ad emettere nemmeno un suono.
Ci provai più volte, mettendoci tutta la forza possibile, ma fui costretto a desistere quando capii che se avessi continuato, quel grido inespresso mi si sarebbe incastrato in gola fino a farmi soffocare.
All’improvviso tutto passò e, indossando nuovamente i panni della realtà, mi accorsi con sorpresa che l’acqua non era più gelida ma anzi, mi stava accogliendo con ogni premura come fossi suo figlio. Un sorriso liberatorio si aggrappò ai miei occhi e decise di non volersene più andare.
Da quel giorno quando potevo mi tuffavo per un bagno rigenerante, non dovendo temere di essere colto di sorpresa dal ritorno dei miei genitori, perché non appena si avvicinavano al vialetto d’ingresso, il fiume cominciava a ritrarsi. Era come se decine di mani invisibili premessero sul mio corpo divenuto improvvisamente d’ argilla, cercando di plasmare un nuovo me. Avvertivo la spiacevole sensazione di un inizio di soffocamento. Perciò balzavo immediatamente fuori e, come un fulmine, mi rimettevo i vestiti, facilitato dal fatto che l’acqua scivolava via dal mio corpo e dai miei capelli come fossi stato impermeabile, e in un attimo era già evaporava, cancellando così ogni prova del bagno appena fatto.

5

Se il primo tuffo nel fiume fu un’esperienza estatica, capace di lambire inferno e paradiso allo stesso tempo, il momento più emozionante, quello che rischiò seriamente di farmi scappare il cuore dal petto, fu quando per la prima volta ci vidi nuotare un pesciolino.
Come facevo spesso, ero seduto sulla riva con i piedi a mollo, lasciando la mente vagare libera nel tempo e nello spazio. In particolare stavo ripensando con orgoglio a quando la maestra aveva mostrato alla classe il mio disegno. Campi coltivati, un serrato duello di pennelli intinti nel verde e nel marrone, il tutto prevaricato da una copiosa pioggia autunnale. All’improvviso captai un movimento impercettibile alla mia destra. Mi voltai sovrappensiero e vidi l’acqua incresparsi a più riprese. Poi una forma scura che avanzava verso di me. Infine riconobbi distintamente i contorni di un pesciolino non più grande di un mignolo. Rallentò la sua corsa arrivando fin quasi a sfiorarmi le caviglie. Indugiò qualche secondo, poi ripartì a tutta velocità e in un attimo sparì dalla mia vista.
Per me fu come una rivelazione. Non avrei mai pensato di vedere nel fiume una qualsiasi forma di vita. Ed invece da quel momento la natura iniziò a proliferare sempre più intensamente, conscia del suo personale tripudio. Non solo pesci ma anche insetti, rane, tartarughe e minuscoli gamberetti trasparenti. Iniziarono anche a crescere svariati tipi di piante come ranuncoli e ninfee.
Un giorno provai a pescare con la canna in legno che aveva costruito mio padre.
Non era stato difficile trovare un paio di vermi il giorno prima, scavando nella terra umida del giardino dopo un breve ma intenso temporale. Fortunatamente nessun pesciolino si fece ingannare dal mio sciocco tentativo. Per il solo fatto di averci provato, stetti male un’intera settimana, accusando febbre e dolori in tutto il corpo. Il fiume si era sentito tradito, e me l’aveva fatto capire.

6

Poi un giorno la magia svanì all’improvviso, e fu subito chiaro che nessuna preghiera l’avrebbe più potuta far tornare.
Era un tardo pomeriggio di Ottobre, freddo e piovoso. Mia madre, che da una settimana aveva smesso di andare a lavorare e passava intere giornate a leggere quei maledetti giornali, era dovuta uscire in fretta e furia, ma mi aveva assicurato che sarebbe rientrata al più presto. Ero un bravo bambino, e anche se ormai le ombre della sera si erano adagiate sulla città, per quella volta potevo restare da solo in casa, in compagnia delle luci di tutte le stanze, accese e sorridenti.
Da qualche giorno ormai il fiume non godeva di buona salute. L’acqua era diventata sempre più torbida, le piante sembravano avvizzire, e nessun pesciolino era più venuto a farmi visita.
All’improvviso vidi scorrere, trasportato dalla corrente, un piede nudo.
Mozzato all’altezza dei malleoli.
E insanguinato.
Nonostante il terrore che in un attimo mi gelò le ossa, riuscii a scappare in camera e ad infilarmi sotto le coperte.
La pioggia cadeva sempre più forte e i tuoni, prepotenti, iniziavano a farsi sentire.
I miei genitori rincasarono insieme, chiamandomi con voce affannata. Li sentivo correre da una stanza all’altra, urtando tutto ciò che incontravano sul loro cammino.  Riuscivo a percepirne l’apprensione, la paura. Non li avevo mai sentiti così.
Mia madre non riusciva più a trattenere le lacrime, il mio nome storpiato in un grido disperato.
Era una sirena quella che risuonava in lontananza?
E i boati in avvicinamento, erano davvero provocati dal temporale?
La porta della mia cameretta si spalancò ed io emersi timidamente dalle coperte, il volto rigato dalle lacrime.
Per la prima volta parlai loro del fiume. Senza indugi, convinto anzi di liberarmi finalmente da un peso.
“Mamma, papà, oggi ero seduto sulla sponda del fiume ed ho visto una cosa orribile scorrere nell’acqua”.
 “Cos’hai visto che ti ha così sconvolto Bruno?”
 “Il piede di un uomo, era tutto insanguinato”.
 “È la guerra Bruno, è la guerra”.
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